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Erdoğan e i suoi avversari

Güney Işıkara, Alp Kayserilioğlu, Max Zirngast (da Jacobin)
sabato 10 febbraio 2018

Il potere di Recep Tayyip Erdoğan appare senza limiti. Sembra che il presidente turco possa governare per sempre.

Gli eventi successivi al referendum dello scorso aprile presumibilmente confermano questa prospettiva cupa. Il voto ha consegnato ad Erdoğan e al suo partito, l’AKP, una vittoria cruciale, mascherata da cambiamenti costituzionalmente validi che hanno fortificato con estrema semplicità un sistema dittatoriale. Repressioni e purghe sono ciò che ne è seguito.

Eppure, osservandola più da vicino, la semi-dittatura di Erdoğan è tutto tranne che stabile. Tutte le contraddizioni sociali che giacevano sotto la superficie e che hanno impedito all’AKP di consolidare il proprio potere si sono manifestate durante il referendum. E non sono scomparse nei mesi successivi.

Dopo il Referendum

Nonostante abbia messo in campo un vero e proprio stato di terrore e sia ricorso alla frode più sfacciata, Erdoğan è riuscito a vincere il referendum con solo il 51% dei “sì”. Non più in grado di creare consenso di massa attraverso mezzi più “soft” e democratici, ha usato la repressione, la corruzione e il supporto degli jihadisti e di altri gruppi ultra-reazionari. Queste modalità messe in pratica per ostacolare e reprimere ulteriormente i suoi avversari hanno sortito l’effetto di aumentare il numero di persone che aspettano impazientemente la sua caduta – sia nell’apparato statale che nella società civile.

Erdoğan mira a polarizzare la società, imbarbarendo il discorso politico per alimentare la prosperità dei gruppi di estrema destra mentre rinforza la sua base conservatrice. Ha sistemato alcuni dei suoi più militanti e fanatici sostenitori nelle cariche di controllo dei media e degli affari precedentemente occupate dai Gülenisti (seguaci del primo alleato di Erdoğan, l’ecclesiastico Fethullah Gülen, ora in esilio dopo essere stato accusato da Erdoğan di aver supportato il fallito colpo di Stato del luglio 2016).

Ma il suo piano non è infallibile. Da un lato, le azioni sempre più aggressive di Erdoğan potrebbero rafforzare il sostegno a destra dell’AKP sia nello Stato che nella società. Dall’altro, c’è ancora una parte significativa di sostenitori del partito disillusa, se non passivamente contraria al discorso autoritario adottato dall’AKP. Erdoğan cammina quindi sul filo del rasoio: deve sempre considerare l’equilibrio corretto tra la base di massa e i suoi elementi più radicali e militanti, entrambi i quali hanno bisogno di rimanere in carica.

Repressione

Dal tentativo di colpo di Stato del luglio 2016 – rapidamente soppresso e utilizzato da Erdoğan come pretesto per consolidare il potere – più di 150.000 persone sono state licenziate, circa 132.000 incarcerate, più di 5.800 accademici hanno perso il lavoro, circa 200 organi di stampa sono stati chiusi, e più di 300 giornalisti arrestati. Chiunque è stato ritenuto potenzialmente in grado di fomentare il dissenso o una qualsiasi attività di opposizione alla dittatura è a rischio di essere arrestato con un pretesto minimo, o essere etichettato come un’appartenente alla “FETÖ” (Organizzazione Terroristica Fethullah) o al PKK (Partito dei Lavoratori Kurdo, unità militare kurda che combatte per la liberazione dalla dittatura).

Un decreto statale emanato a dicembre garantisce l’immunità ai civili che si impegnano, o si sono impegnati, in azioni (violente) di contrasto ai tentativi di colpo di Stato. Nonostante il governo abbia ufficialmente dichiarato che la validità di tale legge copre solo la notte del 15 luglio 2016 e i giorni immediatamente successivi, il vero scopo è di lasciarla attuativa per qualsiasi evento passibile di essere interpretato come un colpo di Stato o un atto terroristico. È chiaramente una misura preventiva pensata per reprimere potenziali rivolte o conflitti civili, fornendo ai gruppi pro-governo e a quelli paramilitari uno scudo legale.

La repressione e il consolidamento del potere si estende dal livello della strada – proibizione di manifestare, rimozione della segnaletica in lingua curda rimpiazzata con il turco, etc. – fino agli apici del potere politico. Le più alte cariche dei tribunali si inchinano ad Erdoğan o quantomeno lo supportano politicamente. Ma solo questo non è sufficiente. La sottomissione del sistema giudiziario e quello statale al Presidente dev’essere strutturale e legale, piuttosto che personale. Perciò, a poco a poco, più di metà del Consiglio Supremo dei Giudici e Pubblici Ministeri è stato rimpiazzato. Cinque dei nuovi eletti del Consiglio sono stati nominati dall’AKP, e gli altri due dal partito fascista alleato, l’MHP (Partito del Movimento Nazionalista). Similmente, il 90% delle 1.341 posizioni di giudici e pubblici ministeri sono state assegnate a persone con una relazione diretta o indiretta con i gruppi locali dell’AKP. Tutte le massime cariche del potere burocratico sono state consigliate (se non direttamente nominate) dal Presidente.

Per quanto riguarda il sistema scolastico, l’intervento ha tinte più tipiche dell’islamismo conservatore. La scorsa estate il Ministro dell’Educazione ha fatto rimuovere tutti i capitoli sull’evoluzione dai libri di testo, rimpiazzandoli con capitoli interi sulla jihad e sulla lotta contro il FETÖ, il PKK e i colpi di Stato. I dormitori misti dei licei e delle università sono stati ovviamente banditi.

Erdoğan sta stabilendo più controllo anche sui servizi segreti e sull’esercito, preoccupato che quest’ultimo – tradizionalmente un oppositore dell’Islam politico in Turchia – non gli sia sufficientemente fedele. Sondaggi interni svolti dopo il tentativo di colpo di Stato indicano che la fazione islamica all’interno dei ranghi dell’esercito è infatti molto debole. Anche se il supporto ad Erdoğan è abbastanza diffuso, la percentuale di quelli che hanno votato “no” al referendum è incredibilmente alta.

Dunque, la relativa autonomia dei servizi segreti e dell’esercito è stata abolita o portata al minimo, attraverso la soggezione graduale alla volontà del Presidente. Il passo più importante in questa direzione è stato compiuto ad agosto. I servizi segreti sono stati legati direttamente alla presidenza con il permesso di indagare all’interno dell’esercito, portando al licenziamento dei suoi dirigenti. Gli standard che portavano alle promozioni di carriera militare sono stati abbassati. Il sistema giudiziario militare è stato completamente eliminato. Le procedure legali interne all’apparato militare sono state consegnate in mano ai tribunali e ai pubblici ministeri.

Alla fine, per la prima volta nella storia, il Presidente e il governo hanno più potere dell’esercito nel Consiglio Militare Supremo (YAŞ). Convocato lo scorso agosto, lo YAŞ ha deciso tutte le promozioni di carriera dell’esercito: nuovi quadri sono stati nominati alle più alte cariche, senza rispettare il vecchio sistema di gerarchie per grado d’anzianità.

Nel frattempo, le figure ultra nazionalisti, repressi in passato dall’esercito e di cui una buona parte imprigionata dai comandanti Gülenisti, stanno tornando a coprire tutti i posti lasciati scoperti dai Gülenisti dopo il colpo di Stato. Dove porteranno gli sviluppi di questi avvenimenti, se allo stabilirsi dei sostenitori di Erdoğan all’interno dell’esercito o piuttosto il ristabilirsi del tradizionale blocco nazionalista pro-NATO – o come influenzeranno la forza di combattimento dell’esercito – rimane una questione aperta. Certo è che Erdoğan è riuscito a stabilire ancora più controllo sullo Stato e sulla società.

Il Mito della Fatica Materiale e della “Sindrome di Röhm”

Ogni processo che cerca di rimpiazzare la politica costituzionale con l’esercizio diretto del potere deve affrontare due problemi basilari: da una parte, molti quadri – non disposti a rischiare la testa o insufficientemente leali o autoritari – abbandonano progetto; dall’altro lato, emergono nuovi sfidanti, che si definiscono i fascisti “migliori”. Chiameremo il secondo fenomeno “Sindrome di Röhm”.

Questi due processi sono attualmente in atto in Turchia, e sono al contempo il prodotto, e il catalizzatore, della crisi egemonica dell’AKP.

Il Mito della Fatica Materiale

Nel tempo, è divenuto chiaro che Erdoğan era più preoccupato di quanto sembrava dai risultati del referendum. Era necessario, ha argomentato, di imparare una lezione dagli errori commessi nel referendum. In sostegno alle sue argomentazioni, ha evocato l’idea della fatica materiale. Durante i 15 anni dell’AKP al potere, ha detto Erdoğan, un certo affaticamento ha iniziato a incrinare molte figure del partito. Qualunque cosa avessero essi compiuto in passato, molti non erano più affidabili. E non si è fermato solo alle parole: molti esponenti del partito sono stati espulsi, e molti sindaci dell’AKP di importanti città sono stati costretti a ritirarsi. Ma l’idea della fatica materiale è insieme un mito – le misure erano funzionali a rimpiazzare le cariche politiche con nuovi quadri, più giovani e non necessariamente più competenti, ma completamente leali ad Erdoğan – e un tentativo di nascondere problemi strutturali più profondi.

Il referendum è stato vinto imbrogliando, e non solo per poco; la resistenza sociale continua nonostante l’enorme repressione. Il risultato è che i costi del processo di fascistizzazione politica ed economica stanno crescendo, e l’isolamento internazionale avanza. Questo ha portato insicurezza ed irritazione all’interno dei quadri dell’AKP e nei suoi referenti intellettuali. E l’aver rimpiazzato dei veterani con quadri più giovani non potrà cambiare questa situazione sottostante. Al contrario: eliminare anche la più modesta voce di dissenso dall’AKP sta portando più a fondo la crisi.

Cambiamenti importanti sono invece in corso all’interno dell’ambiente islamico, largamente definito. Quelli che hanno occasionalmente esortato l’AKP ad un approccio più leggero sono stati purgati o espulsi, dal partito e dall’apparato statale. Pesi massimi come il co-fondatore dell’AKP e presidente formale in carica Abdullah Gül così come il precedente Primo Ministro Ahmet Davutoğlu sono tra questi i capofila, perché colpevoli di aver criticato la coalizione con l’MHP dichiarandosi favorevoli all’incremento di relazioni con l’Occidente, con l’Unione Europea, e in generale per una politica più liberale.

Rivolgendo l’attenzione all’esterno del partito, troviamo giornalisti, intellettuali reazionari e religiosi fondamentalisti che criticano Erdoğan per non essere abbastanza islamico. L’alleanza con la burocrazia laica li ha estremamente infastiditi, e per questo chi è con lui deve giustificare con soluzioni fantasiose la legittimità di molte scelte politiche del Presidente (la relazione con Israele, con la Siria, etc).

Lo scontento e l’insoddisfazione sono stanno crescendo solo all’interno del partito e dei suoi seguaci islamici. Gli stessi sentimenti vengono dal principale alleato de facto, l’MHP, guidato da Devlet Bahçeli. L’MHP è entrato in relazione con l’AKP con la speranza di ottenere posizioni di potere nell’apparato burocratico-statale, nell’esercito e nelle forze di polizia. Il prezzo è stato di doversi legare completamente ad Erdoğan, cosa che ha turbato la base più nazionalista del partito. Il quadro formalmente alla direzione di questa, Meral Akşener, ha fondato una nuova formazione, l’IYI Parti (Buon Partito) e molti appartenenti all’MHP (specialmente i più giovani) si stanno radunando attorno ad Akşener, o ad altre formazioni politiche.

La “Sindrome di Röhm”

Tra le fragili alleanze che Erdoğan sta costruendo in ottica di assicurare la propria posizione di potere, ci sono alcuni gruppo che sono delle potenziali fazioni “Röhm”. La prima di queste nasce in seno allo stesso AKP: la fazione islamista.

Ciò può sorprendere, vista la stessa politica religiosa e conservatrice che Erdoğan persegue. Ma la recente svolta pragmatica, atta a ridurre l’isolamento internazionale della Turchia, a creare migliori relazioni con Israele e a interrompere gli aiuti militari (e non solo) ai gruppi jihadisti siriani, non è stata ben vista dagli islamisti. Frizioni c’erano state anche in seguito alla rimozione del Primo Ministro Ahmet Davutoğlu, evidenti a volte anche nella sfera pubblica. Rappresentanti delle diverse fazioni si attaccano l’un l’altro nei dibattiti mediatici e si accusano a vicenda di essere sostenitori del “FETÖ”. In ogni caso, per il momento, questo gruppo è stato emarginato con successo.

Un altro candidato è il partito fascista ultra nazionalista Vatan Partisi (VP). Rivaleggia con l’MHP in propaganda nazionalista e nel disprezzo di qualunque cosa riconduca al Kurdistan, oltre che nella ricerca del consenso negli ambienti ultranazionalisti, ma in maniera più secolarizzata. Nonostante il VP non abbia una base elettorale larga, suoi quadri sono ben collocati all’interno degli apparati dello Stato. Sono stati loro ad aver guidato il dialogo per la normalizzazione delle relazioni tra Russia e Siria. Ma ancora non esiste una vera alleanza strategica con l’AKP. Invece che semplicemente sostenere Erdoğan, si trovano già al centro del potere stesso. Ovunque adocchieranno un’apertura, cambieranno velocemente registro e inizieranno ad attaccare Erdoğan e l’AKP.

Una terza fazione nasce dalla burocrazia statale. Molti politici ed alte cariche dello Stato profondamente coinvolti nella “guerra sporca” contro il popolo kurdo sin dagli anni ’90 si trovano nuovamente in posizioni influenti. È assunta ormai l’esistenza di un’ampia rete, che va dagli esponenti politici della destra moderata alle alte cariche statali, funzionale all’organizzazione di crimini di guerra.

A questo punto è necessario sottolineare un fenomeno molto comune nei processi di fascistizzazione: i sostenitori del leader si riconoscono essi stessi come “piccoli leader”. È esattamente la dinamica che rende i movimenti politici conservatori e fascisti attrattivi per alcuni. In Turchia, molti di questi “piccoli leader” hanno iniziato a comportarsi con grande fiducia in se stessi. E si tratta delle stesse persone più vicine ad Erdoğan e ai suoi fanatici sostenitori.

Per riassumere, l’ala liberal-conservatrice e “morbida” è scomparsa dal partito, e molti dei suoi quadri con più esperienza sono stati allontanati con giustificazioni diverse (“inefficienza”, “fatica materiale”, etc). Al tempo stesso, l’alleanza che governa il paese al fianco di Erdoğan è decisamente fragile e tutti i soggetti alleati stanno facendo i conti con contraddizioni internazionali e problemi interni.

Due questioni in particolare stanno facendo sudare Erdoğan: l’isolamento dagli affari internazionali e l’insoddisfazione del grande capitale.

Isolamento dagli affari internazionali

Gli Stati dell’Unione Europea, in particolare la Germania, hanno mostrato criticità relativamente contenute nei confronti della Turchia. La ragione è semplice: l’80% degli investimenti stranieri in Turchia viene dall’Europa. Così, mentre il governo dell’AKP e le scelte di Erdoğan in particolare sono divenuti oggetto di discordia in molte parti d’Europa, perdendo la fiducia della maggior parte dei governi europei, il coinvolgimento e gli interessi del grande capitale hanno prevenuto posizionamenti più radicali. Ma per quanto sarà così?

Le relazioni della Turchia con gli USA, nel frattempo, stanno peggiorando rispetto agli ultimi tempi. Dopo che due membri del consolato americano sono stati arrestati per sospetti legami al tentativo di colpo di Stato del 2016, gli USA hanno sospeso il rilascio dei visti in Turchia, e quest’ultima ha risposto facendo lo stesso. E, nonostante hanno entrambi ripreso il servizio, i rapporti rimangono congelati.

Ulteriore ragione di tale congelamento delle relazioni tra i due paesi è il caso giudiziario apertosi a New York che ha visto sotto i riflettori Reza Zarrab, un businessman di origine turco-iraniana strettamente legato all’AKP prima del suo arresto negli Stati Uniti nel 2016. Zarrab è stato arrestato con l’accusa di essere coinvolto in un commercio con l’Iran, organizzato in modo tale da evitare le sanzioni previste dagli USA e, dettaglio più importante, che ha potuto farlo proprio grazie al supporto del governo turco.

Sui principali mezzi di comunicazione turchi e dalle dichiarazioni di Erdoğan stesso, si evince la lettura del caso Zarrab come un’operazione svoltasi contro gli interessi della Turchia; quest’interpretazione non è senza fondamenta: non è improbabile che il governo statunitense stia usando il caso per colpire la controparte turca. Sia gli USA che l’Occidente hanno da tempo segnalato alla Turchia che stava sopravvalutando il suo potere e il suo ruolo nella geopolitica internazionale. Anche se per il momento sembra che le conseguenze del processo siano limitate alle sanzioni economiche verso le banche coinvolte, l’intero caso potrebbe essere letto come un ulteriore monito al governo turco.

Guardando al Medio Oriente, la configurazione attuale è la seguente: c’è stato un avvicinamento con l’Iran che non ha (ancora) portato ad un’unione nella lotta contro l’ISIS. Le milizie vicine all’Iran sono sostanzialmente più efficienti di quelle vicine alla Turchia, motivo per cui la Turchia ha spesso lamentato l’“aggressività dl nazionalismo Persiano” nella regione. La Turchia ha iniziato l’invasione della Siria nel nord della regione nel 2016, ma questa scelta è stata solo in grado di rallentare l’avanzata del movimento kurdo, che ha ottenuto una significativa rilevanza politica nella regione. Il fiasco militare ha rivelato lo stato disastroso dell’esercito turco. E i costi politici ed economici dell’invasione stanno crescendo come non mai.

I tentativi turchi di arrestare l’avanzata del movimento kurdo sono stati ripetutamente frustrati. Per molti mesi gli ufficiali di governo hanno cercato di convincere gli USA di intraprendere l’operazione di liberazione di Raqqa dall’ISIS senza le YPG e YPJ, le milizie kurde vicine al PKK. Ma dal punto di vista degli USA, dell’Unione Europea, della Russia e dell’Iran, la Turchia era troppo instabile e insubordinata per potervisi affidare. Raqqa è stata quindi liberata dalle forze kurde YPG e YPJ. Ora, però, la Turchia minaccia di invadere il cantone curdo di Afrin e Manbij nella Siria del nord, azione che USA e Russia hanno a lungo ostacolato. Ma i bombardamenti su Afrin sono già in corso.

Questa è stata un’anomalia. Per molti mesi, un forte senso di frustrazione aleggiava in alcuni settori dell’AKP riguardo all’inabilità di trovare una strada per arrivare fino ai kurdi. Lo scorso autunno, Abdülkadir Selvi (un intellettuale molto vicino all’AKP) ha dichiarato che la Turchia ha “perso il suo carisma” perché il governo ha sempre minacciato il Governo Regionale Kurdo del nord dell’Iraq rispetto al referendum sull’indipendenza, ma non ha potuto fare nulla per cambiarne i risultati. Questo tipo di retorica è chiaramente un obiettivo politico: lo spauracchio delle “forze oscure che minacciano la Turchia” vince il consenso dei quadri della destra moderata e degli elettori di base. Inoltre, prevenire la formazione di un governo indipendente kurdo nel nord dell’Iraq – a prescindere di quanto sarebbe stato politicamente vicino all’AKP, come nel caso del leader più conservatore Barzani – significa bloccare l’intensificarsi della coscienza nazionalista tra i kurdi che vivono in Turchia. E, ovviamente, tutta la destra moderata sputa fuoco e fiamme quando si tratta di un referendum sull’indipendenza.

Ma il problema qui è ancora lo stesso di tutti i processi di fascistizzazione della società in generale: se diventa chiaro che la postura aggressiva è solo un blaterare senza conseguenze, è chiaro che la legittimazione cala, se basata unicamente su tale atteggiamento.

Il Capitale preso dal panico

L’isolazionismo e l’avventurismo, combinati all’instabilità interna, hanno reso l’economia turca molto fragile. L’industria del turismo è al collasso e le entrate di capitale in declino sono solo parte del problema.

Lo shock dell’economia globale post-Trump e il capovolgimento delle politiche di quantitative-easing dettate dalla Fed hanno portato un considerevole flusso di denaro verso la Turchia. Comunque tali investimenti sono molto sensibili all’instabilità. Quando le riserve del Governo Federale Usa allenteranno la disponibilità di riserve monetarie, la Turchia dovrà lottare per avere ancora accesso ai mercati stranieri.

Al termine dell’anno 2016, l’Istituto di Statistica Turco (TÜİK) ha modificato sensibilmente la raccolta di dati e le modalità di calcolo degli stessi. Come risultato, il tasso di crescita è aumentato all’improvviso, e la Turchia può quasi vantare di avere il più elevato tasso di risparmio al mondo. L’Istituto non ha rivelato come ha modificato la propria metodologia di ricerca, ma sono state mosse molte critiche verso alcune rilevanti incongruenze.

Né i tassi di crescita manipolati né l’euforia manifestata dai media pro-governativi sono riusciti ad ingannare o impressionare il grande capitale. Lo scorso settembre, la presidenza della più importante associazione industriale della Turchia, l’Associazione dell’Industria e del Business Turco (TUSIAD), ha dichiarato che la nazione ha già raggiunto i propri limiti di consumo legati alla crescita e richiede per tanto un’immediata risposta da parte del governo.

Una parte significativa dell’economia turca rimane a galla grazie al credito di espansione e agli incentivi economici favorevoli alle imprese, inclusi i profitti garantiti da grandiosi progetti immobiliari, dall’aumento delle tasse, da accordi di revisione del debito e via dicendo. Queste misure hanno ampiamente incrementato il disavanzo di bilancio, e presto richiederanno una regolazione del tetto del debito.

Nel 2017 la lira turca è stata la moneta più svalutata nei confronti del dollaro. A parte spingere il tasso di inflazione alle stelle, la svalutazione della lira porterà al caos nel settore privato, da cui dipendono strettamente le importazioni per la produzione. Gli investimenti nell’industria stanno scendendo rapidamente, e quelli nell’edilizia continuano a recuperare una parte sostanziale di tutti gli investimenti. Il settore produttivo ha aspettative tragiche, e i tassi di interesse rimangono troppo alti.

Erdoğan è furioso perché il capitale esige la fine dello stato di emergenza. Parlando con i leader dell’imprenditoria locale lo scorso luglio, si è espresso molto chiaramente: “Ci sono dei problemi economici legati allo stato di emergenza? Useremo lo stato di emergenza per intervenire nei luoghi di lavoro impedendo ogni forma di sciopero. È semplice.”

E nei fatti, il capitale sta profittando del ruolo di Erdoğan. L’indice della borsa è cresciuto ad un tasso reale del 27%. Le grandi corporation, come la Sabancı Holding e la Ziraat Bank, hanno aumentato i loro profitti del 20% circa, e la più grande di tutte, la Koç, è crescita del 50% solo nella prima parte del 2017.

Ma l’andamento e la prospettiva di crescita dell’economia generale rimane incerto. Una condizione di instabilità politica permanente e una politica estera aggressiva causano una stagnazione degli investimenti stranieri e affettano negativamente il commercio. Uno sconvolgimento del flusso di capitale straniero o una serie di fallimenti potrebbero inclinare il bilancio statale e affossare l’economia. Il capitale turco è preoccupato da un probabile acuirsi della crisi egemonica dell’AKP, che potrebbe portare ad uno spasmo dell’intero sistema. I suoi partner europei esigono un ordine costituzionale sicuro e stabile, che permetta al capitale di accumulare senza problemi. Erdoğan promette alti profitti, ma lo fa in maniera tenue e fortemente esposta ad una crisi.

Queste paure spiegano perché il TÜSIAD ed associazioni di imprenditori più piccole si lamentano: richiedono urgentemente un ritorno alla democrazia, una normalizzazione del dialogo sociale, delle relazioni strette con l’Unione Europea, politiche per l’incentivazione di capitale straniero, la modernizzazione e il consolidamento dell’unione doganale con l’Unione Europea.

Lo Stato dell’Opposizione

Le pressioni dal basso potrebbero essere il principale motore della crisi egemonica. Una leadership fascista che non riesce a soffocare l’opposizione interna perde di legittimità – il controllo effettivo del paese ne conferisce una delle prime fonti di credibilità. Però, il prezzo del fallimento è in costante crescita. In questo momento, non sembra che l’AKP possa stabilire un controllo completo sulla Turchia.

Il CHP e la Sinistra

La scorsa estate, il principale partito di opposizione, il Partito del Popolo Repubblicano (CHP), ha promosso una “Marcia per la Giustizia” e un “Congresso della Giustizia” partecipato da almeno un milione di persone. Da allora, molti hanno definito il partito e il suo leader Kemal Kılıçdaroğlu la “resistenza”. Ma questa percezione di Kılıçdaroğlu è fuorviante. L’CHP forma solo uno dei poli del movimento contro la dittatura di Erdoğan, e incanala la rabbia della popolazione in una direzione che non minaccia il sistema esistente. L’CHP ha un atteggiamento estremamente passivo e, escludendo ogni possibilità di cambiamento, non sarà in grado di prendere il potere; o almeno, non se conta unicamente sulle proprie forze.

La nuova fase della resistenza è iniziata immediatamente dopo che il governo ha annunciato il risultato del referendum. La sfilza di avvenimenti fraudolenti durante il voto ha motivato migliaia di persone a scendere nelle strade e a dichiarare l’illegittimità del referendum. Queste proteste erano concentrate principalmente nelle grandi città dell’ovest della Turchia, prima tra tutte Istanbul. La determinazione della gente a continuare le proteste per più di una settimana ha aiutato a solidificare l’idea che i risultati del voto fossero stati truccati. Infatti, l’AKP e i suoi sostenitori non sono affatto riusciti ad imporre una contro-narrazione, né la base elettorale è riuscita a mobilitarsi effettivamente da allora. Anche l’anniversario del colpo di stato del 15 luglio è stato celebrato in maniera scialba.

Mentre alcuni gruppi di sinistra hanno sminuito il movimento del “no” e le proteste post referendum, argomentando che “non possiamo sconfiggere il fascismo nelle elezioni”, il CHP ha partecipato al movimento con la speranza di tornare a contare di nuovo, anche perché la sua base lo ha spinto ad una presa di posizione più attiva. Quando una parte della leadership del partito ha preso le distanze dalle proteste, l’ala giovanile ha protestato, esigendo un “passo coraggioso” in avanti. Questa fazione, insieme ai rappresentanti della sinistra liberale e social democratica, ha criticato la leadership del CHP e ha accusato il partito di essere colpevole di star peggiorando la situazione. In risposta, il leader in carica Kılıçdaroğlu e lo statista Deniz Baykal, nazionalista devoto, hanno annunciato un nuovo obiettivo strategico: puntare alla presidenza del 2019. In altre parole, non si sono opposti al sistema esistente, finché si sentono in grado di poterlo controllare.

In aggiunta alla richiesta della base del partito per una presa di pozione più netta contro Erdoğan, il grande capitale ha lavorato in favore dell’CHP: quando Kılıçdaroğlu ha marciato da Ankara ad Istanbul, possedeva il pieno supporto della grande industria turca. Ma, di pari passo con le proteste che proseguivano, nuovi spazi di resistenza si sono aperti da parte di molti gruppi. Si è sviluppata una dinamica popolare genuina, ed Erdoğan, che prima ha definito la marcia come ridicola, l’ha trovata sempre più preoccupante.

Il CHP e Kılıçdaroğlu hanno tentato di presentarsi come i reali oppositori del regime, in contatto con le dinamiche popolari. Il problema è che, visto che in hanno mai realmente voluto radicalizzare la lotta, hanno cercato di addomesticarla.

La Sinistra ha quindi assunto due approcci dominanti in questo quadro politico.

Una fazione, composta da gruppi tradizionalmente più orientati in senso repubblicano, ha più o meno accettato il CHP come polo principale di resistenza e lavora al suo fianco, non capendo che il CHP ancora cerca di controllare il potenziale indipendente ed esplosivo delle proteste. L’altra fazione semplicemente non riconosce la dinamica nel suo complesso, la vede come una cosa di competenza del CHP, con l’intento di stare alla larga da qualunque tipo di influenza del partito.

Entrambi gli approcci falliscono nel dare una risposta politicamente astuta. Il compito della Sinistra è di sostenere la dinamica della rivoluzione democratica e di rafforzare il tessuto sociale contro l’ordine stabilito e il CHP. Questo richiede una presa di posizione indipendente impegnata con le persone e con le dinamiche popolari dal basso – evitando qualsiasi dichiarazione ultra radicale e quelle azioni che sono la semplice prosecuzione della volontà della borghesia.

Esiste un altro polo si opposizione borghese ad Erdoğan: il sopracitato partito di Meral Akşener. Riguardo alla fondatrice del partito, lo scorso ottobre il media internazionali – dal Foreign Policy al Financial Times, fino al Time – hanno rapidamente indicato Akşener come la vera sfidante di Erdoğan. Akşener descrive se stessa come la donna forte che può conquistare gli elettori nazionalisti, alcuni religiosi e i liberali, tutti allo stesso modo. Akşener enfatizza spesso la sua opposizione ad Erdoğan e il suo sostegno allo stato di diritto.

Ma il suo passato politico e il suo profilo attuale dimostrano che non è lei quella che porterà una ventata nuova per una Turchia più giusta e democratica.

Negli anni Novanta, quando ha ricoperto per un breve periodo il ruolo di Ministro degli Interni, era alleata con alcune delle fazioni più spietate dello Stato complici della guerra sporca contro i kurdi. È una fedele nazionalista, così come tutti gli appartenenti al partito İYİ (“İYİ” è il simbolo del Kayı, una tribù turca dell’undicesimo secolo che tutt’ora ha un importante ruolo nell’immaginario nazionalista turco). Mentre da un lato Akşener esprime la sua opposizione al sistema presidenziale, dall’altro anche lei ha reso chiaro che si candiderà come presidente nel 2019.

Il CHP e il nuovo partito della Akşener rappresentano, rispettivamente, la rappresentanza liberale di sinistra e di destra del capitale. Potrebbero incorporarsi o allearsi con l’AKP o con gli islamisti che hanno guadagnato posizioni grazie ad Erdoğan. Il grande capitale sostiene apertamente questi tentativi. E nessuno tra questi attori esprime la volontà di sostenere e rafforzare i movimenti popolari, né di costruire un’alternativa realmente democratica ad Erdoğan e al sistema esistente.

La Crisi dello Stato Dittatoriale

Se i piani del grande capitale e dei suoi rappresentanti si realizzeranno, resta ancora da vedere. La situazione è troppo instabile per poter fare previsioni.

Quello che è certo è che lo stato dittatoriale sta attraversando una crisi profonda e strutturale. Nonostante sia al governo da più di quindici anni, l’AKP non è stato in grado di riorganizzare lo Stato nel modo che avrebbe voluto. L’affilarsi della crisi egemonica in seguito al tentativo di colpo di Stato ha prodotto il caos all’interno e tra gli apparati statali. Mentre l’unità interna dell’esercito si sta disintegrando e i precedenti rivali dell’AKP appartenenti all’ultra destra si stanno insediando all’interno dello Stato attraverso instabili alleanze, le innumerevoli procedure del FETÖ accrescono la sfiducia e l’incertezza. La leadership dell’AKP è debole. Il capitale è preoccupato dal caos interno ma, ancor più importante, è preoccupato dall’isolamento internazionale, dallo stato disperato dell’economia, e dal fatto che metà della popolazione non accetterà l’AKP al governo ancora per molto. Il risultato è che sta cercando di circumnavigare i conflitti in Turchia e le frizioni a livello internazionale con la speranza di risolvere il tutto in proprio favore. Sia Kılıçdaroğlu che Akşener godono di un certo livello di supporto delle masse e saranno felici di offrirsi volontariamente come alternative ad Erdoğan.

Nel frattempo, il conflitto sociale non è affatto scomparso. Le dinamiche che l’AKP intendeva sopprimere con la repressione e con lo stato d’emergenza non sono state domate. Attraverso gli scioperi (ormai di fatto illegali) i lavoratori stanno vincendo battaglie per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per salari più elevati – come dimostrano le lotte dei lavoratori di Şişecam, Petkim e Zonguldak dell’ultimo anno. Dall’altro lato, i casi di Nuriye Gülmen e Semih Özakça sono solo la punta della lotta in corso tra gli operai della sinistra e i dipendenti pubblici licenziati dopo il tentativo di colpo di stato.

Anche il Partito del Popolo Democratico (HDP) mantiene la testa alta, nonostante gli arresti di massa dei suoi membri e dei suoi sostenitori di base ne hanno significativamente indebolito il potere organizzativo, e il suo piano di rispondere con una serie di manifestazioni lunghe due mesi lungo tutto il Paese non è stato un gran successo.

In ogni caso, le cose sembrano diverse nelle regioni kurde. Decine di migliaia di persone nella roccaforte di Diyarbakir ancora scendono in piazza per manifestare. L’incapacità dello Stato di sconfiggere il PKK in Turchia e le conquiste degli affiliati al PKK nella Siria del Nord, combinate con l’intervento militare turco inefficace in Siria e in Iraq, costituiscono una delle debolezze più grandi del blocco governante. E resistono anche alcuni movimenti democratici, incluso il potente movimento femminista. È stato in grado di respingere il divieto sull’aborto presentato un paio di anni fa ed ora lotta per l’autodeterminazione sulla vita e i corpi delle donne e contro la violenza maschile sulle donne.

La comunità di Alevi continua a combattere la battaglia contro la discriminazione religiosa, in particolare la crescente influenza sunnita durante le lezioni di religione. Questa comunità è stata tra i capofila delle proteste contro la nuova riforma scolastica prima menzionata. Il desiderio di un’alternativa democratica manifestatasi nei comitati per il “no” prima del referendum e nelle proteste seguite alla frode elettorale si collocano sulla scia della Rivola di Gezi.

Questa lotta di classe, con le sue istanze democratiche, dovrebbe costituire il punto di partenza della sinistra rivoluzionaria – e non di modifiche procedurali o di un esito diverso delle elezioni presidenziali. Questi movimenti di massa nascono dal basso, dai comitati cittadini, da forum, da gruppi di lavoratori, da contesti in cui le persone posso sviluppare la propria autonomia dal capitale e dallo Stato. La sinistra rivoluzionaria turca deve intervenire attivamente in queste lotte in modo da guidarle verso una repubblica democratica, una richiesta che va oltre la rimozione di Erdoğan e del sistema presidenziale, che punta invece a colpire al cuore la dittatura statale.

Non è stata la tendenza reazionaria delle masse o la loro stupidità ad aver portato al potere l’AKP. È stata (e rimane ancora) la promessa di una crescita economica e di sdegno nei confronti del regime militare, la liberalizzazione della cultura riguardo all’accettazione dell’Islam e un forte sentimento di esclusione. Persino degli studi interni all’AKP indicano che una parte sostanziale della sua base disapprova con la scelta del partito di diffamare le forze di opposizione, liquidandole come terroristiche; così come disapprova la tendenza alla corruzione, ai favoritismi e alle concessioni svoltasi all’interno del partito.

Era chiaro che l’AKP, difensore e rappresentante convinto del neoliberalismo, non avrebbe mai difeso gli interessi dei lavoratori. Più l’AKP trascina la nazione in uno stato di conflitto e di crisi, più le alleanze che stanno alla base del partito stanno diventando fragili.

In conclusione, la lotta tra gli attori oggi dominanti e la resistenza democratica determinerà il carattere della repubblica che emergerà, le posizioni dei lavoratori e degli oppressi al suo interno, e dove la sinistra riuscirà a far radicalizzare ancora di più le lotte.

È già un nuovo anno. La resistenza non può aspettare fino al 2019.

*Fonte articolo: https://www.jacobinmag.com/2018/01/... Traduzione a cura di Federica Maiucci


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