IFE Italia

Letture femministe dell’economia e dell’autogestione.

dii Corina Rodríguez Enríquez, Florencia Partenio e Patricia Laterra*
martedì 21 agosto 2018

Un interessante punto di vista.

Fonte: http://www.communianet.org/gender/l...

foto dal sito www.istockphoto.com

L’economia femminista permette non soltanto di comprendere l’interrelazione tra le diseguaglianze, mostrando come il sistema economico si sostenga grazie allo sfruttamento del lavoro domestico e di cura non remunerato che realizzano le donne. Le riflessioni che porta arricchiscono anche le esperienze di autogestione e la costruzione di alternative al sistema escludente.

L’Economia Femminista (EF) può essere definita come una corrente di pensiero all’interno del campo dell’economia eterodossa e, in questo senso, come un programma accademico. Però, come tutto il femminismo, è anche un programma politico. In che modo, quindi, il contributo apportato dall’economia femminista ci permette di pensare al mondo attuale e immaginarne (e costruirne) un altro in cui le cooperative e le unità produttive autogestite possano costruire l’economia dei lavoratori e delle lavoratrici?

L’Economia Femminista riprende, attualizza e approfondisce i dibattiti storici dei femminismi. La sua novità è quella di introdurre questo punto di vista nel campo scientifico dell’economia, la scienza sociale alla quale il femminismo arrivò più tardi. I temi che affronta l’economia femminista possono essere rintracciati nella storia e si possono incontrare indietro nel tempo fino a giungere al secolo XIX. In questa epoca già cominciavano ad apparire, accompagnate da resistenze emancipatrici delle donne (in particolare associate ai movimenti suffragisti), preoccupazioni per le diseguaglianze economiche fra uomo e donna, la cui principale manifestazione era la differenza nella remunerazione salariale.

Si può anche riconoscere un antecedente analitico sostanziale nel dialogo tra femminismo, marxismo e la riproduzione sociale. Negli anni ’70 si iniziò a discutere la relazione fra il sistema di produzione e l’organizzazione sociale patriarcale e si segnalò che non vi è sfruttamento soltanto fra capitale e lavoro, ma vi è anche lo sfruttamento del lavoro delle donne non remunerato in ambito domestico.

Durante gli anni ‘90, la EF si riconosce come tale specialmente in quanto reazione contraria alla visione economica dominante, che si sostiene sull’impalcatura teorica neoclassica. Così, si discutono i fondamenti di questa visione, e si interpella la (in)capacità di spiegare la realtà e trasformarla. In questo senso, la EF mette in discussione l’esistenza di un agente rappresentativo, l’homo economicus [1]. La teoria classica parte dalla considerazione che questo agente possa rappresentare l’universalità, ma con queste caratteristiche è, dal punto di vista della EF, un nodo molto problematico.

La EF inoltre discute del principio della razionalità e della nozione di preferenza e scelta individuale, centrale nell’impalcatura ortodossa. In effetti, giustamente perché le relazioni economiche si intendono come relazioni sociali attraversate da relazioni di genere, la EF sostiene che una presunta razionalità sarebbe più che altro determinata dagli stereotipi e pregiudizi di genere, in altre parole, da un pregiudizio androcentrico. Per esempio, si può definire "razionale" la "decisione" di una donna di destinare parte importante del suo tempo al lavoro domestico e di cura non remunerato durante i primi anni di vita di suo/a figlio/a? Se questa decisione può essere qualificata come ragionevole in contesti in cui non esistono servizi pubblici di cura, e dove il mercato lavorativo offre poche e precarie opportunità lavorative per le donne, e ciò si aggiunge al fatto che l’imperativo della maternità è persistente, difficilmente si può considerare una decisione razionale nei termini stabiliti dalla teoria neoclassica, ovvero come una scelta (senza determinanti) fra lavoro e svago.

Quindi, in che modo la EF può essere un punto di vista utile per le esperienze autogestite? In primo luogo, perché propone di analizzare e pensare all’economia in relazione alla sostenibilità della vita (SV). Questa prospettiva si allontana dalle visioni preoccupate per il funzionamento del mercato o per la crescita economica espressa nell’evoluzione del PIL, e in cambio propone che l’obiettivo centrale dell’economia sia garantire quello che è necessario alla sostenibilità della vita umana e non umana, attraverso processi economici che preservino la sopravvivenza del pianeta. In secondo luogo, perché propone di produrre una conoscenza che si alimenti dell’esperienze di vita delle persone, costruendo sapere utile alla trasformazione positiva del sistema. In terzo luogo, perché si propone come un ambito interdisciplinare diverso, con sfumature e varietà, una costruzione dinamica che aspira a porre domande e ad ammettere una molteplicità di risposte.

La EF apporta contributi nell’ampio spettro dei “temi economici”, dal livello micro delle analisi, discutendo la procedura con la quale si svolgono i processi decisionali all’interno dei luoghi familiari, fino a un livello macro esplorando le possibili dimensioni di genere delle politiche economiche. Capire come la politica fiscale, monetaria e commerciale contribuiscano o combattano le disuguaglianze attuali e interessino e si relazionino con le relazioni di genere, e in maniera specifica con la vita delle donne, è uno dei contributi che realizza la EF.

Quello che viene chiamato amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.

Se c’è qualcosa che ha mobilitato gli slogan e i corpi delle donne nell’ultimo sciopero internazionale l’8 marzo, è la considerazione dell’importanza del lavoro delle donne, lesbiche e trans. Il lavoro è stato messo al centro per affermare che “noi muoviamo il mondo e ora lo blocchiamo”. È chiaro che il sistema non potrebbe funzionare senza il lavoro di cura che tutti i giorni le donne realizzano nelle proprie case e spazi condivisi.

Uno degli apporti centrali dell’EF è la discussione sul nodo produzione-riproduzione, perché rende visibile il ruolo sistemico del lavoro domestico e di cura, che permette la riproduzione quotidiana della vita e, di conseguenza, della propria forza lavoro che il capitale necessita per produrre beni e servizi con valore economico. La divisione sessuale del lavoro che caratterizza la distribuzione del lavoro produttivo e riproduttivo sta alla base della persistenza delle diseguaglianze di genere. Parte del compito della EF è stato analizzare l’organizzazione sociale del lavoro di cura, identificando elementi e dimensioni che alimentano la riproduzione delle diseguaglianze.

Malgrado i progressi che ci sono stati nel mercato del lavoro, le donne continuano ad occupare posti di lavoro pagati peggio degli uomini, con un livello di protezione sociale più basso e lavorano in media meno ore degli uomini quando si tratta di lavori remunerati. Questo scenario risponde al fatto che la maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro non viene compensata con un maggior contributo degli uomini nei lavori di cura, né con maggiori servizi pubblici che vi provvedano. Questa dinamica limita in modo sostanziale l’acceso a opzioni migliori per le donne. Un dato cruciale che mostra questa dinamica in Argentina è documentato da studi sull’uso del tempo: l’88,9% delle donne svolge lavori domestici e di cura non remunerati, mentre per gli uomini la percentuale è del 57,9 [2]. In più, le donne dedicano in media 6,4 ore al giorno a queste attività, mentre gli uomini quasi la metà, ovvero 3,4 ore al giorno.

Analogamente, l’evidenza empirica dimostra che, anche se le donne, trans, travestite, lesbiche e altre identità dissidenti, povere, delle classi popolari, razzializzate e migranti, possono accedere al mercato del lavoro formale e informale, tale accesso non comporta migliori condizioni di vita. Il doppio carico di lavoro globale ci fa riflettere una volta in più sul fatto che l’organizzazione della produzione cis-etero-patriarcale continua a tenerci in trappola. È per questo che a partire da alcune prospettive ci interroghiamo sulle alternative al mercato e sulle altre maniere di produzione e di sostenere le nostre vite. Ci chiediamo anche, ci sono divari oltre al mercato? L’accesso al mercato è il modo per migliorare le nostre condizioni di vita?

Autogestione per la sostenibilità della vita

La questione della “sostenibilità della vita” (SV) come orizzonte di senso e punto di partenza delle nostre pratiche apre a possibili articolazioni con esperienze di emancipazione popolare. In questo modo, la costruzione di alternative ai modelli di sviluppo vigenti in America Latina ha tracciato dialoghi fra la EF, la questione del buon vivere, l’ecosocialismo, l’ecofemminismo e le esperienze di autogestione e cooperativismo.

Parafrasando Rodríguez Enríquez, tuttavia, è importante notare che “le pratiche delle unità produttive autogestite continuano a ripetere i ruoli stereotipati di genere e i modelli patriarcali, e questo è qualcosa che non dovrebbe sorprenderci, perché l’economia sociale si trova nel mondo reale dove ci sono uomini, donne e patriarcato”.

In questo senso, la proposta parte dal considerare – come ci ricorda Cristina Carrasco – le condizioni che garantiscono la sostenibilità produttiva e riproduttiva secondo l’impostazione della SV: “integrare la riproduzione sociale si spinge oltre (…), comprendendo che il lavoro di cura, con tutti gli aspetti soggettivi che racchiude, è l’attività principale e necessaria affinché la vita prosegua in condizioni di umanità”.

Amaia Pérez Orozco pensa che la nostra mobilitazione si debba orientare verso una visione che ci permetta di comprendere come si riesca a sostenere la vita nel quotidiano. Però come consideriamo la nozione di cura in senso ampio? Che strumenti ci lascia l’esperienza acquisita negli ultimi anni di autogestione? Quali sono le differenze persistenti nei programmi di sostegno a questa pratica? Quanto queste esperienze hanno sfidato la divisione sessuale del lavoro e le altre manifestazioni del divario di genere?

Durante l’ultimo decennio possiamo osservare che sono state concepite politiche occupazionali e programmi di protezione sociale in America Latina finalizzate a creare spazi cooperativi per popolazioni considerate “vulnerabili”, come nel caso delle persone trans, travestite e donne vittime della violenza machista. Le politiche elaborate in Argentina negli anni 2013-2015 per avviare imprese produttive, fra le quali possiamo trovare il Programma “Esse Fanno”, proponeva di lavorare con donne “in situazione di alta vulnerabilità sociale e occupazionale […] in modo che potessero formare una cooperativa e lavorare per migliorare i propri quartieri, fare corsi di formazione e terminare gli studi primari e/o secondari”, secondo la linea del Ministero dello Sviluppo Sociale della Nazione. Studi su queste esperienze, pur sottolineando che l’obiettivo principale della politica fu generare una (contenuta) autonomia economica delle donne e in alcuni casi di trans e travestite, non contemplano il lavoro di cura che è ancora uno dei principali fondamenti della riproduzione della diseguaglianza. Nonostante ciò, in alcuni casi, come segnalano Fernandez Alvarez y Pacifico [3], sono state create delle iniziative di autogestione intorno alla pratica di organizzazione collettiva del lavoro di cura fra le stesse partecipanti al programma. La nascente prospettiva in materia di lavoro di cura, già fragile, è stata affossata dai tagli ai fondi disposti dal governo Macri. Inoltre il programma è stato totalmente dissolto e le sue beneficiarie sono stata assorbite nel programma “Creiamo Futuro”, che ha caratteristiche drasticamente differenti in termini di approccio al lavoro dal punto di vista dell’economia sociale e della libertà di generare pratiche di autogestione intorno all’organizzazione del lavoro di cura; allo stesso modo sono state distrutte le reti di assistenza a situazioni di violenza machista.

La sostenibilità dall’economia del lavoro di cura

L’intenzione di rivedere l’idea di sostenibilità a partire dall’economia del lavoro di cura ci permette di ampliare la lente che analizza, studia e disegna le politiche destinate al settore delle unità produttive autogestite. Evidenzia anche i problemi che comporta rendere invisibili i compiti e le attività che si realizzano al di fuori dall’orario della giornata lavorativa e/o fuori dallo spazio denominato “produttivo” (dalla linea di produzione, dalle cooperative, dall’attività imprenditoriale, ecc.).

In molte di queste unità si manifesta una tensione fra chi “produce” e chi “amministra” o “gestisce”. Per esempio, si si genera un sovraccarico sopra coloro che sono gravati di compiti fuori dalla giornata lavorativa. Allo stesso modo, si registra l’assenza di riconoscimento delle mansioni svolte dalle donne da parte dei lavoratori che le considerano “di poco sforzo” per quanto riguarda le mansioni amministrative, oppure disprezzano le mansioni di pulizia, cucina ecc. in caso dei compiti inerenti alla cura dei bambini, questi ricadono esclusivamente sopra le donne e ciò ha portato ad elaborare delle strategie, come l’organizzazione di spazi collettivi di cura nelle fabbriche o come la gestione della combinazione degli orari nella logistica quotidiana.

Delle volte, le esperienze esaminate mostrano come si tenda a rendere invisibile il ruolo delle donne nei processi di lotta e sostentamento della famiglia o della comunità nei momenti di crisi della riproduzione sociale. Nel caso delle imprese recuperate in Argentina, furono le donne dei lavoratori (le “mogli di”), o le lavoratrici stesse ad assumersi la gestione delle mense popolari e comunitarie durante le occupazioni delle fabbriche. Nonostante ciò, il ricordo di questo momento di lotta non riflette il protagonismo di coloro le quali sostennero pratiche di riproduzione – e di cura, anche emotiva – dei ruoli produttivi. In questo esempio si concretizza il nodo produzione/riproduzione.

In tal senso, la nozione di SV ci permette di andare oltre evitando di cadere nello strabismo produttivista e di considerare la necessaria articolazione del mondo della produzione e della riproduzione nelle condizioni di sostenibilità di queste esperienze.

Uno sguardo integrale verso l’organizzazione sociale del lavoro di cura, che contempli le corresponsabilità della totalità delle/i partecipanti, permetterà di delineare delle strategie che quantifichino (misurazione del tempo, delle giornate, delle eccedenze), che rendano visibili le mansioni (abitualmente non riconosciute), sensibilizzino e costruiscano accordi collettivi sulla necessità di incorporare pratiche di equilibro delle responsabilità e dei compiti che mantengono in piedi le comunità. Con questo, ci riferiamo al lavoro di cura in senso ampio. Una domanda per iniziare questa sperimentazione potrebbe essere: chi è il sostegno emozionale del gruppo?

Il necessario dialogo fra la EF e l’autogestione sfida la visione del lavoro di cura non limitandola a persone dipendenti – e rende visibile l’implicazione della conciliazione e della corresponsabilità per un gruppo di lavoratori/trici. Questo implica ripensare non soltanto le forme di produzione e commercializzazione (inserite nel circuito capitalista) bensì anche le forme di organizzazione interna, i tempi del lavoro – remunerato e non –, la divisione sessuale del lavoro, la costruzione di spazi partecipativi di riferimento e di decisione politica all’interno del movimento cooperativo e delle esperienze di autogestione.

[1] Pérez Orozco (2014) sostiene che l’homo economicus sia in realtà bianco, borghese, maschio, adulto ed eterosessuale. [2] Ultima informazione a livello nazionale: modulo sopra il Lavoro Non Remunerato e Uso del Tempo per il totale nazionale urbano nell’anno 2013 dell’EPH-INDEC. [3] Fernández Álvarez, María Inés e Pacífico, Firenze, 2016, “Lavoro di cura, lavoro e formazione. Riflessioni a partire da un’etnografia sui programmi di ’inclusione sociale’ destinati a cooperative di donne”, IV Incontro Internazionale di Indagine di Genere, Luján.


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