IFE Italia

Madri senza tempo? Dialogo tra generazioni. Convegno.

relazione di Caterina Botti
lunedì 25 settembre 2017

Un’altra riflessione sul controverso tema della GPA.

Fonte: http://www.fondazionebadaracco.it

Per rispondere alle sollecitazioni delle organizzatrici di questa giornata, vorrei provare a partire da me e a spiegare che tipo di percorso ho fatto per arrivare ad occuparmi dei temi a cui è dedicata questa tavola rotonda, per poi passare a rispondere, in modo più diretto, ad alcune dellasollecitazioni proposte. Per partire da me: è accaduto, qualche anno fa ormai, che io abbia sentito l’esigenza di dare forma a una riflessione intorno alla gravidanza e al parto, in particolare intorno al modo in cui vengono viste e si vedono le donne incinte e le partorienti, soprattutto riguardo alla possibilità di essere riconosciute e riconoscersi come le protagoniste di queste stesse esperienze e come soggetti morali competenti, capaci cioè di elaborare responsabilmente, e di far accettare ad altri, il proprio punto di vista. Vorrei brevemente raccontare come è accaduto che mi si presentasse questa esigenza perché -a mio avviso – il modo è sintomatico. Io di formazione sono filosofa e mi sono occupata per anni di bioetica, seguendo gli sviluppi teorici e le applicazioni pratiche e politiche di questa disciplina. D’altra parte penso di potermi definire femminista (sia pure di seconda generazione) e ho avuto la fortuna e la possibilità di importare la mia pratica di pensiero e politica femminista nella mia stessa pratica di ricerca accademica, aggiungendo così alla riflessione sulla bioetica che svolgevo le risorse del pensiero femminista. Tutto questo è andato avanti per anni, ora il fatto peculiare, da cui vorrei prendere spunto per le mie riflessioni odierne, è che pur essendomi occupata dunque di bioetica (cioè di una disciplina che fa del rapporto fra moralità e cura della salute il suo fulcro) per anni e pur ponendomi all’interno di una pratica riflessiva femminista (quindi ovviamente interessata alle esperienze delle donne), io non ho mai sentito l’esigenza di riflettere sulla gravidanza o sul parto, ovverosia non ho mai incontrato questo tema nelle mie letture o frequentazioni. Il che appunto mi pare sintomatico. Sintomatico del resto è il fatto che io stessa abbia notato questa assenza solo quando mi sono trovata a vivere una gravidanza e un parto in prima persone. Solo allora mi sono resa conto di quanto ci fosse da dire su questi temi, sia dal punto di vista della bioetica che del femminismo, e di quanto poco invece se ne dicesse. Così è dunque nata per me l’esigenza di riflettere, ragionare e scrivere di questa esperienza, a partire dalle mie competenze teoriche, filosofiche, bioetiche e femministe, e soprattutto di lavorare intorno alla questione della centralità della donna e della sua soggettività morale in relazione alla gravidanza e al parto. Molto infatti c’è da dire e molto poco è stato detto intorno a quanto poco, ancora oggi, nonostante l’affermarsi della bioetica, che in buona sostanza si interroga intorno al problema della affermazione della libertà e autonomia individuale a fronte di decisioni mediche, e del femminismo, le donne siano riconosciute e si possano riconoscere protagoniste della loro gravidanza e del loro parto. Peculiare è anche che tutto questo è accaduto in anni - sto parlando dei primi anni 2000 - in cui di riproduzione, nel dibattito pubblico (ma anche in quello filosofico-bioetico o femminista), si parlava molto, perché erano gli anni del ragionare intorno alle pratiche di procreazione medicalmente assistita (PMA), alla legge 40, ecc. La mia sorpresa è stata dunque scoprire, guardando con occhi diversi a quello su cui lavoravo da anni, come nel dibattito pubblico e teorico, e in gran parte anche in quello femminista, si parlasse tanto di PMA, tanto anche di aborto, e perfino di contraccezione, mentre su gravidanza e parto si tacesse. Per quanto riguardava il dibattito bioetico, molto ci si occupava dei problemi del consenso informato nel rapporto medico/paziente, di autonomia nelle decisioni di fine vita, e perfino di libertà riproduttiva, ma nessuno sembrava interessato al tema del consenso e dell’autonomia in gravidanza, o della libertà e autorevolezza morale delle donne in questo ambito. Eppure la mia esperienza personale mi diceva che c’era molto da dire a questo proposito, e non solo perché gravidanza e parto sono ambiti in cui gli avanzamenti medici e conoscitivi (ecografie, test genetici, diagnosi prenatale, conoscenze sull’influenza dei comportamenti materni sul feto, ecc.) hanno moltiplicato le possibilità di scelta, ma ancor prima perché sono esperienze fondamentali per le donne che vi giungono e come tali le donne hanno lo stesso diritto di dargli forma secondo il loro personale stile di vita che veniva rivendicato per altri in altri situazioni, per esempio per ciascuno di noi di fronte alla fine della propria vita, sia pure questo richiedesse di ripensare alcune categorie, come dirò poi. Mi sorprendeva dunque questo silenzio bioetico, ma ancora di più mi sorprendeva quello delle donne. In fondo negli stessi anni, e anche per il decennio precedente (anni ’90), avevamo fatto un gran parlare di madri (simboliche) e di potere materno, oltre ad occuparci anche noi di PMA, eppure, a parte lodevoli eccezioni, per trovare dei testi dedicati alla gravidanza e al parto sono dovuta tornare agli anni ’70, a Nato di donna di Adrienne Rich (Milano, Garzanti, 1977-2000), o a testi degli anni ’80 (molti dei quali scritti da chi siede a questo tavolo), e questa è stata una ennesima sorpresa. Ora sarebbe lungo soffermarsi sulle ragioni di questi silenzi. Vorrei invece venire – per rispondere così in modo più diretto e preciso alle sollecitazioni delle organizzatrici - alle riflessioni che ho fatto in prima persona e che più o meno si possono riassumere nell’affermazione che apre il mio libro che ho pi dedicato a questi temi (Madri cattive, Milano, Il Saggiatore, 2007), ovvero che nonostante l’affermarsi della riflessione bioetica e del contenuto di autonomia che la caratterizza, e nonostante gli sviluppi del pensiero e delle rivendicazioni femministe, molto ancora ci sia da fare per riconoscere il ruolo centrale e responsabile che le donne possono e devono avere nel momento in cui affrontano l’esperienza della gravidanza e del parto. Se infatti, forse, possiamo riconoscere che qualcosa è cambiato riguardo alla centralità e libertà femminile in relazione alle primissime fasi del processo riproduttivo, contraccezione e aborto, molto poco è cambiato io credo per quel che riguarda il proseguo, gravidanza e parto. Se ci si domanda - infatti - come sia cambiata, con il cambiare delle tecnologie mediche, la percezione che le donne hanno della gravidanze e del parto, o la relazione che hanno con la medicina, la risposta che io posso dare (ovviamente non essendo io una sociologa o un’antropologa né una ginecologa o un’ostetrica, ma basandomi sulla mia esperienza e sulle mie letture) è che oggi esistono molte più opzioni e conoscenze sulla riproduzione in generale, e in particolare sulla gravidanza e sul parto, ma che questo proliferare di conoscenze non si sia tradotto in un ampliamento delle scelte e della libertà femminile, ma piuttosto in un ampliamento dei doveri delle donne. Mi pare che il modo in cui vengono poste o proposte una serie di possibilità, soprattutto per quel che riguarda gravidanza e parto, rimandi ancora all’idea che la donna sia tenuta, in determinate circostanze, a fare tutto ciò che si addice ad una “brava donna” incinta e una “brava madre”. Sintomatico in questo senso mi pare l’assenza di una elaborazione in termini bioetici che rivendichi anche per questi campi la fine del paternalismo e il ruolo delle scelte personali, libere e responsabili. Come dicevo, infatti, anche se è riconosciuto alle donne un margine di libertà (o autorevolezza, che è già cosa diversa) sul fare o non fare un figlio (riguardo in particolare al ricorso alla contraccezione o all’aborto - per quanto contrastato, e al limite riguardo alle PMA), questo margine svanisce nel momento in cui esse hanno deciso di portare a termine una gravidanza. Come se ancora questa non fosse che lo svolgersi di un processo naturale, se non di un destino, su cui appunto si può intervenire solo nei termini di un “si” o un “no” iniziale e poi solo per aiutare quello steso processo a svolgersi. Una volta che una donna si trovi incinta e abbia deciso di portare a termine la sua gravidanza si trova infatti come ad aver imboccato un tunnel da cui non può uscire, un tunnel fatto di esami medici, dettami su stili di vita, comportamenti imposti, cure, trattamenti, e via dicendo; un tunnel fatto non solo di medicalizzazione ma anche di una pressione sociale che fa leva sull’idea che, una volta che una donna ha scelto di fare un figlio, essa sia tenuta a seguire determinate linee di condotta, se non obblighi, e che qualsiasi dubbio o deviazione dal comportamento atteso sia frutto di incoscienza, capriccio o immoralità. Nessuna competenza le viene riconosciuta nel mettere insieme le informazioni e prendere decisioni, se non in pochi casi e per alcune fortunate. Nonostante i cambiamenti che alcuni operatori e soprattutto operatrici hanno introdotto nei servizi dedicati a gravidanza e parto, e nonostante tutto il sapere critico sulla medicalizzazione e sulla riappropriazione della gravidanza e, soprattutto, del parto, che è prodotto negli anni ’70 e ’80, io credo che questa fase della riproduzione umana sia ancora oggetto di un fortissimo paternalismo e che il riconoscimento del ruolo delle donne come soggetti principali e responsabili sia ancora di là da venire. Vorrei anche far notare, per inciso, che seppure nel caso delle PMA la retorica della libertà ha avuto un suo appiglio, questo non abbia aiutato in particolare le donne. Va considerato, infatti, che in questo caso è in gioco la libertà di riprodursi anche dell’uomo, e come spesso dunque si sia argomentato a questo proposito nei termini di un’idea neutra di libertà inutile per mettere a tema quella femminile. Del resto, se guardiamo alle tecniche in quanto tali, possiamo facilmente riconoscere che per quanto riguarda la parte femminile non ci si discosta dall’istanza della medicalizzazione che avvolge la riproduzione, la gravidanza e il parto: la donna continua ad essere il tramite se non l’ingombro (da disciplinare attraverso norme, leggi e medicalizzazione) tra medici e padri da una parte, e figli/figlie dall’altra. Mi sembra, dunque, lo ripeto, che nonostante il lavoro teorico e pratico portato avanti da donne e operatrici a partire dagli anni ’70 - che pure è stato tanto e importante - non siamo riuscite a conquistare l’egemonia culturale né a diffondere pratiche che favoriscano il ruolo centrale delle donne o la critica alla medicalizzazione come strumento di potere. Né del resto, io credo, siamo riuscite a mettere in circolo, in modo da farlo arrivare e chi si trova incinta e a chi di lei si prende cura, o su questo riflette, anche quel tanto di più di pensiero e pratiche che pure come donne e femministe abbiamo sviluppato negli anni successivi. Perché è evidente, che pur non facendo perno sulla gravidanza in quanto tale, le donne hanno continuato a produrre una riflessione fondamentale, per esempio sul rapporto tra tecnologia medica e corpi, ma anche attorno ai nodi teorici della soggettività sessuata e della moralità o responsabilità, che andrebbe estesa a tante situazioni. Credo infatti che molto sia stato prodotto, non solo nel passato, dal pensiero delle donne, non solo per quanto riguarda le pratiche di cui qui discutiamo, ma anche per quanto riguarda i modi di pensare attorno a queste e altre pratiche mediche. Penso ad esempio che sia preziosa la posizione femminista sulla tecnologia e sulla bioetica, quella che si pone come terza tra chi vede la tecnologia o i progressi della medicina come qualcosa da demonizzazione e chi invece li vede in modo salvifico, e riconosce invece che il problema non sta nelle tecniche, che non sono in sé né oscura minaccia né l’unica e sola possibilità di libertà umana, ma nel loro governo, nell’uso che ne facciamo, nei significati che riusciamo a dargli, nella nostra esperienza, a partire dalle nostre consapevolezze (e questo vale non solo per le PMA, ma anche per la RU486 o per le varie tecniche e i vari interventi che incidono su gravidanza e parto). Ugualmente importante è, a mio avviso, il lavoro teorico/filosofico portato avanti sui concetti di soggettività e di libertà, e in particolare quello svolto sul concetto di autonomia vista in termini relazionali e non individualisti (autonomia non come assenza di vincoli, ma come gestione di un campo di vincoli), che permette di uscire dalla dicotomia tra beneficenza e libertà (intesa come libertà di agire finché non si provochi danno a terzi e non oltre) e di pensare che possa esserci libertà e responsabilità in un aborto e in una gravidanza. Tuttavia, per tornare a quel ch dicevo, questi sviluppi sono poco diffusi, ed è su questo che mi preme concludere. Io vedo, infatti, una sorta di discontinuità tra il presente e gli anni ‘70/’80 (per come forse li ho idealizzati?). Mi pare di poter pensare che negli anni ’70 vi fosse una maggior circolarità tra chi rifletteva teoricamente e politicamente sulla soggettività femminile, la riflessione portata avanti da ginecologhe e ostetriche, ciò che pensavano le donne che a loro si rivolgevano, ed il dibattito politico e delle donne in generale. Oggi mi sembra invece che queste riflessioni ci siano, ma rimangano scollate: non c’è circolarità tra le addette ai lavori da una parte, e chi si occupa di bioetica o fa propria la riflessione teorico/politica femminista dall’altra, e che soprattutto manchino le utenti, le donne, il confronto con l’esperienza. Pensiamo ai dibattiti cui in tante abbiamo partecipato sulla legge 40, io spesso mi sono trovata tra addette ai lavori, scienziate, filosofe, giuriste e politiche ma le donne che avrebbero potuto ricorrere o meno a quelle tecniche, soprattutto le giovani donne, non c’erano. Ora non voglio apparire ingenuamente nostalgica nei riguardi di un movimento storicamente molto diverso da quello presente, né banalizzare i risultati che un femminismo più teorico ci ha portato. Rimane però secondo me un problema di circolazione, anche tra le generazioni, ma non solo, che va colmato, e rimane la necessità di interrogare l’esperienza e di far circolare il pensiero, un po’ come stiamo cercando di fare oggi.


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