IFE Italia

LA MAMMA TRA CLERO CATTOLICO E CAPITALE FINANZIARIO

di Lidia Cirillo
giovedì 30 giugno 2016

Un altro interessante contributo sul tema della GPA (gravidanza per altri).

Pubblichiamo con il consenso dell’autrice.

L’articolo è pubblicato anche sul sito www.communianet.org

Mi sembra indispensabile tornare sul tema della GPA (gravidanza per altri) che chiamerò con la formula con cui è più nota, con la precisazione però che il conflitto ideologico riguarda anche il nome. Non si tratta di una questione che interessi solo gli ambienti femministi e queer. E’ intervenuto con una pioggia di articoli l’Avvenire, il quotidiano cattolico di fatto organo della CEI. Sono intervenuti dirigenti politici e sindacali, tribunali, intellettuali, bioeticiste/i, agenzie e naturalmente femministe autorevoli e associazioni dell’autorganizzazione  lesbica, gay e trans. Questo avviene perché la posta in gioco è alta sul piano etico, culturale e politico e meno che mai si presta alle semplificazioni e alle reazioni di pelle. Tuttavia anche le reazioni di pelle pretendono di essere spiegate, per esempio quella del rigetto che provocano (e non in me soltanto) molti degli argomenti delle tesi-pro e delle tesi-contro. Ho dato al fenomeno una spiegazione: all’attuale dibattito partecipano con un volume di voce assai alto due potenze della comunicazione, la burocrazia cattolica da una parte e i cantori del capitale finanziario dall’altra. Le due voci colpiscono con forza anche maggiore in un contesto di estrema marginalità politica della critica anticapitalista e di influenza sul femminismo del pensiero cattolico, filtrato attraverso la versione nazionale del cosiddetto “pensiero della differenza”. Si aggirano perciò nell’accesa discussione alcuni fantasmi ideologici che non aiutano ragionamenti già complicati dalla novità delle tecniche e delle relazioni che ne derivano. Il fatto che esse esistano da alcuni decenni, e che se ne discuta da altrettanti, non ne riduce il carattere di novità. Questo tempo è infatti anche meno di un battito di ciglia in confronto a tutto il tempo in cui gli esseri umani si sono riprodotti esclusivamente attraverso un naturale coito desiderato, imposto o subito.

Una bizzarra alleanza

I fatti prima di tutto.  Nel 2004 fu approvata per iniziativa del governo di destra una legge orribile e tutta ideologica sulla “procreazione medicalmente assistita” (PMA), la legge 40. Negli anni successivi alla sua approvazione la Corte costituzionale l’ha praticamente fatta a pezzi, dichiarando l’illegittimità dei principali articoli. Oltre che costituzionalmente non legittima, la legge 40 aveva aspetti demenziali. Secondo uno degli articoli, per esempio,  il trasferimento nell’utero degli embrioni poteva essere sospeso solo per grave e documentata causa di forza maggiore e comunque sarebbe dovuta avvenire il più presto possibile. Ci si chiese allora quale fosse la misura di quell’ “appena possibile” e che cosa sarebbe avvenuto se una donna non avesse avuto gravi motivi, ma avesse semplicemente cambiato idea. Alcuni medici dissero allora che non avrebbero potuto certo inserire con la forza gli embrioni nel corpo di una donna che non lo volesse.  Oggi i resti di quella leggiaccia integralista vengono considerate da un settore del lesbo-femminismo un presidio contro la barbarie della GPA. La questione delle tecniche di riproduzione è tornata all’ordine del giorno nella discussione sulla legge Cirinnà e soprattutto a partire dal dicembre 2015 con l’appello della rete femminista SNOQ, che chiede la messa al bando universale la maternità surrogata e la proibizione di riconoscere come genitori le coppie che hanno fatto ricorso alla surrogazione in paesi in cui la pratica è consentita. La seconda richiesta fa riferimento a una sentenza della quinta sezione penale del Tribunale di Milano che ha riconosciuto come genitori una coppia che si era recata all’estero per praticare la fecondazione eterologa. Se si tiene conto della logica con cui la rete è nata e di ciò che è diventata, con un tantino di legittima dietrologia si può ipotizzare che l’appello abbia lo scopo (almeno nelle intenzioni dei promotori, se non in quelle dei firmatari) di tranquillizzare i cattolici interni al partito e alcuni indispensabili alleati di governo.   Nel mese di febbraio 2016 si sono poi tenute a Parigi, presso il Parlamento francese,  Assise internazionali concluse da una Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata. Le Assise di Parigi e le vicende del Consiglio d’Europa hanno visto una vera e propria Santa Alleanza tra cattolici e promotrici dell’appello che l’Avvenire registra con legittima soddisfazione.   In un’intervista a Luisa Muraro, l’intervistatore afferma che la Chiesa si è battuta a lungo in assoluta solitudine, mentre di recente anche il mondo femminista più attento ha smascherato l’inganno dell’utero in affitto  come scelta libera, raccontando l’orrore e sposando la battaglia del mondo cristiano. Un’idea dei problemi che possono creare gli argomenti delle tesi contrarie alla GPA si può avere da due affermazioni di Luisa Muraro in risposta. La prima è che le femministe dovrebbero avere il coraggio di dire che l’etica cristiana non è contro le donne. La seconda una citazione da Nietzsche: “tutto nella donna è un mistero e tutto nella donna ha una soluzione: essa si chiama gravidanza” La seconda si commenta da sola. La prima fa il paio con un’altra. In una delle numerose discussioni degli ultimi mesi mi sono sentita rispondere, a proposito della Santa Alleanza, che non c’è nulla di male a trovarsi dalla stessa parte con il clero talvolta e su un tema specifico, per esempio sull’ immigrazione o sulla questione sociale. Queste giustificazioni dimenticano che il terreno su cui il clero più esercita la sua forza conservatrice è proprio quello della sessualità, della riproduzione, della nascita e della morte. Quando si dice che l’etica cristiana è dalla parte delle donne, bisognerebbe precisare l’etica di quale cristianesimo, in quale dei venti secoli della sua esistenza, in quale concilio o teologia.     Altrimenti è come dire, a sostegno della burocrazia della Corea del Nord, che il comunismo è per la giustizia e la libertà. E’ vero che il cristianesimo delle origini valorizzò le donne, ma poi? C’è poi una differenza tra la valorizzazione delle donne nel primo cristianesimo e quella che la Chiesa cattolica farà all’apparire del movimento femminista. Se bisogna credere alle citazioni dal Vangelo  contenute nella lettera apostolica Mulieris dignitatem (1988), il merito di Cristo è di aver trattato le donne come uomini, cioè come sue pari, provocando uno stupore al limite dello scandalo perché discorreva con donne di cose di cui a quei tempi non si parlava con loro. Molti secoli dopo, all’apparire della grande protesta femminile,  il clero passerà invece da una diffusa misoginia a un interessato elogio delle virtù femminili, in modo particolare del ruolo materno. Una retorica del materno caratterizza oggi in Italia gran parte delle tesi contro la GPA. E non serve scrivere, come fa Nicoletta Tiliacos “Retorica del materno? Ma come mai la retorica stucchevole del dono, della solidarietà con chi non può avere figli e dell’infinità generosità e oblatività femminile deve funzionare solo per giustificare la maternità surrogata?”. Come se una retorica giustificasse l’altra.  Clero cattolico e capitale finanziario mobilitano le retoriche più stucchevoli sulle donne in discorsi con logiche simili perché, in ultima analisi, l’obiettivo di entrambi è il disciplinamento dei corpi femminili pro domo propria. A un convegno di Arcilesbica dei primi di maggio una relatrice cita Filumena Marturano. Prostituta per miseria, Filumena si riscatta rifiutando l’aborto e mettendo al mondo tre figli a cui non farà mancare nemmeno “il latte delle formicole”.   “I figli non si comprano!” esclama a un certo punto la donna, rivolta al compagno-antagonista padre biologico di uno soltanto ma che lei vorrebbe padre di anagrafe di tutti e tre, affinché non restino per la vita figli di puttana. L’inconveniente che è che a far parlare Filumena è un mio concittadino di valore, il cui sessismo risulta da più di una delle sue per altro apprezzabili opere, oltre che dalla sua vita privata. La maternità come riscatto e la madre come unica figura di eroina concessa alle donne sono note icone della tradizione simbolica patriarcale e che Eduardo ripropone con talento ma con la filosofia del Padre.

Il certo e l’incerto non sono sempre uguali

Circola poi negli ambienti lesbo-femministi, come buon contributo a cui ispirarsi, l’articolo già citato di Nicoletta Tiliacos giornalista del Foglio, quotidiano diretto dal 1996 al 2015 da Giuliano Ferrara che nel 2008 presentò alle elezioni una lista contro le forme di legalizzazione dell’aborto introdotte dalla legge 194.   L’argomento forte non solo della giornalista del Foglio, ma di tutta la Santa Alleanza, la costringe ad avventurarsi sui terreni accidentati di ciò che la scienza dice o nega. L’obiezione più ovvia all’appello di Snoq e alla Carta delle Assise di Parigi è che il proibizionismo consiste non nella proibizione in sé, ma nella pretesa di imporre limiti alla libertà personale in nome di ideologie, religioni o filosofie quando non ci sono danni per altri. Così gli appelli alla dignità, a una certa idea di persona e di relazione tra persone, pretendono di imporre ad altre la propria morale e il proprio punto di vista. Chi decide quale dignità? E comunque, anche se queste fossero le più giuste, non si possono certo imporre per legge. Si è costrette perciò a inserire nell’argomentazione l’altra persona danneggiata, senza le quali le tesi-contro sarebbero davvero deboli. La persona danneggiata è il bambino, allontanato dalla vera madre, privato da quella continuità carnale e psichica con l’esperienza prenatale che per qualsiasi bambino è considerata essenziale. Spesso poi si citano gli studi che inequivocabilmente lo dimostrano… e chi non li conosce taccia per sempre! Il problema è che per giungere a questa conclusione bisogna dare per certe cose che invece non lo sono. Prima di tutto, chi è la madre? Daniela Danna, femminista e sociologa, in un libro almeno documentato e serio, adotta il criterio della mater semper certa ed è madre quindi chi affronta i nove mesi di gravidanza e il parto, quella cioè di cui il bambino conserva a suo modo la memoria. Ma le tecniche non sono solo giuste o ingiuste, da utilizzare o da proibire; al di là di ogni possibile giudizio etico e politico, cambiano spesso il precedente stato di cose. La scienza ha di fatto rovesciato l’antico assunto sulla genitorialità certa o incerta. L’esistenza di test del DNA capaci di individuare con certezza il padre e le diverse figure possibili di madre operano un cambiamento da cui è impossibile prescindere. Le agenzie a servizio del capitale finanziario hanno tutto l’interesse ovviamente a negare che la “portatrice” sia la anche la madre. Ma la critica all’ideologia delle agenzie non comporta in sé che allora sia automaticamente vero ciò che esse negano.   Per stabilire chi sia la vera madre (ammesso ma non concesso che il problema sia questo) si può adottare un criterio biologico e allora i genitori sono i proprietari dei gameti. Oppure un criterio relazionale, ma per la donna la relazione è prima di tutto psichica. Una donna convinta che il figlio non sia suo o che legittimamente non lo senta proprio in quanto non generato dai propri ovociti e magari di un altro colore, perché dovrebbe essere considerata madre, anzi l’unica e autentica madre? Se poi si fa riferimento al bambino e all’esperienza prenatale da cui non dovrebbe essere separato, le cose si fanno anche meno certe. E citare questo o quello studio non rafforza gli argomenti, dato che ogni tesi politica legata a un potere ha una tesi scientifica che la convalida. Ce l’hanno avuta a loro tempo anche quelle sulla superiorità e inferiorità delle razze, sulla tendenza a delinquere legata ai tratti somatici e sull’omosessualità come malattia. Sul tema della relazione madre/figlio altri studi dimostrano che non esistono differenze nello sviluppo cognitivo e socio-emozionale tra i bambini nati attraverso la  surrogancy  e quelli concepiti in modo naturale. Per quel che mi riguarda non ho ragione di dubitare né degli uni né degli altri, mi limito semplicemente a non ostentare certezze. Ma ammettiamo pure che l’unica e vera madre sia la donna che partorisce e affronta l’esperienza della gravidanza e del parto. La tesi che la separazione dalla madre rechi al bambino danni talmente gravi da giustificare il proibizionismo cancella in un sol colpo una storia di conquiste femministe sul piano culturale e psicologico. Nidi, baby-sitters, nonne-mamme sono quindi un danno e la madre sempre a disposizione del figlio una virtù. Questa morale vive da anni nel sistema sanitario lombardo, soprattutto in ospedali e cliniche di proprietà cattolica. Una mia nipote, costretta a ricorrere alla fecondazione assistita, ha dovuto farne la sgradevole esperienza. Si è fatto prima di tutto ogni tentativo per colpevolizzare il suo rifiuto di allattare il bambino, dovuto a un disturbo che le provocava forti dolori al seno. Le sono state poi impartite lezioni sui comportamenti della buona madre, a disposizione giorno e notte del figlio. Lezioni che mia nipote ha rimandato al mittente, anche perché lavora dieci ore al giorno e non può permettersi di star sveglia la notte. Inutile dire che il mio pronipotino Ruben gode oggi, a tre anni e mezzo, di ottima salute fisica e mentale.

Creare nessi dove non ci sono

Le tesi-contro spesso procedono attraverso l’espediente retorico di narrare gli orrori reali o presunti della GPA, facendo leva in modo particolare sugli aspetti legati al mercato e al rapporto tra maschi occidentali ricchi e donne dei paesi del mondo in cui moltitudini vivono in condizioni di estrema povertà. Le agenzie informano solo i genitori intenzionali; le gestanti vengono trattate da inferiori; sono noti casi di aborto forzato per malformazioni del feto; alla madre non è concesso cambiare idea ecc. ecc. Si stabilisce così un nesso automatico, dove nesso automatico non c’è. Con un improprio automatismo infatti, obiettivo della polemica diventano poi non questi aspetti specifici, come sarebbe legittimo e logico. Nell’articolo di Tiliacos, su cui insisto per la funzione che ha avuto nel fornire argomenti alla parte di lesbo-femminismo che si è schierata con l’appello di SNOQ e con la Carta delle Assise di Parigi, anche i casi di dono autentico sono sotto tiro. Vengono infatti ricordati i casi di accordo tra madre e figlia o tra sorelle precipitati talvolta in contenziosi sui ruoli. Come se per i figli nati con metodo naturale non ci fossero mai contenziosi, laceranti conflitti o addirittura casi di omicidio-suicidio per una prole contesa. Del resto la filosofia della messa al bando universale non lascia spazio a eccezioni o a pratiche “fuori mercato”: invocare la gratuità e aderire agli appelli per la messa al bando è una contraddizione in termini.

Liberismo, liberalismo e libertà

Il fastidio per gli argomenti forniti da quell’infaticabile costruttore di miti che è il clero cattolico non implica assolutamente la condivisione dei discorsi dei cantori del capitale finanziario. La polemica sul tema con una compagna  dirigente fino a qualche anno fa di una rete femminista internazionale che ha aderito alla Carta di Parigi, mi obbliga però ad alcune precisazioni preliminari. Le tesi antiproibizioniste usano talvolta gli argomenti delle agenzie, cioè di uno dei due potenti suggeritori ma l’idea che queste tesi siano sempre, e magari inconsapevolmente, sotto l’influenza del “liberismo” non centra il bersaglio, non aiuta la stessa critica anticapitalista alla GPA. Il liberismo non è tout court il liberalismo, che è l’ideologia della borghesia nella sua fase radicale. Nel secolo scorso (e in quello attuale la storia si ripete) gli interessi del liberismo si sono rivelati incompatibili con gli ideali liberali. In Italia per esempio, agli inizi del secolo scorso i liberali sacrificarono all’alleanza elettorale con i cattolici il divorzio, cioè una delle libertà più elementari di un  individuo, donna o uomo. Ma la prova dell’incompatibilità è soprattutto nel fatto che il liberismo, nel senso dello sfruttamento senza argini, si è spesso servito di partiti illiberali, di fascismi o di dittature militari. Non per caso il primo esperimento di neo-liberismo si realizza già negli anni Settanta nel Cile di Pinochet.  La libertà del lavoro subalterno di agire come comunità e di darsi proprie istituzioni è infatti incompatibile con la libertà del capitale di ridurre a merce gli esseri umani. In alternativa il capitale ha dovuto rinunciare al liberismo puro e aprirsi alla collaborazione del movimento operaio, che ha fatto talvolta proprie alcune rivendicazioni di libertà dell’individuo proprie della borghesia liberale. Un esempio invece di coerenza tra liberismo e libertà è stato quello del Partito radicale di Pannella, che però  ha goduto sempre di un limitato consenso elettorale perché non ha rappresentato forze sociali ma solo l’illusione liberale. Non i lavoratori perché liberista, non forze sociali egemoniche perché liberale. Ma i radicali a loro modo sono stati spesso un punto di riferimento di battaglie come quelle sul divorzio, sull’aborto, sui diritti degli omosessuali, sul testamento biologico ecc., mentre dall’altra parte c’è stato invariabilmente il clero cattolico. Davvero gli aspetti scandalosi della GPA oggi, che nessuna nega, valgono un rovesciamento delle alleanze? Qui, sia chiaro, non si sta parlando di possibili alleanze con il Partito radicale ma semplicemente di una logica. E anche dell’esigenza di non dimenticare che il liberalismo della borghesia radicale e della stessa parte migliore del movimento operaio non sono stati gli unici a valorizzare la libertà degli individui. E’ esistito un femminismo radicale che ne ha fatto un formidabile strumento di liberazione psicologica e culturale, malgrado gli inevitabili limiti di un racconto fondato tutto sulla libertà del singolo.

Quando il capitale finanziario parla

Il capitale finanziario oggi parla attraverso le agenzie e il numeroso personale incaricato di curarne gli affari. Qui gli argomenti apparentemente si rovesciano, ma la morale della favola è sempre la stessa.  La certezza che la madre esclusiva e autentica sia colei che affronta la gravidanza si rovescia nella certezza, altrettanto discutibile, che nove mesi di una relazione così intima non significhino nulla. Dalla retorica del materno e dell’irrinunciabilità della tetta si passa alla retorica del dono. Le agenzie hanno evidentemente tutto l’interesse, per evitare complicazioni e conflitti che potrebbero allontanare i clienti, prima di tutto a convincere le donne di essere semplici portatrici di figli non loro. Inoltre l’esigenza di idealizzare e giustificare la propria scelta si traduce, su suggerimento del personale della agenzie, in retorica del dono, dell’oblatività e del sacrificio femminile in nulla migliore dell’immaginario maternale che accompagna l’adesione alla messa al bando universale.   La realtà è più prosaica. I capitali sovrabbondanti alla ricerca di campi di investimento hanno trovato nel desiderio di genitorialità e nel traffico di uteri e bambini una concreta possibilità di buoni affari. Chi come noi si definisce “anticapitalista” non può limitarsi a obiettare “questo è il capitalismo, bellezza!”   Certo questo è il capitalismo, ma non perché sono in gioco i desideri di maschi omosessuali, allora la critica deve essere respinta al margine dell’argomentazione.  Su altri terreni noi diciamo prima di tutto che non siamo d’accordo e proponiamo e pratichiamo, nei limiti del possibile, delle alternative.   Ma vanno respinte al mittente tutte le doléances di chi si scandalizza per la riduzione a merce di uteri e bambini e rimuove l’elementare realtà che nel capitalismo il corpo umano è sempre merce. La lavoratrice e il lavoratore vendono la capacità di lavorare del loro corpo tutto intero perché anche nel lavoro manuale più meccanico e ripetitivo è coinvolto il pensiero, talvolta anche solo come perdita e annebbiamento. Scandalizzarsi perché l’utero diventa merce e mezzo di produzione, senza mettere in discussione la mercificazione nel suo complesso è puro e semplice moralismo ipocrita. Soprattutto quando viene da persone che nella loro vita non si sono mai poste il problema della natura dei rapporti sociali. O addirittura hanno stabilmente collaborato con organi di stampa che del capitale sono stati loquaci e aggressivi sostenitori. Inoltre definirsi anticapitaliste/i dovrebbe significare anche non dimenticare i limiti della migliore libertà liberale. Marx spiega che esistono forme di libertà individuale solo apparenti e dietro le quali si nasconde invece la costrizione sociale. Liberato dai vincoli della schiavitù e della servitù della gleba, il lavoratore gode della sola libertà di tornare a essere proprietà di altri perché l’alternativa è morire di fame. Non si tratta ovviamente di aderire alla tesi che le donne portatrici, madri esclusive o in condivisione,  siano tutte schiave inconsapevoli da mettere sotto la tutela di una proibizione universale ma di non dimenticare in quale contesto viviamo.

Desideri fuori mercato e mutuo soccorso d’amore

L’alternativa non è la gratuità perché se la si pensa compatibile con l’attuale contesto si riduce a un’illusione e a una pratica di fatto proibizionista. La gratuità può essere solo la logica conseguenza di qualcosa d’altro. Se poi si teorizza la gratuità e nello stesso tempo si aderisce alla logica di SNOQ e della Carta di Parigi, si produce appunto non un’idea di alternativa ma un non-senso.    Un embrione di alternativa può prendere forma solo dalla realtà e da pratiche già in atto da tempo,  spesso senza alcuna intenzione politica e solo per la ragione che dove non ci sono soldi non c’è mercato. Nella comunità LGBT e queer c’è già chi si muove in una logica che potremmo definire di “mutuo soccorso” e “fuori mercato”. Gli esempi si riferiscono a fatti già tutti avvenuti. Due donne possono portare l’una l’ovocita dell’altra e, per quel che riguarda il padre, scegliere come donatore un amico che sarà presente nella loro vita e in quella del bambino. Oppure un estraneo, preservando il diritto del nascituro di conoscere a una certa età il padre biologico. Due gay possono avere un legame di solidarietà con la donna o le donne che sono state coinvolte nella realizzazione del loro desiderio. Un giovane compagno gay e una giovane compagna lesbica che per ragioni politica mi capita di frequentare si sono ripromessi un “mutuo soccorso”, quando una genitorialità che è evidentemente già nei loro desideri entrerà a far parte delle loro concrete possibilità.  Devo dire che ho sempre trovato le pratiche di cui sono stata testimone non solo cariche di emozioni e di affettività ma anche promettenti sul piano di un altro mondo possibile. Dobbiamo parlare di nuove famiglie? Sì e no… diciamo non necessariamente. La fissazione dei gay per il matrimonio (che tuttavia è assolutamente legittimo rivendicare) e la famiglia intesa come istituzione fondata sui rapporti sessuali non sempre mettono sui binari giusti.  L’emergere di un desiderio di genitorialità, come logica conseguenza del riconoscimento dell’esistenza di una coppia dovrebbero forse essere affrontati anche con un sforzo maggiore di ri-orientare il pensiero. Queste pratiche vivono per ora in una realtà semisommersa, a metà strada tra il legale e l’illegale e talvolta in attesa delle sentenze di un tribunale. La proibizione universale taglia la testa al toro con la prepotenza di ogni proibizionismo e chiude un discorso che invece è appena aperto e tale resterà al di là di ogni appello e di ogni fobia. Il rifiuto del proibizionismo impone di tornare sul discorso della libertà. Il suo carattere illusorio, in una società dominata dal mercato, è fuori discussione. Questo non significa che allora non godiamo di alcuna libertà. E non significa nemmeno che le donne che accettano gravidanza e parto su commissione siano schiave, delle cui catene bisogna chiedere semplicemente l’abolizione. La sostituzione del termine “proibizionismo” con quello di “abolizionismo”, che dovrebbe servire a rafforzare lo stigma, sovrappone (come nel caso della prostituzione) due fenomeni assolutamente non sovrapponibili.   Non c’è alcuna ragione di negare, in un caso e nell’altro, l’esistenza di casi di riduzione in schiavitù ma in questi casi la prostituzione e la maternità surrogata c’entrano come i cavoli a merenda. La riduzione in schiavitù è un reato specifico, per cui esistono pene specifiche che vanno ben oltre quelle ipotizzabili per aver cercato un figlio a cui per la legge non si aveva diritto.   Ma dove non c’è costrizione e i diritti fondamentali non vengano violati, la proibizione in nome della liberazione è semplicemente un paradosso.  A nessuna verrebbe in mente di proibire il lavoro salariato perché mercificazione del corpo e della mente della lavoratrice. E’ vero, uno dei femminismi che hanno lavorato a creare racconti in sintonia con gli interessi femminili ha definito lavoro anche la fabbricazione di esseri umani per il capitale, ma poi ha proposto il salario e non la proibizione.   L’idea che siano necessario e possibile regolamentare non è poi così balzana. E’ vero che laddove davvero fossero imposti regolamenti del tutto garantisti  la pratica della GPA o maternità surrogata si ridurrebbe drasticamente.  In risposta oserei dire “.. e chi se ne frega”. Il nostro compito non è certo quello di garantire il mantenimento dei livelli della surrogazione commerciale, ma di sperimentare pratiche che consentano la diffusione di nuove relazioni d’amore fuori mercato. Una ragione in più per raccomandare all’autorganizzazione del variegato mondo queer di non farsi illusioni sulla possibilità che i loro desideri possano stabilmente convivere con lo stato di cose presente di sfruttamento capitalistico e di spoliazione imperialista.

Desideri e accettazione del danno

Un’ultima osservazione, anche questa dovuta a una breve e agitata polemica. Le pratiche legate alla riproduzione medicalmente assistita, GPA compresa, possono danneggiare la salute della donna, certamente.    E allora?  Questo tutt’altro che trascurabile particolare non implica la proibizione ma solo il diritto all’informazione più onesta e chiara possibile, che dovrebbe essere la norma di un’auspicabile regolamentazione. Quella di accettare un pericolo o un danno per realizzare un desiderio, è una delle poche libertà che ci sono concesse e che si possono cancellare solo in cambio di nulla. Per altro non fa bene il parto, effetto di un naturalissimo rapporto sessuale e di cui muoiono nel mondo 50.000 donne all’anno. Non fanno bene esami invasivi e per cui bisogna firmare autorizzazioni e consensi. Non fanno bene atti generosi, come donare il rene a una figlia o a un figlio. E non fa bene nemmeno partecipare a manifestazioni in cui si corre il rischio di qualche randellata o di una dose di gas tale da subirne le conseguenze per tutta la vita, come è accaduto  a qualcuna Genova nel 2001.


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