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Autogestione e vita di ogni giorno

Di Raoul Vaneigem
mercoledì 31 luglio 2019

Autogestione e vita di ogni giorno Raoul Vaneigem 18 Luglio 2019 Il concetto di autogestione è rimasto finora contaminato da un potere deleterio: quello dell’economia. Abbiamo bisogno di andare oltre la sostituzione di un’economia privativa con un’economia collettiva. “L’autogestione della vita quotidiana implica un rovesciamento di prospettiva – scrive Raoul Vaneigem – All’essere infeudato nell’avere succederà un predominio dell’essere che metterà l’avere al suo servizio…”. Si tratta, ad esempio, di non restare schiacciati dal dominio del consumo, di non dimenticare il carattere festivo di ogni esperienza di trasformazione sociale, di mostrare che è possibile vivere, lottare e creare mondi nuovi coltivando un’autentica gioia di vivere

“Strada ketelos” è un collettivo nato nel 2017 dall’incontro a Napoli di musicisti di diverse origini geografiche e formazione musicale. La foto è di Ferdinando Kaiser L’autogestione della vita quotidiana e l’apprendimento di uno stile di vita*

Togliere ogni ambiguità alla nozione di autogestione

(…) Il concetto di autogestione è rimasto finora contaminato da un potere deleterio: quello dell’economia. Di che cosa era questione? Di sostituire a un’economia privativa un’economia collettiva. Toccherebbe al proletariato gestire i modi di produzione, di beneficiare direttamente dei prodotti del suo lavoro, di essere, insomma, il suo proprio padrone. L’abolizione del salariato e del proletariato come classe profetizzava un’era di abbondanza di beni. Ebbene, l’ironia della storia ha voluto che questa pletora che un’economia collettivista non burocratizzata sarebbe stata in grado di garantire, sia stata usata dalla colonizzazione consumistica come uno stupefacente specchietto per le allodole. Il Welfare State o società del benessere, ha vinto la scommessa d’impacchettare nella credulità delle masse una profusione di cose e di servizi capaci di addormentare il proletariato derubandolo della coscienza della sua alienazione.

Limitare l’autogestione a una redistribuzione più giusta e solidale del lavoro è un progetto retrogrado, un progresso a rovescio. Identificare l’autogestione con un’organizzazione più efficace dell’esistenza laboriosa è altrettanto aberrante che voler moralizzare il commercio e umanizzare il sistema mercantile.

La vita è incompatibile con l’economia, sia essa collettiva o privata, che avvantaggi il bene pubblico o i monopoli. L’insoddisfazione inerente all’esistenza che conduciamo non rivela forse il carattere insopportabile di questa vita economizzata in cui la nostra forza vitale è sfruttata e trasformata in forza-lavoro? Chi vorrebbe un’autogestione della miseria, della servitù, della noia, del malessere endemico? Chi non è preso dalla nausea di fronte alla prospettiva di una giornata di lavoro? Chi non è tentato di tornare sui suoi passi prima di penetrare nella giungla sociale dove prede e predatori si spiano sulla scacchiera della morte? Chi non prova, in ogni istante che gli sfila tra le dita, la voglia semplice e viscerale di vivere secondo i suoi desideri?

Scommetto di non essere il solo a volermi offrire un’esistenza lussuosa e lussureggiante. Intendo dire con questo: dare al benessere il senso di sentirsi bene nel proprio corpo e nel mondo. Un’esigenza siffatta mi pare così comune e istintiva che tendo a imputarle, in parte, la persistenza fallace del consumismo, a chiederle ragione del fatto che le folle siano dipendenti da una felicità scandalosamente caricaturale e adulterata.

L’appello e la fabbricazione di falsi desideri finiscono per risvegliare una fibra pulsionale, per resuscitare il sogno di un Eden, i miti dell’età dell’oro, la reminiscenza di un’infanzia idilliaca di “prima della caduta”. Tali evocazioni archetipali mettono agevolmente in moto il vecchio riflesso condizionato che fa predominare l’avere sull’essere, l’appropriazione sul godimento, l’appagamento sull’affinamento.

Il trionfo dell’avere è l’oggetto di un culto universale. Abolirlo? E come? Il boicottaggio volontarista della merce è un’illusione. La maggior parte dei militanti anticonsumistici detesta i supermercati ma ha un’automobile che inquina e arricchisce le mafie del petrolio.

Opporvi un culto della vita avrebbe un effetto ancora peggiore. Non c’è culto che non si fondi sulla menzogna e sull’obbedienza. Del resto, quel che non emana dalle funzioni vitali e dal loro affinamento ricade nell’alienazione tradizionale e nel solco che porta al mercato dell’edonismo e della felicità a rate. La sola critica effettiva del consumismo è il suo superamento.

L’ascetismo, il regime frugale, oppure il vegetarianismo, godono incontestabilmente della libertà dovuta alle opinioni personali. La diversità e le divergenze favoriscono, in autogestione, la ricchezza delle scelte.

Da parte mia, parteciperei più volentieri a una collettività che punti sull’abbondanza di prodotti naturali, sull’inventiva culinaria, su quella gamma di apprendimenti di cui l’Università della Terra di San Cristobal de Las Casas offre un esempio stupefacente (leggi anche L’università della terra). Tuttavia quel che prediligo soprattutto è il carattere festivo di un’esperienza in cui i piaceri sono l’espressione di un’autentica gioia di vivere.

Il superamento dell’edonismo implica l’abolizione di quella virtù rivoluzionaria che giudicava il godimento una passione borghese (più che le rivalità di potere, fu l’invidiosa e subdola reazione emozionale di Robespierre a motivare la condanna a morte di Danton). Nulla di umano si può fondare sul sacrificio dei piaceri né sulla loro celebrazione intellettuale, astratta nel senso che la forma del vivente si sostituisce alla sua sostanza.

L’autogestione della vita quotidiana implica un rovesciamento di prospettiva. All’essere infeudato nell’avere succederà un predominio dell’essere che metterà l’avere al suo servizio.

I territori in via di liberazione dal potere statale e mercantile non avranno compito più importante che promuovere la qualità della vita. Contribuire al superamento individuale e collettivo del malessere non è una strategia, è un gesto la cui potenza di attrazione agisce sulle forze vive che vegliano ai quattro angoli del mondo. È un atto poetico.

Nel 1994, quando gli Zapatisti fecero risuonare nel mondo il grido “Ya basta!”, “Ora basta!”, che spuntava su tutte le labbra, suscitarono un interesse e un’adesione così universali che il potere messicano e i suoi assassini si ritirarono rinunciando alla brutalità di una repressione immediata. Non fu l’EZLN (armata zapatista di liberazione nazionale) che sconfisse uno Stato ferocemente risoluto a soffocare la ribellione sul nascere. Fu un diluvio di simpatia internazionale che salutava “qualcosa di nuovo” e, sfidando l’Ordine delle cose, marcava una rottura intimando uno stop al processo di reificazione.

L’occupazione di una striscia di terra in cui gli abitanti ritrovano il gusto di vivere e revocano il malessere dell’alienazione quotidiana si trova de facto investita di una capacità di dissuasione che l’intenzione repressiva degli Stati e delle mafie non potrebbe ignorare.

Se la resistenza ostinata delle ZAD – zone da difendere – è riuscita a venire a capo delle nocività che le multinazionali congiuravano di innescare, se ha potuto sbarrare la strada ai tentativi di espulsione subdoli o violenti, che ne sarà della volontà di vivere risvegliatasi alla coscienza delle sue immense possibilità?

Non ci si stanca di citare la frase di St. Just “quelli che fanno una rivoluzione a metà scavano la loro tomba”. Si dimentica che nel caso specifico la tomba era già scavata fin dall’inizio. Accadrà lo stesso se l’autogestione della vita quotidiana non saprà offrire alla noia di esistere la passione di crearsi creando una società autenticamente umana. Se, tra dubbi e certezze, non sapremo prendere il cammino di un’avventura inedita, quella della vita da scoprire e da esplorare.

La convinzione che sia possibile passare dalla civiltà mercantile a una civiltà umana non ha nulla di un’illuminazione o di un’esaltazione passeggera. Essa è l’espressione razionale di una poesia pratica.

L’atto poetico per eccellenza, è operare per la riconciliazione dell’uomo e della donna con la natura umana e con la natura animale, vegetale, minerale. La supremazia della vita resterà un’astrazione facilmente recuperabile se non ancoreremo la nostra lotta nell’esistenza concreta, materiale, corporea. Il diritto inalienabile alla vita non è altro che il superamento della lotta per la sopravvivenza, il famoso struggle for life che ci ha alienato da secoli.


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