IFE Italia

Le comunità che trasformano l’economia.

di Monica Di Sisto e Riccardo Troisi
giovedì 17 maggio 2018

Un centinaio di persone, tra esperte ed esperti, ricercatrici e ricercatori, praticanti, donne e uomini, tra cui molti giovani, da tutta Italia, pronti a confrontarsi senza alcuna gerarchia per due giorni pieni in parallelo su cinque assi di ricerca: i confini del lavoro e le sue forme di autorganizzazione; territori, le comunità possibili; sistemi economici locali – finanza e monete per i territori; la ricostruzione del valore nella condivisione dei beni comuni, tra filiere e piattaforme; la crisi dei corpi intermedi, mutualismo e nuove forme di autorganizzazione. Una metodologia sperimentale co-gestita, in cui si partiva da alcune ricerche ed esperienze-guida per leggerle insieme, analizzarle e, se necessario, decostruirle e rimontarle in un dialogo facilitato che è atterrato, tappa dopo tappa, su supporti di carta e visivi, per condividere parole e spazi e lasciarsi sorprendere da quello che si componeva insieme.

Questi elementi hanno caratterizzato il laboratorio “Storie del possibile, pratiche e ricerche a confronto” che un gruppo della redazione allargata di Comune-info [i] ha organizzato presso lo spazio sociale romano dell’ ex Lavanderia del Santa Maria della Pietà. L’obiettivo condiviso con la convocazione dell’incontro era ambizioso: cercare le tracce comuni, le intersezioni, le possibili convergenze tra esperienze nate dal basso intorno ai temi dell’economia solidale, della decrescita, dei beni comuni. La visione che si voleva provare a definire sembra improrogabile: provare a mettere in priorità i campi nei quali agire insieme per aggregare più forza e visibilità intorno a quell’economia trasformativa che è sempre più urgente praticare ma soprattutto condividere fuori dalle reti formali e informali al lavoro sulle diverse tematiche nei territori.

Alla fine i campi definiti tra ascisse e ordinate delle matrici elaborate nei numerosi tavoli di lavoro che si sono composti e ricomposti nelle due giornate di intenso confronto, hanno messo a fuoco alcune piste di lavoro prioritario e comune condiviso tra pratiche diverse spesso inconsapevoli di quanto ciò che elaborano e producano sia di vitale importanza per ambiti geograficamente lontani o vicinissimi, impegnati a testa bassa a fronteggiare emergenze concrete. Imponente anche il calendario di iniziative attraversate, anche insieme, da molte di queste comunità, in cui elaborazioni e competenze si intrecciano in una trama invisibile ma stringente di resilienza sociale e ambientale e che potrebbero essere messe a disposizione di questa possibile visione comune di rigenerazione e trasformazione, per precisarla e raccontarla, aprendola sempre di più e meglio alla partecipazione e alla comprensione dell’opinione pubblica e dei decisori politici. Sì, perché troppo spesso queste esperienze, come è emerso da alcune delle ricerche esaminate[ii], rispondono con piena coerenza, in autogestione e autofinanziamento, alle principali priorità poste dall’Agenda Urbana dell’UE espressa nel Patto di Amsterdam (giugno 2016)[iii], o dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile. Eppure ricadono in un cono d’ombra normativo, perché troppo avanzate o perché attive nella rigenerazione di spazi fisici o sociali abbandonati, tra formale e informale, con cui poche amministrazioni hanno l’intuizione e il coraggio di misurarsi in modo costruttivo e non repressivo. Una dimensione di conflitto macro e quotidiano, che spesso confina queste esperienze, e il loro potenziale innovativo, nei limiti della fragilità e dell’ininfluenza.

Susy prima e dopo

Una delle tappe che ci ha portato a condividere ed elaborare il percorso verso l’evento all’ex Lavanderia è stata la ricerca europea “Economia trasformativa: opportunità e sfide dell’economia sociale e solidale in Europa e nel mondo” coordinata dall’associazione Fairwatch nell’ambito del progetto “Social & solidarity economy as development approach for sustainability (Ssedas) in Eyd 2015 and beyond”. Oltre ottanta ricercatori, 550 interviste e mappature per uno spaccato di 1.100 pratiche di economia sociale e solidale che coinvolgono, da sole, più di 13mila persone in Europa e nel mondo. La ricerca ha tentato di raccontare la trasformazione concreta dell’economia nei territori e nelle comunità ai tempi della crisi, coinvolgendo ambiti diversi – dall’agricoltura ai servizi e riflettendo le peculiarità di ogni contesto nazionale.

Quello abbozzato nella ricerca non è un “programma di sviluppo” organico, sostanzialmente uguale in territori e Stati tanto diversi tra loro, tra i quali le distanze non sono solo geografiche. Esso ha rivelato, invece, che realtà analoghe sono emerse in pochi anni in società lontane, che valori profondamente umani stanno caratterizzando attività economiche così simili in alcuni contenuti e obiettivi concreti, soprattutto che un anelito verso relazioni interpersonali e collettive più ricche e innovative è sostanzialmente comune in territori apparentemente agli antipodi.

Le costanti emerse ad ogni latitudine, indicano che il processo verso un’economia trasformativa, sociale e solidale, incrocia le intenzioni (almeno dichiarate) delle principali strategie di politica pubblica verso uno sviluppo sostenibile, attraverso alcune pratiche concrete e quotidiane: l’auto-organizzazione collettiva per sostenere la vita (umana e non umana); il coordinamento democratico delle imprese economiche e sociali; l’autonomia delle imprese; il lavoro e la proprietà collettiva e/o partecipata (sharing) all’interno di soggetti e reti; un’azione civica e sociale partecipativa all’esterno di questi soggetti e delle loro reti; formazione e apprendimento permanente; la trasformazione sociale incentrata sui bisogni dell’essere umano e sull’ambiente.

Si evidenziano anche fragilità strutturali e congiunturali: la difficoltà delle realtà di mettersi in rete, di autorappresentarsi e imporsi nel proprio contesto al di fuori dell’area di azione del proprio intervento, la difficoltà di emersione nel barocco comunicativo contemporaneo e il rischio di sussunzione e neutralizzazione del potenziale trasformativo di concetti chiave come il “green” e lo “sharing”. Ultimo e più stringente problema, la relazione con le istituzioni: migliore a livello locale, nonostante meno del 50% delle pratiche individuate sia riuscita a citare un intervento o politica pubblica adatta o rivolta alla propria azione. Complessa a livello nazionale, europeo e sovranazionale, dove l’introduzione di criteri e/o politiche sistemiche non settoriali ma di indirizzo integrato delle politiche e pratiche economiche in una direzione di giustizia sociale e ambientale, non squisitamente volontarie, resta a tutt’oggi un tabù.

La due giorni romana, dunque, ha aperto uno spazio all’interno del quale, a partire da ricerche innovative che facessero da ‘innesco’ per la elaborazione collettiva, si ragionasse sui 5 assi di proposta rispetto ai quali, scommettendo su un’economia diversa come strumento di trasformazione, come è emerso nel processo di ricerca Susy e nelle tappe successive, ma anche da molte delle altre ricerche presentate si sta giocando a livello globale la sfida della resilienza sociale e ambientale ai cambiamenti climatici e alla sovrappopolazione.

Innanzitutto il lavoro, tra sfruttamento, precarietà e ricostruzione del senso dell’operare e della sua retribuzione. Poi i territori e le comunità verso nuove tessiture e identità. In terzo luogo l’esperienza dei distretti produttivi e la finanza solidali, dove si giocano nuove relazioni tra persone, siano esse produttori o consumatori intesi come co-produttori. E ancora nuovi percorsi per ricostruire e ricalcolare il valore nei processi produttivi e distributivi, cogliendo le sfide lanciate dalle pratiche di filiera e di piattaforma, ragionando sulle esperienze di economia circolare, di internalizzazione dei costi sociali e ambientali nella catena produzione-fruizione-rigenerazione, ma anche di valorizzazione di un’economia della cura di se’ e del pianeta relegate nella dimensione dell’informale, della mercificazione o dell’autosfruttamento. Infine il come organizzarsi e autorganizzarsi, e come autorappresentarsi rispetto a media, opinione pubblica e istituzioni, cogliendo la crisi di credibilità e tenuta dei corpi intermedi storici – sindacati, partiti, ma le stesse organizzazioni storiche della comunità internazionale e della società civile – come opportunità di sfidare i concetti di delega, democrazia e rappresentanza.

La trama comune

Quella che è emersa dalle due giornate di Roma non è una nuova Carta, un Patto, o l’ennesimo tentativo di alleanza colata in laboratorio. È una trama, abbastanza nitida, di punti di forza e intersezione tra i diversi ambiti d’approfondimento sui quali continuare a lavorare insieme di qui in avanti. In gioco, come sottolineato più volte, non è il destino di una nicchia virtuosa “verde” ed “etica” dell’economia e della società. È il cambio di paradigma da innescare dal basso a livello sistemico, a partire dagli impegni assunti dalla comunità internazionale, per affrontare i limiti del pianeta non come minaccia al nostro stile di non-vita attuale, ma come indicazioni programmatiche per una convivenza paritaria e pacifica nel benessere condiviso, in equilibrio con l’ambiente in cui viviamo.

Vivere la comunità, e il territorio su cui insiste, non come un limite da superare o difendere, entro i quali definirsi e rinchiudersi, ma come patto di cura del proprio spazio in solidarietà e contatto consapevole con la comunità umana e l’ambiente tutto, è la cifra più profonda del cambiamento individuato come necessario. “Comunità di cittadini che fondano il loro stare insieme non attraverso la forma del contratto, inteso come accordo fra interessi individuali e di gruppo, ma in quanto legati dalla cura del bene comune e dal vincolo del dono”[iv]. Le comunità da ricostruire devono essere capaci di autogovernarsi in modo democratico, riappropriandosi degli spazi, del potere come possibilità di scegliere e agire, di restituire servizi, ma anche di agire e gestire il conflitto superando l’assistenzialismo e costruendo contesti di mutuo apprendimento.

Per realizzare una tessitura di relazioni e pratiche tra le comunità e nelle comunità territoriali e di pratiche non vi è certo bisogno di leader, maschi e soli, ma di mediatrici e mediatori: pontieri in grado di ascoltare, vedere, entrare in relazione e veicolare autorappresentanza e autorappresentazione, interpretando il potere e i suoi flussi come veicolo di autodeterminazione e non come scopo di dominazione. I soggetti sociali, in questa nuova tessitura, non si riconoscono più come corpi intermedi ma come spazi d’azione. Quello che minaccia questa possibilità oggi è l’incapacità, da parte dei singoli nodi di innovazione, di mettersi in rete: pur condividendo la centralità del territorio nelle dinamiche economiche e di sviluppo locale, siamo spesso incapaci di creare reti tra movimenti di autorganizzazione negli stessi territori e tra i territori, e le realtà più solide sono quelle nelle quali la tessitura delle relazioni mutualistiche rende possibile la sperimentazione delle alternative.

Gli snodi, quando non facilitano, diventano grumi di accumulazione di piccoli poteri, rendite di posizione, risorse, destinate a perdersi nel medio-lungo periodo. La fragilità strutturale, la frammentazione dei territori si approfondisce se non si vince la sfida della fiducia da ricostruire, del patto sociale da riempire di nuovi significati. Una dimensione, tutto da comprendere e da tradurre in azione politica, si apre in quelle che nella due giorni sono state identificate come “zone grigie”: in quegli spazi che si aprono per i bisogni e i desideri ignorati, spesso non legali ma pienamente leciti, legittimi.

Una partita importante per nuove le comunità si gioca nel proteggerle attraverso nuove categorie interpretative, culturali e legislative, in un dialogo costituente con le istituzioni. Per questo si sente tanto bisogno di condividere luoghi di produzione politica, di produzione e diffusione di strumenti normativi, a partire da queste priorità e superando le reti di scopo verso la costituzione di reti stabili di riferimento, di formazione condivisa anche col mondo della ricerca e dell’informazione, e di intervento.

Per un’economia trasformativa

Quale economia può essere strutturata a servizio di questa idea di società? Innanzitutto un’economia che non spreca – a partire dalla terra -, ma conosce, rispetta, custodisce i beni comuni. Un’economia “circolare”[v] non estrae valore monetario dai territori ,ma rigenerandoli rigenera le comunità insediate. Un’economia di cura, quindi, che si pone il problema di come praticare il passaggio, nel lavoro, dalla centralità del reddito a quella della vita. Un’economia di transizione per rendere sostenibile il lavoro come progetto esistenziale, nella vita di tutti i giorni[vi]. Per praticare un approccio sistemico al nuovo paradigma lavorativo c’è bisogno di una forte innovazione legislativa e di un adattamento sistemico degli strumenti normativi esistenti di cui l’introduzione di un reddito di base per [vii] tutte e tutti è atto preliminare integrante.

E’ chiaro che se il lavoro resta, come sempre più lo si vuole, una variabile dipendente dall’accumulazione di profitto lungo la catena delle filiere o nelle maglie strette delle piattaforme delle Industrie X.0, qualsiasi ipotesi di liberazione del lavoro dalla eterodirezione rischia di essere archiviata come un sogno romantico. Ma nelle economie cooperative, altre e resilienti, motivazione, realizzazione e vita sono parte integrante del valore prodotto e considerato. Senza un cambio di paradigma più generale esse rischiano di rimanere nicchie e non, come auspicato, modelli di trasformazione per l’intera economia verso forme più compatibili con la vita sul pianeta.

Durante il periodo di crisi economica, in Italia come nel resto d’Europa, è stato osservato un importante spostamento della partecipazione individuale e collettiva verso forme di azione sociale diretta. Con queste intendiamo pratiche sociali che hanno in comune la caratteristica di essere strutturate come risposte immediate sulla realtà a bisogni concreti attraverso azioni autonome di autogestione e autogoverno. Non quindi solo e rivendicazioni nei confronti delle autorità, ma l’attivismo economico in prima persona, consumo critico, gruppi di acquisto, occupazioni di case e riuso di luoghi di produzione, attività di mutualismo e autorganizzazione sociale, costruzione di servizi e welfare dal basso, messa in comune di servizi e attività, banche del tempo, mense popolari, alloggi sociali, giusto per menzionarne alcune.[viii] Non c’è limite. Oggi, queste esperienze sperimentano un’alternativa reale di produzione, distribuzione, scambio, utilizzazione, fruizione e riciclo . Un fenomeno che si sta diffondendo che rappresenta oltre il 10% di tutte le imprese dell’Unione Europea, coinvolgendo più di 13,6 milioni di persone – circa il 6,3% dei lavoratori dell’UE , 82 milioni di volontari. .[ix]

Poche tra esse, tuttavia, possono dirsi completamente o in gran parte “fuori mercato”, ossia del tutto sostenibili grazie a relazioni solidali di acquisto, scambio o di mutualità. Poche godono del riconoscimento pubblico della propria attività di gestione di beni comuni, anche se rispetto a questa pista di lavoro alcune città italiane sono laboratori di riconoscimento dell’uso civico e collettivo di alcuni beni [x]. Le istituzioni europee e italiane le hanno trattate “a silos”: sostenendole come nicchie specifiche oppure, nei casi più avanzati, come nicchie tenute insieme da principi e pratiche specifici, “certificate” e sostenute finanziariamente o fiscalmente attraverso percorsi ad hoc scarsamente inclusivi. Le indicazioni di politiche sistemiche positive e trasformative che, nei casi più felici, risalgono dal “basso” delle pratiche all’ “alto” istituzionale, difficilmente vengono recepite o più spesso – clamoroso il caso della pur contraddittoria Agenda globale 2030 per lo sviluppo sostenibile – disattese in scioltezza, essendo quasi esclusivamente volontarie.

Nella cultura mainstream vi è l’idea della possibilità di un capitalismo sostenibile e dal volto umano (“dell’impresa sostenibile” e del consumatore che “vota con il portafoglio” [xi]. Si moltiplicano le esperienze di pianificazione e reporting nate nelle economie trasformative[xii]. Molte comunità, attraverso reti e distretti di economia locale, comunità del cibo, filiere ecosolidali, stanno raccogliendo in tutta Europa la sfida di costruire patti e strumenti per superare i parametri del “valore di mercato” di beni e servizi (che oggi si contraddistinguono per ingiustizie sociali e disastri ambientali globalizzati), ricostruendo invece il loro valore d’uso riconosciuti dalle comunità che li esprimono.[xiii]

Se alcuni soggetti dell’economia solidale storica scelgono la via delle grandi piattaforme globalizzate, scatenando un vivace dibattito dentro e fuori il mondo del commercio equo e solidale[xiv], la sfida dell’innovazione tecnologica, a partire da storiche esperienze di sharing sussunte nel mercato convenzionale al netto dell’innovazione, è molto sentita nelle “economie altre”. Uno dei progetti individuati come prioritari nelle giornate di Roma riguarda l’’appropriazione dei meccanismi delle piattaforme digitali da piegare a favore di un superamento della concentrazione che si registra nella distribuzione e facilitare invece la condivisione dei fini e dei mezzi tra produttori, distributori, consumatori. Ma decisiva è la loro gestione. Gli hub rappresentano potenza e potere. Non sono mezzi neutri e il loro utilizzo dipende dalla capacità di condivisione degli stressi strumenti (alfabetizzazione digitale, innovazione).

Il “convitato di pietra” delle giornate romane è senza dubbio la debolezza e miopia della politica istituita rispetto alla politica praticata dalle comunità nei territori, al proprio interno e nelle relazioni di cooperazione. Le associazioni delle economie solidali trasformative vivono in gran parte con difficoltà il rapporto con le istituzioni: da un lato ne hanno bisogno per poter operare nella legalità e non subire nella vita quotidiana sanzioni, sequestri, soprusi e , ma dall’altro scontano o temono la possibilità di sussunzione e/o di addomesticamento del proprio potenziale innovativo in una relazione troppo stretta o preferenziale con l’incaricata/o di turno.

Nel mondo delle “economie altre” c’è una evidente difficoltà nella capacità di traduzione in provvedimenti puntuali gli obiettivi “alti”, che vanno necessariamente “oltre la portata della legislatura”che è troppo spesso la portata massima della politica istituita.. Per contro le campagne e le reti di scopo stanno funzionando per molte delle realtà impegnate nell’economia solidale come palestre di “lobby positiva” e di contrattacco normativo/istituzionale nella cornice istituzionale data [xv] e in quelle, di medio-lungo periodo, già elaborate o ancora da definire.

C’è bisogno, però, di conquistare ancora più spazio pubblico e massa critica se vogliamo che il cambiamento risalga le scale dei Palazzi, e per farlo c’è bisogno anche di indicatori non lineari di valutazione delle economie “altre”, per verificarne e comunicarne l’impatto generale positivo, al di là dell’affetto o dell’immedesimazione che questa o quella singola pratica possa suscitare nel proprio raggio d’azione sull’onda dell’emergenza o della moda.

Se l’economia che vogliamo è quella ecofemminista della cura del sé, dell’altro da sé e del pianeta, saranno le reti di relazioni tra persone e comunità a dover funzionare come “garanzia” (prima di qualsiasi indicatore numerico). E’ il concetto del limite, e non quello della crescita indefinita, a dover informare la pianificazione anche gestionale delle attività economiche, a partire da produzione e consumo. Le esperienze di partecipazione, autogestione e mutualismo stanno praticando concretamente democrazia, condivisione e ridistribuzione. Per necessità, ma anche per scelta. Concetti che valgono, da soli, l’assedio della politica agita direttamente dal basso contro la politica istituita in forma di potere, per riguadagnarne insieme gli spazi di democrazia e la visione del futuro. A partire da uno spazio di pensiero-azione che a Roma si è aperto per rimanere a disposizione di chi vorrà abitarlo e arricchirlo insieme.


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