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Produzione e riproduzione: la donna e la divisione sessuale del lavoro

di Claudia Mazzei Nogueira
domenica 29 aprile 2018

1. Introduzione

Il presente articolo ha ad oggetto la questione della divisione sessuale del lavoro tanto nello spazio produttivo che in quello riproduttivo. Obiettivo è quello di individuare la relazione che esiste tra la divisione dei compiti nella sfera domestica delle lavoratrici e le funzioni da queste svolte nel mondo del lavoro salariato. Condividiamo la definizione data da Daniele Kergoat della divisione sessuale del lavoro, stando alla quale essa deve essere intesa come una concettualizzazione per la quale «le condizioni degli uomini e delle donne non sono il prodotto di un destino biologico, bensì sono soprattutto costruzioni di natura sociale». Questo perché «gli uomini e le donne sono qualcosa in più di un insieme di individui biologicamente distinti. Essi formano due gruppi sociali tra i quali intercorre una relazione sociale specifica: il rapporto sociale di sesso». In quanto tali, i rapporti sociali di sesso, «come tutti i rapporti sociali, hanno una base materiale» determinata dal «lavoro, e si esprimono attraverso la divisione sociale del lavoro tra i sessi, ovvero, in forma più concisa: divisione sessuale del lavoro». Inoltre tradizionalmente essa individua una «prevalenza degli uomini nella sfera produttiva e delle donne in quella riproduttiva» (Kergoat, 2000: 35). Nel presente testo non intendiamo soltanto riconoscere che la divisione sessuale del lavoro sia totalmente favorevole al sesso maschile e sfavorevole per le donne, altrimenti tale lavoro rischierebbe di essere ridondante. Bensì intendiamo mostrare che esiste una forte interrelazione tra la precarizzazione della forza-lavoro femminile e l’oppressione maschile presente nella famiglia patriarcale. È un fatto che i due aspetti della vita femminile, quello produttivo e riproduttivo, si intersecano costantemente. Una qualsiasi azione in uno di questi poli avrà ripercussioni sull’altro, data l’intima articolazione esistente tra le sfere del lavoro e della riproduzione. È nelle ultime decadi che una accentuata femminizzazione va diffondendosi nel mondo del lavoro. La partecipazione maschile nel mondo del lavoro è cresciuta di poco nel periodo successivo agli anni ’70, contrastando con un’intensificazione di quella femminile che è stato il fenomeno caratterizzante questo periodo. Nel frattempo tale presenza femminile si sviluppa maggiormente negli ambiti del lavoro precario, ove lo sfruttamento quasi sempre è più accentuato. Tale situazione è uno dei paradossi, tra i tanti, della mondializzazione del capitale in ambito lavorativo. L’impatto delle politiche di flessibilizzazione del lavoro, nei termini della ristrutturazione produttiva, finisce per essere un grande rischio per l’intera classe lavoratrice, specialmente per la donna lavoratrice. Stando ad Hirata, le conseguenze di questa evoluzione dell’attività femminile sono molteplici, ma si può dire che una delle più importanti consiste nel fatto che tale modello di lavoro precario, vulnerabile e flessibile può costituire un modello lavorativo che prefigura un regime a vita del lavoratore salariato maschile e femminile. Detto in altri termini, le lavoratrici possono essere viste come cavie per lo smantellamento delle norme a tutela del lavoro predominanti fino ad allora. Uno scenario possibile in questo contesto sarebbe l’estensione o la generalizzazione di tale modello a tutta la popolazione attiva, inclusa quella maschile (2001: 144). Così conclude l’autrice: "Le donne possono essere più facilmente ridotte a “cavie” degli esperimenti sociali perché sono meno protette, tanto dalla legislazione del lavoro quanto dalle organizzazioni sindacali, e sono più vulnerabili. Quantunque lo scenario più probabile sia quello della doppia segmentazione, con la costituzione di due segmenti lavorativi maschili e due segmenti femminili, uno stabile, l’altro precario, la forza dissuasiva e di pressione su salari, condizioni di lavoro e di contrattazione dei lavoratori di ambo i sessi sembra evidente (Id.: 144). Pertanto possiamo sostenere che la precarizzazione, nonostante sia ampiamente diffusa all’interno di tutta la classe lavoratrice, ha sesso. La prova di ciò è che la flessibilizzazione della giornata lavorativa femminile «è possibile [soltanto] perché ha una legittimazione sociale grazie all’impiego delle donne in giornate più brevi di lavoro: è in nome della conciliazione della vita familiare con quella professionale che tali impieghi sono offerti, e si presuppone che tale conciliazione sia responsabilità esclusiva del sesso femminile» (Hirata, 1999: 8). Oltre a ciò esiste una relazione per la quale il lavoro ed il salario femminile sarebbero complementari per quanto riguarda le necessità di sussistenza familiare. Nonostante sappiamo che oggi, per alcune famiglie, tale premessa non è più vera, poiché il valore “complementare” del salario femminile (che molte volte è quello fondamentale) è frequentemente imprescindibile per l’equilibrio del bilancio familiare, specialmente nell’universo delle classi lavoratrici (Id.: 8). Al contempo, dal momento che la donna contemporanea è una lavoratrice salariata come gli uomini, considerando anche i nuovi posti di lavoro (oltre a quelli precedentemente riservati ai lavoratori), dato che ella condivide la responsabilità del mantenimento familiare o addirittura è ella stessa a provvedere principalmente alla famiglia, alla luce di ciò, le sue attività domestiche non dovrebbero comportare delle sostanziali trasformazioni della divisione sessuale del lavoro? A partire da questo interrogativo principale, oltre a quelli che verranno successivamente posti, svilupperemo il nostro articolo cercando di dimostrare come lo spazio del lavoro sia intimamente vincolato allo spazio della riproduzione, interagendo con le relazioni di genere sussistenti nella complessa e contraddittoria trama di rapporti sociali che conformano la diseguale divisione sessuale del lavoro.

2. Le relazioni sociali di genere

Le relazioni sociali di genere, intese come rapporti diseguali, gerarchizzati e contraddittori, generati sia dallo sfruttamento tipico del rapporto capitale/lavoro, sia dalla dominazione maschile sulla donna, individuano l’articolazione fondamentale della produzione/riproduzione. Il primato economico dello sfruttamento e l’oppressione/dominazione del genere confermano il nostro punto di vista, che parte dalla divisione sessuale del lavoro negli spazi produttivo ed improduttivo, poiché, in tale modo, abbiamo l’opportunità di mettere in evidenza l’importanza dello studio del lavoro nella sfera riproduttiva e della sua intersecazione con il lavoro salariato nella sfera produttiva, contemplando le dimensioni oggettiva e soggettive, individuali e collettive esistenti in questo rapporto. La divisione sessuale del lavoro è pertanto un fenomeno storico poiché si trasforma d’accordo con la società della quale fa parte. Ma nella società capitalistica, secondo tale divisione, il lavoro domestico resta prevalentemente di responsabilità femminile, siano essere inserite o meno nello spazio produttivo. Negli anni ’70 ad esempio la donna lavoratrice accentuava la propria partecipazione alle lotte della sua classe di appartenenza e alle organizzazioni politiche e sindacali. Si pensi alla battaglia contro il discorso conservatore che preconizzava un destino naturale per la donna: essere madre e sposa, mantenendo il concetto di famiglia come istituzione basilare e universale. È in questo decennio che la lotta contro l’oppressione delle donne si accentua, con le lotte per la propria emancipazione economica e sociale, per il proprio diritto al lavoro, con tutte le conseguenze che esso implica, come ad esempio, salari uguali per lavori uguali, oltre alla rivendicazione di una divisione più giusta del lavoro domestico, nella sfera riproduttiva, liberando almeno parzialmente la donna dalla doppia giornata di lavoro. Già venti anni più tardi, nei ’90, la mondializzazione del capitale produce effetti complessi, oltre che contraddittori, interessando in maniera disuguale il lavoro femminile e quello maschile. Per quanto riguarda l’occupazione maschile, essa subisce una regressione e/o stagnazione. L’occupazione ed il lavoro remunerato femminili crescono, ma, al contempo, pur ampliandosi la partecipazione femminile nel mondo produttivo, i compiti domestici continuano ad essere riservati esclusivamente alle donne, ossia, l’organizzazione della famiglia patriarcale viene modificata di poco, il marito continua ad essere colui che sostiene economicamente la famiglia e la donna svolge la stessa funzione ma solo in maniera complementare e non smette di essere la “donna di casa”, confermando la divisione sessuale disuguale del lavoro. Pertanto storicamente le donne hanno sempre vissuto in condizioni di disuguaglianza. I rapporti sociali capitalistici legittimano un rapporto di subordinazione delle donne in relazione agli uomini, imprimendo una connotazione per così dire “naturale” della donna, data la sua subordinazione. In verità, nonostante la lotta femminile abbia mirato, tra le altre cose, alla riduzione della disuguaglianza esistente nella divisione sessuale del lavoro, tanto nello spazio produttivo che in quello riproduttivo, col trascorrere degli anni la logica egemone nel mantenere la struttura della famiglia patriarcale, riservando alla donna le responsabilità domestiche, ha contribuito alla persistenza della disuguaglianza nella divisione sessuale del lavoro ancora nel XXI secolo. Ciò perché, così come abbiamo accennato in precedenza, la divisione sessuale del lavoro è un fenomeno storico e sociale, poiché si trasforma e si ristruttura d’accordo con la società di cui è parte in un determinato periodo. Così nella società capitalistica, stando a questa divisione, il lavoro domestico resta sotto la responsabilità delle donne, indipendentemente dal fatto che esse abbiano o meno un impiego. Vale la pena aggiungere che l’attività domestica non salariata, realizzata nella sfera riproduttiva, è comunque anche essa una forma chiara di lavoro, nonostante la diversa forma assunta rispetto a quella del lavoro salariato nella sfera produttiva. Possiamo sostenere che la divisione sessuale del lavoro non è per nulla neutralità: lavoro femminile e lavoro maschile sono categorie importanti non in funzione della naturalezza tecnica delle loro attività, ma in funzione delle loro relazioni di potere e degli interessi che celano (Pena, 1981: 81). In questo modo, la divisione sessuale del lavoro, tanto nella sfera domestica quanto in quella produttiva, esprime una gerarchia di genere che, in gran parte, ha influenza nella dequalificazione del lavoro femminile salariato, nel senso del deprezzamento della forza-lavoro e conseguentemente provocando una accentuata precarizzazione femminile nel mondo del lavoro. Ciò accade perché «la riproduzione dei rapporti sociali capitalistici di produzione è allo stesso tempo anche riproduzione della divisione sessuale del lavoro. Qui il rapporto capitale/lavoro come rapporto storico concreto può essere visto in modo da incorporare una gerarchia di generi, espressa in categorie quali quelle di qualificazione, responsabilità, controllo, che di fatto non sono neutrali, come d’altronde non sono neutrali le classi» (Id., 1981: 81). Molte delle attuali professioni sono state create dal capitalismo e sono considerate come occupazioni subordinate, data la scarsa qualifica richiesta, i salari bassi, le giornate lavorative parziali e data la sua femminizzazione, come si può osservare nel segmento del telemarketing. In definitiva la divisione sessuale del lavoro non presenta realmente nessun carattere di neutralità. Il capitale, a sua volta, non ha mai ignorato tale realtà e ancora oggi va perfezionando e appropriandosi dell’esistenza della dominazione e subordinazione tra i sessi. Pertanto la gerarchizzazione confermata dalla composizione dei rapporti di potere interni alla famiglia patriarcale e la subordinazione femminile continuano ad essere profittevoli per il capitale (Id., 1981: 82). La intersecazione del lavoro con la riproduzione, nella conformazione capitalistica, serve al capitale, non soltanto ai fini dello sfruttamento della forza-lavoro femminile nello spazio produttivo, bensì anche perché le attività svolte dalle donne nella sfera domestica garantiscono, tra le altre cose, il mantenimento di “lavoratori/trici” per il mondo del lavoro salariato, così come la riproduzione di futuri/e lavoratori/trici che finiscono per riprodursi come forza-lavoro per il capitale (Ibidem). Le attività non remunerate realizzate dalla donna-di-casa (come ad esempio l’alimentazione, il lavaggio della biancheria, la pulizia di casa, ecc.) hanno un ruolo rilevante nella riduzione dei costi della riproduzione della forza-lavoro, mantenendone il valore a livelli più bassi. In tal modo la responsabilità della realizzazione dei compiti domestici delle donne che svolgono un lavoro salariato nel mondo della produzione caratterizza la doppia (e a volte tripla) giornata lavorativa con tutte le implicazioni scaturenti, tra le quali è individuabile la presenza di una forte oppressione di genere unita allo sfruttamento del capitale. A partire da ciò possiamo affermare che le relazioni sociali di genere, qui rappresentate dalla diseguale divisione sessuale del lavoro, si basano sull’articolazione del lavoro salariato femminile con le sue funzioni di riproduzione, dal momento che le relazioni di genere nello spazio produttivo e nella sfera riproduttiva presentano rapporti di sfruttamento e oppressione nelle rispettive sfere. In questo modo una delle cause della diseguale divisione sessuale del lavoro, tanto nella sfera produttiva quanto in quella riproduttiva, consiste nel valutare le implicazioni successive alla messa in discussione dell’autorità del capitale. Il controllo del capitale deve rimanere costantemente presente nei rapporti sociali. È tanto vero che quando intercorrono grandi difficoltà e perturbazioni nel processo di riproduzione, i “rappresentanti” dell’interesse del capitale si preoccupano di scaricare sulla famiglia il peso della responsabilità per i difetti e le “disfunzioni” più frequenti, sostenendo la necessità del “ritorno ai valori della famiglia tradizionale” e ai “valori fondamentali”. Come ha ricordato Mészáros, per il buon funzionamento del sistema del capitale la premessa della vera uguaglianza è assolutamente inaccettabile; una divisione sessuale del lavoro meno diseguale finisce per essere non-integrabile nella logica dominante e irrinunciabile (“non importa quante sconfitte temporanee sia costretto a soffrire”) per chi lotta per essa (Mészáros, 2002: 272). La lotta per una divisione sessuale del lavoro più giusta si riferisce, pertanto, anche ad una lotta contro lo stesso capitalismo. Tale lotta ha come fine il superamento della famiglia patriarcale che gerarchizza i rapporti, contenuta nel nucleo ontologico1, per citare Heleieth Saffioti, tra genere e classe, evidenziati dalla divisione sessuale del lavoro, presenti negli spazi del lavoro e della riproduzione, ossia in tutte le sfere della vita che permeano una relazione di sfruttamento/ dominazione. Intanto è imprescindibile promuovere trasformazioni nella divisione sessuale del lavoro nello spazio domestico, con l’obiettivo di avviare una “prima” liberazione dei compiti femminili, imposti prevalentemente a causa della sua condizione di moglie. Ciò affinché ella possa godere di condizioni di eguaglianza sessuale in ambito produttivo, giacché oggi la bassa remunerazione, la giornata di lavoro parziale di sei ore demotivano buona parte delle donne ad inserirsi nel mondo del lavoro, a perseguire un obiettivo chiaro come quello della carriera perfezionando la propria dimensione professionale, eccetto quando il lavoro sia necessario per la propria sussistenza o quindi di quella familiare. Tuttavia limitarsi alla sola sfera riproduttiva comunque non è utile alle donne, dal momento che il lavoro domestico è più dequalificato socialmente, associato al sesso femminile, dalla società conservatrice, per la quale spettano alla donna i compiti di riproduzione e mantenimento della famiglia e agli uomini la produzione sociale generale. Pertanto oggi molte donne vivono “disperse” tra gli uomini, legate ai propri lari, dal lavoro, dai vincoli affettivi, dalla dipendenza economica (dal padre e dal marito): «Il legame che la unisce ai propri oppressori non è paragonabile a nessun altro». La prospettiva della coppia, nella famiglia patriarcale, è quella della riproduzione della logica per la quale tale istituzione è «una unità fondamentale, le cui metà si trovano legate indissolubilmente l’una all’altra» (Beauvoir, 1980: 13-4). In tale senso possiamo affermare che nella famiglia patriarcale l’uomo tende a governare la vita della donna e ad estorcerle un quantum significativo del suo lavoro domestico. Pertanto il fatto che molte possano essere le donne che accettano tale situazione per una questione di affetto, non muta per niente la dura realtà dell’oppressione, ma la rende più complessa. Pertanto come abbiamo già scritto, i ruoli definiti maschili e femminili non sono prodotti di un destino biologico, ma sono prima di tutto costruzioni sociali, che hanno come base materiale il lavoro e la riproduzione (Kergoat, s.d.).

3. La donna e la riproduzione capitalistica nella modernità

A partire dalla fine del XIX e agli inizi del XX secolo il modo di produzione capitalistico, avendo come nucleo fondamentale la grande industria, darà vita a due nuovi processi lavorativi che si generalizzeranno all’interno dell’intera industria capitalistica: il taylorismo ed il fordismo. Il taylorismo, stando a quanto afferma Alain Bihr, «è un termine derivato dal nome del suo inventore, l’ingegnere americano Taylor (1865-1915), fondato sulla rigida separazione tra attività concettuale ed esecutiva, accompagnata da una parcellizzazione di queste ultime, dovendo ogni operaio, in ultima analisi, eseguire appena pochi gesti elementari» (1998: 39). Esso struttura, «dall’altro lato, basandosi sui principi tayloristi, una meccanizzazione del processo lavorativo, un vero sistema di macchine che garantisce l’unità (la ricomposizione) del processo di lavoro parcellizzato, dettando ad ogni operaio i movimenti da eseguire e la cadenza (la catena di montaggio rappresenta la forma estrema di tale (principio). È ciò che successivamente, sommato ad altre condizioni, verrà denominato “fordismo”» (Idem: 39). Il fordismo inizialmente ha costituito una forma di produzione e di gestione. Creato da Henry Ford nel 1913, dopo dieci anni dalla fondazione dell’impresa che porta il suo nome. L’obiettivo è quello di sviluppare un aumento di produzione tale da soddisfare i bisogni di un elevato numero di consumatori. Stando a Gounet, Ford si imbatte nel modello precedente di organizzazione del lavoro, ove gli operai erano altamente specializzati e responsabili per la fabbricazione dell’intera automobile. Si può facilmente immaginare che, tuttavia, a causa della struttura di un veicolo, composta da migliaia di componenti, ed essendo prodotta in maniera praticamente artigianale, la produzione finiva per essere lenta e conseguentemente dava vita ad una merce molto cara (1999: 18). Henry Ford modifica tale modello produttivo, impiegando «i metodi del taylorismo (ovvero dell’organizzazione scientifica del lavoro) nell’industria automobilistica per poter soddisfare un potenziale consumo di massa» (Id.: 18). Pertanto il fordismo era dotato, tra le altre caratteristiche, di una organizzazione del lavoro strutturata sulla catena di produzione gerarchizzata. Le industrie fordiste presentano un organigramma a forma piramidale in modo che la struttura di base è composta dall’equipe di base e dagli operai; in cima incontriamo una equipe di gerenti professionisti, con il vertice occupato dalla presidenza. In tale modello di produzione la divisione sociale del lavoro si trovava al servizio della produzione standardizzata, perseguendo un controllo assoluto sui processi di perfezionamento della produzione di merci. Questo sistema sebbene necessitasse di un macchinismo altamente produttivo, era lento nella reazione ai rapidi mutamenti del mercato locale e mondiale. Intanto, fu questo modello di produzione che collocò l’industria automobilistica di Henry Ford e quelle ad esso ispiratesi, al vertice della produzione mondiale standardizzata, servendo da modello per altri tipi di imprese. Il fordismo passò intanto ad essere considerato un riferimento per quanto riguarda la gestione, la produzione ed altri tipi differenti di prestazione di servizi (Rifkin, 1995: 100). In questo modo il binomio fordismo/taylorismo è la forma assunta dal sistema produttivo che impererà nella grande industria nel secolo XX. Ha, a fondamento, la produzione di massa che concretizza in una produzione più omogeneizzata. Tale modello produttivo si caratterizza per la combinazione del cronometro taylorista con la produzione in serie fordista, basandosi sul lavoro frammentato e parcellare e su una netta divisione tra elaborazione ed esecuzione (Antunes, 1999: 229-230). Ciò fa sì che la fabbrica, nell’ampliare il suo raggio di regolazione e dominio, esercitasse un forte controllo sul proletariato. Gli imprenditori non solo regolavano il ritmo di lavoro bensì anche la vita privata dei/lle lavoratori/trici. Il nuovo modello produttivo capitalistico (taylorismo/fordismo) non si riduceva ad essere soltanto un controllo del temo (cronometro taylorista), bensì si estendava al controllo della vita del/la lavoratore/trice. L’estensione del controllo della fabbrica nello spazio riproduttivo del/la operaio/a, grazie al metodo Ford, veniva messo in pratica in modo rigido, coercitivo e persuasivo, con l’obiettivo della formazione di una nuova etica. Fu riconoscendo tale aspetto che Gramsci affermò: "Deve essere messo in risalto l’attenzione che gli industriali (specialmente Ford) dedicavano alle relazioni sessuali dei propri dipendenti e per la sistemazione delle loro famiglie; l’apparenza di “puritanesimo” assunta da tale interesse (come nel caso del proibizionismo) non deve condurre a conclusioni errate; la verità è che non è possibile sviluppare il nuovo tipo di uomo necessitato dalla razionalizzazione della produzione e del lavoro se non viene rigorosamente regolamentato l’istinto sessuale, se non viene anche esso razionalizzato"(1974: 392). La nuova etica sostenuta da Ford era in verità un’etica sessuale della produzione capitalistica che necessitava di un lavoratore riposato e pieno di vitalità per portare a termine la propria attività lavorativa. Infatti «l’operaio che si reca a lavoro dopo una notte di “baldoria” non è un buon lavoratore, l’eccitazione passionale non può andare d’accordo con i movimenti cronometrati dei gesti produttivi legati ai più perfetti automatismi» (Id.: 170). Si comprende quindi come questo nuovo modello produttivo necessitava, tra le altre cose, di una famiglia monogamica, cioè di una forma di unione priva delle vivacità del romanticismo “piccolo-borghese”, che funzionasse principalmente come educatrice degli istinti sessuali degli uomini. Si ricordi la celebre frase di Taylor sul “gorilla ammaestrato”, che aveva come obiettivo quello di introiettare all’estremo, nei lavoratori, le posture meccaniche ed automatiche, ossia «fare a pezzi il vecchio legame psicofisico del lavoro professionale qualificato, che esige una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al loro solo aspetto fisico macchinico» (Id.: 167). L’intenzione di Ford di controllare la vita privata del proletariato grazie alle iniziative educative si basava su alcune caratteristiche del modello taylorista di produzione che, senza dubbi, agevolò la nascita di una nuova formazione familiare, quella monogamica - uno dei suoi tratti tipici è la stabilità, indispensabile nello spazio produttivo. L’istituzione monogamica si trasformava in questo modo in una istituzione regolatrice del dispendio di energia, essendo la sua funzione, oltre che quella riproduttiva, quella di “rigeneratrice di forze”. Secondo Valeria Péna «la monogamia si trasforma in un’organizzazione razionalizzata della famiglia, ove l’uomo è il gorilla ammaestrato di cui parlava Taylor, la donna, la sua compagna addomesticata». Pertanto lo spazio riproduttivo si trasformava in un luogo di sottomissione alle regole industriali e la “donna di casa” finisce per essere la riproduttrice della logica del capitale (Péna, 1981: 128). In tal modo le donne lavoratrici nelle fabbriche si trovano alla mercé, insieme ai lavoratori, degli estenuanti meccanismi di sfruttamento e oppressione tipici dei regolamenti della produzione industriale taylorista/fordista, cioè intensa produttività, rigidità disciplinare, bassi salari ecc. Dal momento che la forza-lavoro femminile era storicamente poco valorizzata, sottoposta ad intensi processi di precarizzazione, ossia, percettrice di salari avvilenti, le lavoratrici occupavano i livelli più bassi della gerarchia produttiva. In seguito, con l’esaurirsi del binomio taylorismo/fordismo, si fa strada una nuova espressione del processo di razionalizzazione del lavoro: la ristrutturazione produttiva. È una delle risposte che il modo di produzione capitalistico dà in reazione alla cosiddetta crisi strutturale del capitale, congiuntamente alla riorganizzazione del suo sistema ideologico e politico di dominazione, ovvero con l’avvento del neoliberismo, che viene caratterizzato fondamentalmente dalle privatizzazioni dello Stato, la deregolamentazione dei diritti lavorativi, la flessibilità del lavoro ecc. (Id.: 31). Mary Castro analizza questo periodo scrivendo che «il neoliberismo deve essere discusso non solo come una forma di organizzazione dell’economia politica, bensì come un tipo di cultura con la quale si amplia la subordinazione dei/lle lavoratori/trici, fino a minarne le basi volitive, dell’autostima e della dignità. Altra caratteristica dell’ethos neoliberista nei processi di lavoro è il processo di flessibilizzazione accompagnato dall’enfasi posta sulla modernizzazione, sull’efficienza e le relative tecniche di gestione, si pensi al toyotismo» (2001: 275). Il toyotismo, modello giapponese di produzione, grazie alla flessibilità nella risposta alle esigenze mutevoli del mercato, ha dato delle risposte immediate che interessano direttamente il mondo del lavoro, dato il conseguente approfondimento della frammentazione della classe lavoratrice. Il lavoro viene svolto in gruppo, per cui è fondamentale che il lavoratore «abbracci la causa dell’impresa». A partire da tale organizzazione il rapporto salariale implica nuove conseguenze. Con il toyotismo il capitalismo ha modificato la forma di sfruttamento del lavoro, si pensi al fatto che, utilizzando principalmente la cosiddetta logica della flessibilità, finisce con l’utilizzare quote crescenti di lavoro femminile. Ad esempio il lavoro terziarizzato frequentemente rende possibile lo svolgimento di mansioni lavorative a domicilio, concretizzando il lavoro produttivo nello spazio domestico. Di tale forma organizzativa ne beneficia l’imprenditore, che si libera dei costi sociali e dei diritti tipici del lavoro subordinato degli uomini e delle donne. Tali benefici giungono a minacciare anche i lavoratori tradizionali e legislativamente protetti, come ben dimostra la discussione politica sulla flessibilità della CLT (Consolidação das Leies de Trabalho) negli ultimi anni. È importante sottolineare che quando il lavoro produttivo viene realizzato nello spazio domestico, il capitale, nello sfruttare la donna in quanto forza-lavoro, si appropria con maggiore intensità delle sue conoscenze sviluppate nelle attività riproduttive, connesse alle mansioni originarie del suo lavoro riproduttivo. In tal modo il capitale, oltre ad intensificare la disuguaglianza di genere nel rapporto di lavoro, accentua la duplice dimensione dello sfruttamento. Così le donne lavoratrici oltre ad essere più sfruttate nel mondo del lavoro, sommano alle faticose e lunghe giornate di lavoro nello spazio produttivo le interminabili mansioni dello spazio riproduttivo. Si configura così una divisione sessuale del lavoro che oltre a precarizzare al massimo la forza-lavoro femminile, le riserva anche i compiti dello spazio riproduttivo.

4. La donna e la riproduzione nel mondo contemporaneo

Nel capitalismo contemporaneo l’industria non necessita più di una grande quantità di operai come nel suo periodo iniziale, al contrario occorre una “liofilizzazione” dei lavoratori, termine utilizzato da Antunes. Ciò di cui si ha bisogno è un numero minore di forza-lavoro che dovrà essere più qualificata, il cui lavoro sarà sottoposto ad intensificazione. Pertanto le famiglie in gran parte dovranno adattarsi a questa nuova realtà del mondo del lavoro. Secondo Peggy Morton: "I profitti dipendono ancora di più dall’organizzazione efficiente del lavoro e dall’autodisciplina dei lavoratori, nonché dalla semplice accelerazione dei ritmi fino ad altre forme dirette utilizzate per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori [...]. La famiglia deve procreare figli che assimilino i rapporti sociali gerarchizzati, si autodisciplinino e lavorino efficientemente senza la necessità di una costante supervisione [...]. La donna è per buona parte responsabile di tale tipo di socializzazione (cit. in Mitchell, 1977: 170). Lo spazio riproduttivo è una sorta di imitazione “accentuata” del mondo del lavoro. Il lavoro domestico comprende un’enorme porzione della produzione socialmente necessaria. Cioè nel processo di accumulazione del capitale il quantum di merce/forza-lavoro è imprescindibile, dal momento che è tramite lo sfruttamento del dispendio di energia socialmente necessaria per la produzione di merci che si genera plusvalore. Pertanto lo spazio domestico familiare è fondamentale affinché il capitale assicuri la riproduzione ed il mantenimento della classe lavoratrice. Così scrive Juliet Mitchell : "Nella società capitalistica il lavoro consiste nell’alienazione dello sforzo impiegato nell’elaborazione di un prodotto sociale che viene confiscato dal capitale. Tuttavia a volte anche un vero atto di creazione, responsabile e con finalità, può essere soggetto al peggiore sfruttamento [...]. Il prodotto biologico - il figlio - è trattato come se fosse un prodotto formale. La procreazione si trasforma in una sorta di sostituzione del lavoro, in un’attività nella quale il figlio è visto come un oggetto creato da sua madre, nello stesso modo in cui una merce è creata da un operaio"(1977: 119-120). Francisco de Oliveira aggiunge che «la merce di fatto non è il lavoratore o i suoi figli bensì la forza-lavoro» (1976: 12). In altre parole, I figli fanno parte dei costi di riproduzione della forza-lavoro come un risultato aleatorio, non pianificato, e tale rischio è presente nel fatto che i salari non sono pagati tenendo in considerazione la dimensione della famiglia del lavoratore, ma vengono determinati, da un lato, dal lavoro vivo che egli trasferisce al capitale, e dall’altro, dal valore che questi incorpora nel prodotto. La particolare composizione interna alla famiglia del lavoratore, che garantisce la vendita della forza-lavoro insieme alla produzione domestica di valori d’uso, avvantaggia il capitale, poiché consente ad esso di pagare salari più bassi alla forza-lavoro rispetto al suo stesso costo di riproduzione. Non possiamo dimenticare, pertanto, che non esiste forza-lavoro senza lavoratore/trice, generato/a da una donna. Quindi la vendita della forza-lavoro del/la proletario/a è garantita dalle attività domestiche realizzate, nella maggior parte dei casi, dalla donna, lavoratrice produttiva o meno che sia. Un’altra questione che mi sembra pertinente all’argomento è indicata anche da Francisco de Oliveira. Secondo l’autore c’è una certa teoria economica che sostiene l’ipotesi per la quale la riproduzione biologica, ossia, la produzione di figli, è anticipatamente pianificata dallo/a stesso/a lavoratore/trice. Da un tale approccio sorgono due diramazioni: «la prima, tipica di certo marxismo volgare, è quella per la quale egli/ella pianifica la riproduzione della forza-lavoro necessaria per la riproduzione del capitale», e la seconda basata sui principi «neoclassici e marginalisti, per la quale il soggetto maschile o femminile programma la sua famiglia e la sua dimensione in ragione della produttività marginale variabile in funzione al numero dei figli o dal non averne». Ovvero nella prima lettura l’approccio centrale è collegato al fatto che il/la lavoratore/trice riproduce la sua classe per mezzo della sua famiglia con il risultato di contribuire alla riproduzione della logica del capitale; nella seconda, di contro, la decisione sulla composizione della famiglia in rapporto al numero dei figli è direttamente vincolata all’ottimizzazione della sua “funzione di consumo”. Entrambi gli approcci equivocano intendendo il/lla lavoratore/trice «come proprietario, in tal caso, della propria famiglia» (Oliveira, 1976: 11). Pertanto la riproduzione del/la lavoratore/trice è per il capitalismo un dato fondamentale, giacché il suo “potere” di riproduzione finisce per ridursi ad una caratteristica biologica priva di proprietà, trasformandolo in una «specie di animale sociale» (Id.: 11). A proposito della riduzione della riproduzione del/la lavoratore/trice a una specie di riproduzione animalesca, Marx così scriveva: " La [...] categoria della sovrappopolazione relativa, quella stagnante, costituisce parte dell’esercito attivo dei lavoratori, ma caratterizzata da un’occupazione assolutamente irregolare. Essa così offre al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. La sua condizione di vita cade al di sotto del livello medio della classe lavoratrice, e fa di essa una base ampia per certi rami dello sfruttamento del capitale." E conclude : "Di fatto non solo la massa delle nascite e dei decessi, ma anche la grandezza assoluta della famiglia sono proporzionati inversamente al livello del salario, cioè alla massa dei mezzi di sussistenza a disposizione delle differenti categorie di lavoratori. Questa legge della società capitalistica sarebbe un assurdo tra le popolazioni selvagge o anche tra i coloni civilizzati. Ricorda la riproduzione massiccia delle specie animali individualmente deboli e molto perseguitate" (Marx, 1988: 199). Ciò che, secondo Francisco de Oliveria, sarebbe una sciocchezza per i selvaggi, diventa «naturale nel mondo della produzione di plusvalore». "Nel separare il lavoratore dai suoi mezzi di produzione (come durante il passaggio dal feudalesimo alla manifattura per una grande industria), il capitale impone ora il suo vero modo di produzione, avendo a base il lavoro sfruttato e alienato. La riproduzione in questo contesto è espressione della riduzione della classe lavoratrice alla sua condizione sociale operaia"(Oliveira, 1976: 12). Inoltre aggiunge: "Il matrimonio o la costituzione della famiglia operaia, ben differentemente da quanto può essere per le altre classi sociali, non è un modo per perpetuare la specie, ma una forma di difesa: così come per i leoni, il matrimonio operaio è un modo per “cacciare” [...]. Si presenta così all’inizio solo come una forma di difesa dallo sfruttamento, ove l’uomo e la donna si uniscono, grazie alla vendita della forza-lavoro di uno dei due e la produzione di valori d’uso domestici dell’altro, per difendersi e sopravvivere allo sfruttamento. I figli [...] sono un risultato di questa naturalità sociale operaia e non un presupposto" (Ib.). Intanto il numero di figli di una famiglia che appartiene alla classe lavoratrice non può essere inteso unicamente come una ipotesi anticipata, come un’intenzionalità del/la lavoratore/trice, giacché il suo “prodotto” è indispensabile in quanto “sostituzione” di forza-lavoro per il capitale. In questo modo la gestione del lavoro realizzato quotidianamente dalle donne nello spazio riproduttivo assicura al capitalista la riproduzione e perpetuazione della forza-lavoro e di conseguenza garantisce anche la riproduzione della stessa logica del capitale. Ciò che ha indotto Mészáros a sostenere che " [...] il consolidamento della famiglia nucleare - sintonizzata con la necessità di rapporti flessibili di proprietà adeguate alle condizioni di alienabilità e reificazione universali ed ancora, all’esigenza essenziale della buona riproduzione di una forza-lavoro mobile senza la quale la fase capitalistica dello sviluppo del sistema del capitale forse non si sarebbe mai avuta - è un fenomeno storico certo posteriore all’apparizione dei dinamici rapporti di scambio monetario" (2002: 207). Possiamo dire allora che questa garanzia per il capitale è una delle principali ragioni per le quali il capitalismo mantiene viva la forma d’unione della famiglia patriarcale come uno dei suoi interessi. Il matrimonio con il conseguente “contratto di dipendenza” della moglie dall’uomo, agevola il controllo del capitalismo in rapporto alla partecipazione femminile al mondo del lavoro produttivo, confermando l’importanza delle attività domestiche e materne (Toledo, 2001: 44). Pertanto la famiglia patriarcale, per la società capitalistica, è un importante alleato per la sua dinamica. Le faccende domestiche, ossia il “pensare” alla famiglia sono un’attività riproduttiva fondamentale. Nei termini marxiani il lavoro domestico non oggettiva la creazione di merci, bensì la creazione di beni utili indispensabili per la sopravvivenza della famiglia. Ed essa è una delle differenze essenziali tra il lavoro salariato e quello domestico, perché mentre l’uno è vincolato allo spazio produttivo, ossia crea merci e conseguentemente genera valori di scambio, l’altro è collegato alla produzione di beni utili necessari per la riproduzione dei propri componenti della famiglia, facendo sì che il capitale comunque si appropri, in gran parte, sebbene indirettamente, della sfera riproduttiva. Ciò accade perché il capitale necessita costantemente di diminuire la spesa con la riproduzione della forza-lavoro, il che è possibile riducendo i valori dei salari di tutta la classe lavoratrice. E, in particolare, questo processo è ancora più accentuato nella forza-lavoro femminile, che in un certo modo già è deprezzata a causa dei rapporti di potere esistenti tra i sessi, principalmente all’interno della famiglia patriarcale. In questo processo la donna si trasforma in una specie di “esercito di riserva” di forza-lavoro sottopagata, tale che il modo di produzione capitalistico abbia “argomenti” sufficienti per continuare il suo processo di precarizzazione del proletariato in generale, e della donna lavoratrice in particolare. È per questa ragione che parlare di divisione sessuale del lavoro è molto più che constatare le specificità di genere. Consiste invece nel combinare tale descrizione del reale con un’analisi dei processi che la società utilizza per la sua dinamica di differenziazione finalizzata alla gerarchizzazione delle attività.

5. A mo’ di conclusione

Un rapporto di uguaglianza sostanziale nello spazio riproduttivo, come in quello produttivo, non è nell’interesse e nemmeno nella logica del capitale, che al massimo “permette” un rapporto di uguaglianza appena formale. Marx ci ricorda che nel "rapporto con la donna come la preda e la dispensatrice di lussuria della società è impressa nella degradazione inibita nella quale l’essere umano versa, poiché il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, disvelata, nel rapporto dell’uomo con la donna e nel modo in cui è gestito il rapporto naturale, immediato di genere" (1983: 166-7). Ciò mette in evidenza il fatto che il capitale si oppone al processo di emancipazione della donna, visto che necessita, per la preservazione del suo sistema di dominazione, del lavoro femminile, tanto nello spazio produttivo che in quello riproduttivo, preservando, in entrambi i casi, i meccanismi strutturali che generano la subordinazione della donna. È per questa ragione che è possibile affermare che l’articolazione tra la sfera della produzione e quella riproduttiva deve essere fondata nella logica della divisione sessuale del lavoro sussistente tra mondo del lavoro salariato così come nella famiglia patriarcale. Pertanto l’importante categoria della divisione sessuale del lavoro interna alle sfere produttiva e riproduttiva rende possibile l’articolazione delle sue dimensioni che definiscono tale rapporto: il lavoro e la riproduzione. Nel mondo produttivo contemporaneo uno dei settori che maggiormente assorbe la forza-lavoro femminile è quello dei servizi. Settore, questo, che ci consente di evidenziare come la forza-lavoro femminile abbia come caratteristica l’attribuzione di compiti monotoni, ripetitivi e stressanti, nonché di lavoro part-time. In questo contesto è possibile affermare che le funzioni più precarie, nel mondo del lavoro, sono riservate alle donne perché sono direttamente articolati i rapporti di potere evidenziati dalla classica affermazione per la quale il lavoro femminile avrebbe meno valore rispetto a quello maschile principalmente in virtù delle stesse specificità “naturali” della madre e della sposa. È comunque vero che questo rapporto è pieno di contraddizioni ed antagonismi, del resto come accade sempre in tutti gli ambiti ove gli interessi del capitale impongono la propria logica. Il fardello imposto dal “sistema del capitale” alle donne per il mantenimento della famiglia nucleare è enorme, e la loro condizione nello spazio produttivo è profondamente ingiusta. Invece di essere alleggerite, come pretenderebbe la retorica dell’opportunità dei diritti uguali per le donne e dell’eliminazione di qualsiasi discriminazione di genere, ciò che esse sperimentano di fatto è una accentuata precarizzazione della loro forza-lavoro (Mészáros, 2002: 302-3). Perciò è imprescindibile che nella lotta per una divisione sessuale del lavoro con maggiore uguaglianza sia presente la battaglia contro l’oppressione maschile sulla donna, come d’altronde l’obiettivo del superamento dei rapporti capitale/lavoro. Sotto la logica del sistema di espansione capitalistico lo spazio produttivo assorbe ancora di più la forza-lavoro femminile, confermando la sua femminilizzazione. È un movimento che esige molta attenzione dalla lotta femminile, affinché venga presa in considerazione la questione dell’uguaglianza dei diritti della donna, eliminando dal processo le disuguaglianze esistenti. Ciò perché l’inserimento accentuato della forza-lavoro femminile si dà non per l’interesse del capitale all’emancipazione della donna, ma seguendo la logica dell’incremento dell’accumulazione di valore. Ciò succede, sostiene Mészáros, «non solamente perché le donne sono costrette ad accettare una parte sproporzionata delle occupazioni più insicure, peggio pagate» del mondo del lavoro, - ancora, «rappresentano il 70% dei poveri nel mondo» -, ma in virtù del proprio ruolo decisivo nella famiglia patriarcale, perché «le esigenze che sono (e continueranno ad essere) soddisfatte prevalentemente dalle donne è più difficile soddisfarle in uno scenario sociale più ampio, contribuendo ciò a provocare “disfunzioni sociali” associate alla crescente instabilità della famiglia» (2002: 304-5). Pertanto quanto più profonde sono queste “disfunzioni sociali” maggiori saranno il peso e le esigenze imposte alle donne come asse della famiglia; quanto più accentuata da questi carichi, oltre allo sfruttamento del lavoro nello spazio produttivo, più intensa sarà la condizione di oppressione femminile nello spazio riproduttivo patriarcale. Un altro aspetto importante al quale il capitale presta attenzione in relazione alle donne, secondo l’autore "è la frammentazione e riduzione della famiglia nucleare al suo nocciolo più intimo (comprovata dagli indici crescenti di divorzio) che, nella qualità del “microcosmo” e dell’unità consumatrice basilare della società, tende a contribuire ad una maggiore instabilità della propria famiglia, sotto enormi pressioni nel momento di crisi strutturale ancora più profonda" (Id.: 305). Da questo punto di vista è significativo ricordare che, essendo la lotta delle donne incentrata sulla questione dell’uguaglianza sostanziale della divisione sessuale del lavoro, tanto nello spazio riproduttivo che nella sfera della produzione, il sistema del capitale non può assolutamente essere nient’altro che la perpetuazione della ingiustizia fondamentale, dal momento che la stessa natura del legame tra capitale, lavoro e riproduzione "è una manifestazione tangibile della gerarchia strutturale insuperabile e della disuguaglianza sostanziale" (Id.: 306). In altre parole, la critica della società capitalistica non può limitarsi ad analizzare lo sfruttamento esistente nello spazio produttivo, per quanto comunque sia importante. La critica deve abbracciare anche tutti i profondi e sfaccettati aspetti negativi di questa logica, quale la comprensione della oppressione tipica dello spazio riproduttivo, in tal caso rappresentato dalla struttura della famiglia patriarcale che impone una diseguale divisione del lavoro per la donna. In definitiva questo testo ha cercato di dimostrare che l’articolazione delle categorie lavoro e riproduzione consente di evidenziare l’aspetto dialettico della positività e negatività cui ci si trova davanti nella dinamica contraddittoria. La femminizzazione del mondo del lavoro sicuramente è positiva, essendo un passo in avanti verso l’emancipazione, sebbene parziale, tuttavia non viene messa in discussione significativamente la doppia giornata lavorativa della donna, anzi, al contrario: si intensificata tale condizione. Essendo, il lavoro domestico, un lavoro senza “valorizzazione monetaria”, nonostante sia fondamentale per la riproduzione e mantenimento della forza-lavoro in generale, continua ad essere riservato principalmente alle donne. Questa situazione si traduce in un accentuato sfruttamento femminile nel mondo del lavoro e una profonda oppressione maschile esercitata sulla donna nello spazio riproduttivo. Insomma una nuova divisione sessuale del lavoro, tanto nello spazio produttivo che in quello riproduttivo è assolutamente necessaria. Tuttavia non è interesse del capitale una trasformazione in tale ambito soprattutto se essa sia finalizzata ad una eguaglianza sostanziale e ancora meno se col fine di un’alterazione gerarchica della famiglia, che permetta di raggiungere l’uguaglianza di genere e conseguentemente estinguere l’oppressione maschile presente nella famiglia patriarcale.

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