IFE Italia

Il lavoro delle donne. Qualche riflessione ed alcune domande.

di Nicoletta Pirotta
venerdì 9 agosto 2019

L’articolo, con il titolo " Parità di genere, disparità di salario e diritti", è stato pubblicato sula Rivista Left n. 31-2 agosto-2019, acquistabile nelle edicole.

https://left.it/left-n-31-2-agosto-2019/

L’immagine è tratta dal sito: http://www.teatrortica.it/2019/02/1...

Il lavoro è un tema che interroga e inquieta trasversalmente generi e generazioni. Quando la precarietà del lavoro e della vita produce povertà fluida e disorganizzata e ricompaiono vecchi fantasmi diventano più feroci le gerarchie che già esistono nella società : la relazione di potere fra uomini e donne ben mantenuta nelle strutture patriarcali, l’esclusione delle e dei migranti, la ricattabilità di minoranze oppresse… Affrontare, da femministe, i temi del lavoro diventa oggi più che mai necessario anche e soprattutto per mettere in discussione luoghi comuni e per provare a dare alla realtà nuovi orizzonti di senso e di pratiche. In questo articolo propongo alcune analisi e indico qualche domanda di fondo.

Dalla metà degli anni ’90 abbiamo assistito ad un significativo aumento della manodopera femminile, soprattutto nei settori manifatturieri e dei servizi. Un fenomeno complesso e contraddittorio che ha preso il nome di “femminilizzazione del lavoro”. Esso ha consentito, positivamente, un aumento considerevole di manodopera femminile in molte parti del mondo,anche a seguito della dislocazione di alcune attività produttive, ed ha determinato importanti dinamiche emancipative capaci di svelare il carattere sessuato del lavoro produttivo. Ma al contempo ha generalizzato le condizioni di lavoro da sempre destinate alle donne caratterizzate da flessibilità e precarietà in ragione della perversa alleanza fra patriarcato e capitalismo che ha costretto in genere femminile a tenere insieme lavoro produttivo e compiti di riproduzione domestica e sociale. L’aumento di occupazione femminile non ha prodotto nemmeno verso l’alto gli effetti che si erano immaginati. Nei paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti, lo sfondamento del cosiddetto “tetto di cristallo” ha permesso la realizzazione professionale di alcune, ma non ha arrecato alcun beneficio a tutte. La presunzione quindi che le donne possano migliorare le condizioni di vita facendosi avanti e contrattando individualmente si schianta di fronte ai milioni di donne immigrate che lavorano come badanti, alle precarie dei call-center, alle disoccupate, alle insegnanti sotto pagate, alle pensionate al minimo (Cinzia Arruzza e Lidia Cirillo , “Storia delle storie del femminismo”, ed. Alegre/2017).

Con l’aumento esponenziale di flessibilità e precarietà diminuisce la possibilità di assegnare al tasso di occupazione un valore primario nei processi di emancipazione ed autodeterminazione. Il rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (World Employment and Social Outlook: Trends 2019) prende atto che la riduzione della disoccupazione a livello mondiale non è accompagnata da miglioramenti nella qualità del lavoro. «L’avere un lavoro non sempre garantisce una vita dignitosa», ha dichiarato Damian Grimshaw, Direttore della ricerca all’OIL. Non a caso è aumentato in modo esponenziale il fenomeno delle e degli “ working poors” cioè di chi, nonostante un impiego, non riesce a superare la soglia di povertà relativa. Sono le donne i soggetti più colpiti. Secondo i dati Eurostat, in Italia nel 2017 oltre una/un lavoratrice o lavoratore su dieci versava in questa situazione. E nella stessa situazione si trovano altri paesi dell’Europa meridionale e dell’est «La percentuale di working poor aumenta inoltre fra chi ha un lavoro temporaneo (16,2%), mentre è del 5,8% fra chi ne ha uno fisso» spiega Sonia Bertolini, professoressa di sociologia del lavoro dell’Università di Torino.

Il quadro è reso ancor più fosco dalle politiche “austerità”, generate dalla crisi finanziaria del 2008 e fondate sulla logica del debito pubblico, che hanno consentito un’ ulteriore messa in discussione del diritto al lavoro e dei diritti del lavoro. Le donne hanno pagato e pagano un prezzo salato. “Grazie” a queste politiche si è potuto procedere più speditamente alla decostruzione del sistema pubblico dei servizi, sociali ed educativi, che avevano consentito una timida socializzazione del lavoro di riproduzione sociale. Un lavoro che, nel nostro Paese, grava ancora sulle spalle delle donne nella misura del 72%. La costante diminuzione di servizi porta con sé due conseguenze: in presenza di un figlio molte donne sono costrette ad abbandonare il lavoro salariato (nel 2018 oltre 35.000 abbandoni pari al 73% del totale, secondo i dato dell’Ispettorato del lavoro) oppure, quando possibile, ad appaltare il lavoro di riproduzione sociale e domestica ad altre donne, quasi sempre immigrate, con il risultato che sono queste ultime a garantire l’emancipazione delle donne occidentali. Sugli abbandoni è significativo considerare che il 94% delle madri dimissionarie sono donne con qualifica operaia e impiegatizia, per lo più occupate nel commercio e nei servizi ed in imprese di piccole dimensioni. Segno che la classe sociale di appartenenza ancora conta sul piano del bilanciamento vita-lavoro (Tania Toffanin in http://libertadonne21sec.altervista.org/)

Ma se il lavoro produce povertà, disuguaglianza, sfruttamento come può tornare ad essere “strumento” di emancipazione ed autodeterminazione e quindi di lotta contro ogni forma di alienazione, sfruttamento e dominio imposti dal sistema patriarcale e dal mercato capitalista? Il movimento femminista globale sta affrontando la questione a partire dalla conoscenza e dalla messa in rete di proposte ed esperienze capaci di alludere a nuovi modelli di produzione/riproduzione; proponendo un capovolgimento radicale della lettura del lavoro, del mercato e delle sue leggi regolatrici, dei processi di accumulazione e distribuzione della ricchezza; interrogandosi su percorsi e risposte che sappiano andare al di là dei meri processi di inclusione delle donne nel mercato del lavoro.

Come si ricostruisce un sistema europeo di welfare e di diritti capace di superare “l’ideologia della domesticità” e lo sfruttamento della “catena globale della cura”? E’ sufficiente rivendicare paritá di salario , tempi di lavoro compatibili con la riproduzione , diritto alla maternità , fine delle discriminazioni di genere se non si intacca la divisione sessista e razzista del mondo del lavoro? Un salario minimo europeo ed un reddito di autodeterminazione possono costituire una possibilità concreta per costruire percorsi di autonomia e di fuoriuscita dalla violenza? Le esperienze di autogestione e di neo-mutualismo, che vedono la presenza di moltissime donne e che alludono a modelli alternativi di produzione e riproduzione sociale, possono essere obiettivi da lanciare su scala europea? La logica intersezionale, che permette di riconoscere e tenere insieme le contraddizione di genere, classe ed origine evitando il rischio di astrazione, può costituire la base per ripensare il concetto di cittadinanza ed il principio dell’ universalità dei diritti? Come si può costruire un’organizzazione comune fondata su bisogni comuni? Come diffondere la pratica dello sciopero globale delle donne , lanciato dal movimento femminista di “Non una di meno”, ed inteso come manifestazione di lotta generale contro l’oppressione in tutti gli ambiti della vita e come pratica collettiva di lotta contro la privatizzazione/femminilizzazione/razzializzazione del lavoro?

Sono queste alcune delle domande di fondo sulle quali è utile un confronto.

Vi è stata la possibilità di farlo in un incontro organizzato dal GUE (grazie ad Eleonora Forenza, allora eurodeputata) tenutosi Bruxelles, presso il Parlamento europeo, il 19 ed il 20 novembre dello scorso anno.

Ve ne sarà un’altra grazie al convegno internazionale “La vita al lavoro, insenso dei lavori: pensieri e pratiche femministe” che si terrà a Roma , dall’11 al 13 ottobre presso la Casa Internazionale delle donne, che co-organizza in partnership con il gruppo di lavoro femminista “Libertà delle donne nel XXI secolo” e Transform!Europe. (il programma sul blog http://libertadonne21sec.altervista.org/)


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