IFE Italia

Ehi, scusate, forse ci sono anch’io

di Paola Mastrocola*
giovedì 10 gennaio 2019

Narcisismo, unamesimo, immagine di sè. Un interessante punto di vista.

Tratto da :https://www.fondfranceschi.it/cogit...

*Paola Mastrocola è nata nel 1956 a Torino,dove risiede tuttora.Laureata in Lettere. Dopo un periodo come docente di Letteratura Italiana all’Università di Uppsala, attualmente insegna lettere nel liceo scientifico di Chieri (Torino).

Dopo l’elogio dell’attenzione e l’elogio della distrazione, terza e ultima puntata: sull’attenzione che desideriamo pretendiamo su di noi, oggi più che mai. La richiesta di vivere sempre al centro, ben visibili, con i fari puntati addosso.

Narcisi egocentrati? Sì, certo. Ma mi sembra che non possiamo fermarci al solito narcisismo da impero al declino, che contraddistingue semmai, soprattutto la fine del secolo precedente. Ora la questione volge più al patetico: chiediamo attenzione per esistere, per salvarci da inesistenza certa e letale. Annaspiamo. Sempre sull’orlo di annegare nel pantano. Per questo sgomitiamo, in quest’acqua che ci contiene.

La scena potrebbe essere questa: il pianeta intero diventato un immenso stagno, acqua ferma, marrognola-verdognola, qualche bolla ogni tanto, di qualcosa sotto che sobbolle e non si sa cosa sia. Una patina di schifezze galleggianti, polvere densa, poltiglia depositata, anche qui non si sa di che. E in tutto questo sterminato acquitrino noi immersi. Tutti quanti. Miliardi di persone. Vien fuori di noi solo la testa, quindi cercate di vedervi miliardi di sfere a forma di viso umano, di tutti i colori, forme e dimensioni, che galleggiano. E ogni tanto braccia e mani che emergono con violenza per tirar giù il vicino (molto Dante): per emergere, appunto. Per esistere di più. Essere più visibili.

Abbiamo un problema di visibilità, altro che narcisismo! Rischiamo di non essere visti per tutta la vita. Non percepiti, non registrati. Dunque inesistenti. Per questo siamo degni di tenerezza e pietà, più che di disprezzo. Non c’entra la mania di protagonismo, il voler diventare una star o altre sciocchezze del genere. Non siamo così fatui e frivoli come ci vogliono far credere. È un mero problema di sopravvivenza, il nostro. Ci serve un post, un tweet, un sms, una foto, un cenno, un bi-bip (molto Willy il coyote). È un costante sbracciarci: «Ehi, sono qua! Guardatemi! Io esisto!»

Siamo smarriti e petulanti, commoventi e arroganti. È che viviamo accalcati su un pianeta molto affollato. Destinato ad affollarsi vieppiù di anno in anno. Popolazione mondiale prevista nel 2030: 8,5 miliardi di abitanti. Cresciamo più o meno di un miliardo a ventennio, ci dicono. È un problema di salienza. Un tipico problema di marketing. Me lo spiegano un giorno al supermercato, quando chiedo dov’è il sale e perché non si trova mai. Semplice, mi dice l’impiegato: del sale abbiamo bisogno, quindi non c’è bisogno che si veda. Sale, zucchero, farina… I prodotti base, necessari, li compriamo comunque. La marmellata allo zenzero, i biscotti farciti di meringhe intrise di miele al mirtillo no, quelli ce li devono mettere sotto gli occhi, sui ripiani altezza vista, così sbattendoci dentro li notiamo, e 90 su 100 li compriamo. Non li avremmo mai comprati, semplicemente perché non sapevamo che esistono. Chiaro.

Si tratta di essere salienti. Di salire a un livello di attenzione che ci renda visibili, notabili: prodotti che si notano. Quindi “acquistabili”. Una fatica immane. Sempre intenti a scovare il particolare che ci renda interessanti, degni di nota, unici. Impariamo a vivere di furbizie, escamotage, colpi di scena. Non importa più la sostanza ma la carta con cui confezioniamo il pacchetto, non la persona che siamo ma il personaggio che riusciamo a sembrare di essere.

Tutta scena, dicevamo una volta davanti a un eccesso di manifestazioni esteriori. Tenevamo alla sobrietà. Elogiavamo l’essere schivo, appartato. Umile. Umbratile. Ora quella scena è necessaria, indispensabile. E faticosa. Pensiamo al fundraising, a un’associazione benefica no profit di volontariato che debba chiedere soldi per esistere. Come farà a convincere il maggior numero di persone a fare la donazione? Perché proprio a lei e non a un’altra associazione altrettanto benefica? Oppure, prendiamo un’équipe di seri studiosi che vogliano intraprendere una importantissima ricerca: come faranno a far finanziare il loro progetto piuttosto che quello degli infiniti altri? Su quali attrattive puntare, quali armi seduttive sfoderare? Le conoscenze personali, le relazioni? La promessa di favori, di scambi? Varrà il potere contrattuale o la nuda e pura intelligenza e originalità? E i libri che riempiono le librerie? Come farà a farsi notare l’ultimo libro uscito, sbattuto accanto alle migliaia di altri libri appena usciti come lui? Dovrà aspettare paziente fidando nella sua intrinseca qualità, o meglio darsi da fare per emergere, magari andando in tivù? Vale il libro in sé o il potere dell’autore, la sua mediaticità?

La conseguenza di tutto ciò è che non pensiamo più di essere interessanti così come siamo, per quel che facciamo normalmente nella vita. Non possiamo più permetterci di pensarlo, perché tutto il mondo intorno a noi ci dice che niente conta se non è visibile, postabile, “laikabile”. E acquistabile.

Per questo impieghiamo tutte le nostre energie non a essere, ma a costruire un’immagine di noi. Diventiamo costruttori di noi stessi. E cambiamo drasticamente il nostro modo di vivere: facciamo viaggi per mandare foto, mangiamo cibi per fotografarli, sorridiamo per inviare a tutti l’immagine di noi sorridenti. Ma non basta mai. Non basta la foto in cui siamo al mare normalmente distesi al sole sulla spiaggia: dobbiamo affrontare onde di sei metri. E così via: vestirci da clown, spaccare muri, scalare ghiacciai, insultare il compagno di classe, macellare un topo in diretta, buttarci dal secondo piano atterrando incolumi, prendere a botte l’insegnante, stuprare una passante. Pur di esistere diventiamo ridicoli, spericolati, violenti, carnefici, in un crescendo inarrestabile che non risponde più a nulla di quel che siamo veramente.

Noi non siamo più quel che siamo, perché essere solamente quel che siamo ci ridurrebbe all’ombra, all’inesistenza. La nostra vita è la parossistica ricerca di altre vite, di cui nessuna è la nostra. Una spasmodica rincorsa all’eccesso, ma sempre insufficiente, frustrante, perché ci sarà sempre qualcuno che ci supera, fa di più, è di più, eccede maggiormente e ci offusca, relegandoci di nuovo nell’ombra del non essere. (Parentesi: poi però, per paradosso, non sappiamo più mettere attenzione in niente. Sono in aumento i bambini che a scuola non sono in grado di stare attenti alle lezioni. In America sono ormai tre milioni e mezzo. Affetti da ADHD, Disturbo da deficit di attenzione. E, in attesa di eliminare definitivamente la lezione come strumento didattico ritenuto ormai desueto, somministriamo loro farmaci stimolanti). L’antidoto a tutto ciò?

Be’, superare l’idea di essere il centro del mondo, ognuno un meraviglioso microcosmo a sé. Superare dunque, temo, l’umanesimo! Così almeno la pensa Harari (Homo deus. Breve storia del futuro), che fa iniziare da lì il culto dell’individuo. Ma l’umanesimo ci è così caro… E soprattutto, oggi ci pare così minacciato… Ci viene così tanto da difenderlo… Non credo che avremo voglia di abbattere quel poco di umanistico che ci resta. Eppure, se riducessimo l’idea che ognuno di noi è l’universo, se ricostituissimo l’ipotesi di un qualcuno sopra di noi, di un qualcosa di superiore che tutti ci comprende, forse potremmo attenuare la nostra parossistica richiesta di attenzione e vivere più sereni. Smetterla di aspirare a diventare influencer e ad avere milioni di followers. Accettare di esistere senza essere visti, senza like. Anzi, passare inosservati. Ritagliarci un angolo. Accettare l’ombra pensando che una vita nell’ombra non è meno degna, non vuol dire essere insignificanti, o inutili. Essere paghi del proprio essere e del proprio fare.

Per esempio, provare soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, umile o alto che sia. Spazzare bene un marciapiede, studiare bene il capitolo di storia, cucinare bene il sugo per la pasta, saper cucire un orlo, addobbare l’albero di Natale, andare a trovare un’amica malata, inventare una nuova formula matematica, scrivere bene una mail (o un romanzo), comporre una bella poesia, versare bene del buon vino agli amici (senza macchiare la tovaglia), fare un bel fuoco, arredare bene la propria casa, circondarci di oggetti belli… Il trucco potrebbe stare in queste due parole: l’avverbio “bene” e l’aggettivo “bello” (magari con un retrogusto di bontà…). Per esempio, in questi giorni di festa dove il tempo si allenta, leggere bene un bel libro. Leggerne e rileggerne frasi, pagine, e poi anche mandarle a memoria. Leggere senza postare la foto di noi che leggiamo. Non è necessario. Si potrebbe provare a leggere per noi stessi, non per mostrare agli altri quanto siamo bravi e unici. Senza dirlo, senza farlo vedere. Leggiamo e ricordiamo quel che abbiamo letto, il più possibile, e magari poi recitiamolo a chi ci sta intorno. Cerchiamo di tenere memoria, di tenere le parole nella memoria. Come una dispensa. Come in queste feste, dove abbiamo ammassato molti regali, molti cibi. Distribuiremo, condivideremo gli eccessi. Il resto lo serberemo per noi: magari qualche oggetto, che ci piace di più e a poco a poco ci diventerà molto caro, e andrà a far parte della nostra casa. E resterà, a futura memoria di noi.


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