IFE Italia

Riflessioni su psicanalisi e politica

di Nicoletta Buonapace
mercoledì 10 luglio 2019

Fonte: http://www.universitadelledonne.it/

immagine: dipinto di Mary Cassat tratto da https://www.pinterest.it/pin/348395...

Mi interroga quello che chiamiamo “legame sociale”, il nodo della relazione tra sé e il mondo. Ho avvicinato la politica, quando essa si è avvicinata alla mia vita. Solo in questo avvicinamento di vita personale e vita politica, il sé acquista un senso al di là della propria storia. Abbiamo bisogno di riconoscerci, di sentire che non siamo sole, semplicemente. Un lungo cammino porta dal sentimento della solitudine a quello dell’individuazione. Non è un cammino eroico. C’è dolore, fragilità, paura. C’è un’originalità della storia personale che, quando non è conforme a ciò che la famiglia e la società si aspettano, o quando non è pensata, prevista e si affaccia alla vita sociale, è costretta a trovare le risorse per la propria sopravvivenza.

Non è facile per nessuno accogliere la propria diversità, né è facile rinunciare a ciò che può confortarla, omologandola a una qualche appartenenza.

Le istituzioni per prime confortano l’individuo nel suo collocarlo all’interno di un gruppo: la famiglia, la chiesa, l’esercito, il partito, la scuola. La politica delle istituzioni si avvicina agli individui, e li rappresenta ripetendo le formule di una lingua che si fa comune, ogni volta determinata storicamente, oggi quella del popolo sovrano.

C’è una sorta di trionfo del banale, dell’uguale, vissuto come rivalsa da parte di coloro che si sono sentiti disprezzati, non capiti o semplicemente abbandonati nella loro confusione.

Mi trovo ad ascoltare le parole di bell’uomo, elegante, nelle aule di un tribunale, che commenta a voce alta, conversa tranquillamente di pena di morte, di diritto alla difesa dai ladruncoli (considerando giusto sparargli se sorpresi in casa, non importa se disarmati) e aggiunge “è finita l’epoca dei radical chic, quelli con il Manifesto in tasca”…non posso fare a meno di chiedere “per essere sostituito da che cosa?”… mi sbilancio: “i principi di umanità non sono radical chic, sono principi di umanità”…si confonde, ripeto la domanda “per essere sostituito da che cosa?”… non sa cosa rispondere… E’ sull’assenza di risposte che bisogna riflettere.

La politica nasce da un bisogno di cambiare la propria vita, di stare meglio in un mondo che per lo più esclude, discrimina, nega chi si trova in una condizione di diversità o, al contrario, dal bisogno di trovare certezze, sicurezze, che lascino inalterati gli equilibri raggiunti.

A cosa associo il femminismo? A una donna in calzoncini che fuma la pipa, a una lunga tavolata di donne a cena in un luogo di elaborazione femminista, nella quale scopro che il mondo è pieno di donne che amano le donne, a un altro tavolo nel quale si confrontano storie, pensieri, scritture, a Lea, la sua persona, i suoi libri, ad altre ancora che ho incontrato e alle quali mi sono legata attraverso affetti e progetti condivisi, a esperienze concrete nelle quali amicizia, esperienze con tratti comuni, sensibilità, davano luogo a passioni politiche per quella necessità vitale che era ripensare la propria vita e il mondo.

Insisto: una necessità vitale. C’è da affrontare un vuoto quando l’immagine di sé non si conforma a quella socialmente desiderata.

C’è da gestire una crisi, spesso sepolta nell’esperienza infantile, alla quale viene imposto l’apprendimento di una differenza sessuale che diventa fatalmente differenza di valore, negazione, cancellazione, qualcosa che è difficile capire perché profondamente introiettata, appresa fin dal principio attraverso la lingua dell’amore direbbe Lea Melandri, la lingua parlata dai genitori. Pensiamo il mondo per opposizioni. Il nostro linguaggio e i nostri pensieri sono strutturati secondo una logica binaria. Difficilissimo uscire dai paradigmi del maschile/femminile, noi/loro, corpo/mente, razionale/irrazionale e così via. Un mondo, fin dal principio, strutturato sulla violenza del pensiero che per affermare deve negare, per dare esistenza all’uno deve cancellare il terzo, essendo il due compreso nell’uno. Il terzo come alterità. La società è fondata su una violenza che le è strutturale: quella di un genere sull’altro, come dominio dell’uno e da cui discendono tutte le altre forme di cancellazione.

Violenza del due come unità fantasticata, per questo così difficile liberarsene.

Quanto si è capaci di reggere al conflitto, alle spinte conservatrici, la permanenza nell’uno, nell’uguale, come a quelle confusive, il sogno del due? Salvare il legame che si crea a partire dalla relazione con il terzo, vuol dire ripensare il rapporto tra sé e la dimensione collettiva, tenendo conto di ciò che muove, a livello profondo, le varie singolarità da cui è composta.

Femminismo: possibilità di ripensamento e modificazione di sé, affermazione di un’alterità che è terza, irriducibile in realtà all’essere donna, perché consapevole dell’immaginario costruito su quest’ultimo termine. Non un genere, ma soggetto che s’interroga su se stesso. Penso al coraggio che ci vuole, per mettere in discussione un’idea di donna legata a un immaginario comune e per questo rassicurante, potentemente narrata da infinite costruzioni culturali.

Si tratta dunque di ripensarsi, rinunciando alla logica delle contrapposizioni: donna/uomo, madre/figlia, eterosessuale/ lesbica, bianca/ nera e così via. Paradigmi di donna, madre, amante, che ci accompagnano e ci condizionano attraverso un sistema di relazioni fondato sul dominio. Sistema che chiede di essere svelato, prima di essere sostituito. Nello svelamento tuttavia, bisogna imparare a sopportare il vuoto e la mancanza di riferimenti certi.

La scoperta più grande della psicanalisi è che l’altro è dentro di noi e che può diventare persecutore o alleato. Scoperta che muove grandi conseguenze sul piano politico. L’assetto sociale è fondato sull’altro come persecutore destinato per questo a diventare capro espiatorio: la violenza è istituzionalizzata, mossa da una logica fondata sull’esclusione, la guerra, l’annullamento dell’esistenza di chiunque non si conformi all’assetto sociale pensato per lui o lei che sia.

Allora occorre un cambio epistemologico, una rivoluzione del pensiero e della vita. Per fare spazio all’altro bisogna poter permettersi l’incontro. Solo l’incontro modifica la percezione intima che si ha dell’altro.

La donna con la pipa, il soggetto che non s’identifica con un genere sessuale e rifiuta di costituirsi come maschio o femmina, la poeta che è lesbica, madre, nera, la giovane femminista che ha cuore la dignità di tutti i poveri della terra, il destino del pianeta, la possibilità di una vita in cui siano rispettati e promossi i diritti alla crescita, alla felicità, alla bellezza, alla realizzazione di sé.

L’istituzione, l’assetto sociale, tende a “normalizzare” e “inglobare”, rendendole nulle, le contraddizioni della vita e i soggetti che ne sono portatori.

Per sfuggire a questo processo occorre il mantenimento della tensione, del desiderio, e dunque della capacità di conflitto, sapendo che prima di tutto, quel conflitto, tra desiderio di appartenenza, normalizzazione, e desiderio d’essere nella propria unicità e singolarità, vive dentro di noi.

Oggi posso dire che non m’identifico come donna, lesbica, femminista, figlia, amante, femmina, maschio, che non vado in cerca di una madre, che non ho bisogno di perdonare alcuna madre o padre, ma come poeta, soggetto in cerca di parola, di pensieri, d’incontri che ancora e sempre possano modificarmi, farmi crescere, darmi la capacità di sostenere il confronto e il conflitto.

Uscire dagli schemi di una qualunque identità data, mi sembra oggi il solo modo possibile per pensare alleanze in grado di modificare gli assetti delle relazioni, uscendo dalla logica del dominio, dell’esercizio della forza, consapevoli d’incontrare nell’altro anche antiche paure e difese e tenerne conto.

Si tratta dunque di trovare e offrire strumenti d’interpretazione che possano liberarci e liberare: un lavoro poetico.


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