IFE Italia

Se il virus non ha confini

di Floriana Lipparini
lunedì 9 marzo 2020

I corpi. Quante volte come femministe abbiamo cercato di attrarre l’attenzione sui corpi, sulla bellezza della compresenza negli spazi pubblici che è il sigillo del nostro esistere nel mondo, come dice Hannah Arendt, ma anche sul limite dimenticato, sulla fragilità della nostra natura umana disconosciuta nella predominante cultura di questi tempi, volta a glorificare superwomen e supermen ebbre e ebbri del senso di potenza.

Sappiamo che questa deriva trae probabilmente origine dal Seicento, quando gli scienziati del tempo iniziarono a concettualizzare la natura – e la donna – come oggetti mercificabili, fino ad arrivare all’attuale “progetto degli scienziati e delle corporations biotech di mettere le mani sul codice stesso della vita, per correggerne i ‘difetti’ e giungere a una nuova creazione ‘perfetta’, che diviene un vero delirio di onnipotenza: da progetto di bio-dominio globale rischia di trasformarsi in una global-bio-war combattuta da un nemico infinitamente sfuggente, elusivo, pervasivo, un esercito di organismi geneticamente modificati che, messo a punto in migliaia di laboratori, distribuito in ospedali, farmacie, supermercati e mercati dei sei continenti, sta colonizzando il pianeta”, come dice Angelo Baracca citando Ernesto Burgio. Non voglio e non posso ora approfondire questo discorso. Ma certo resta ineliminabile sullo sfondo. In effetti, studiosi e ricercatori hanno creato strumenti eccezionali che amplificano in misura straordinaria le nostre facoltà ed è quindi facile credere di poter sconfiggere tutto, giungendo persino all’illusione della (quasi) immortalità. Ma la nostra specie non sembra fatta per questo.

Ora che il mondo intero è d’improvviso precipitato in un incubo globale, mai prima sperimentato in questi termini, i nostri corpi esposti a un ubiquo e invisibile pericolo mortale da cui non sappiamo come difenderci, ridiventano il luogo primario e inaggirabile al centro di ogni cosa. Detto questo, personalmente sento gratitudine e grandissima ammirazione per tutte quelle eroiche persone che dei nostri corpi si occupano cercando di curarli e guarirli al massimo delle loro possibilità e oltre. L’aspetto della cura dovrebbe appunto anch’esso essere collocato al centro in ogni campo, un fatto per me politico nel senso giusto del termine.

Se i corpi riacquistano d’un tratto la loro essenzialità, tutto il resto svela in gran parte la propria eccedenza. In questa inedita e inaspettata emergenza che sembra radere al suolo speranze, ambizioni, impegni e progetti, appare più chiara l’assurdità di moltissime impalcature costruite storicamente e politicamente contro diritti e libertà dei corpi e delle persone. I muri e i recinti possono pure crudelmente fermare per qualche tempo chi fugge in cerca di asilo e di vita, ma non fermano l’avanzata cieca di una pandemia che non conosce le comuni gerarchie, oppure ne conosce alcune proprie e del tutto imprevedibili.

Ora non tutto è spiegabile in modo razionale. Possiamo anche leggere in modo simbolico circostanze e coincidenze. Non sto parlando di fumisterie o misticismi, ma di segnali che subliminalmente possiamo cogliere perché alcune nostre sensibilità addormentate a volte si svegliano e riescono a leggere un alfabeto nascosto. Penso al momento in cui per chiedere alle istituzioni europee di aprire canali umanitari alle persone migranti abbiamo scelto in epigrafe la frase di Hannah Arendt che dice “Poter andare dove si vuole è il gesto originario dell’essere liberi, mentre la limitazione di tale libertà è stata da tempi immemorabili il preludio della schiavitù”.

Forse oggi l’importanza di quelle parole verrà realmente compresa, nel momento in cui si “recintano” persone in ogni dove, soprattutto qui in Lombardia da cui non possiamo più uscire. Attenzione, non sono una scienziata né un medico, non sto dicendo che le misure prese dai governi non siano necessarie. So di non sapere, quindi ho anche chiesto lumi a mia nipote immunologa, perché di lei mi fido, e mi ha confermato che secondo lei lo sono. Sto solo cercando di sottolineare quanto in confronto appaiano miserabili le minacce della presidente della Commissione europea Ursula Van der Leyen di mandare navi militari e forze di polizia al confine greco-turco per bloccare la folla di profughi di guerra che Erdogan sta cacciando dalla Turchia per ricattare l’Europa.

Vogliamo impedire a persone in pericolo di salvarsi, vogliamo negare loro il sacrosanto diritto di spostarsi, le bastoniamo e gli spariamo addosso, senza riguardo per donne e bambini, mentre nei “sacri” confini di un’Europa che non esiste ci riveliamo inermi e impotenti di fronte all’inesorabile viaggio del virus dal sarcastico nome “regale”. Se oggi come dice Arendt rischiamo di essere schiavi, non lo siamo tanto per colpa di un virus che non ha confini e c’impedirà per qualche tempo di muoverci liberamente, ma soprattutto per la cecità e l’hübris di chi vuole ergersi al di sopra della condizione umana, delle sue debolezze, della necessaria reciproca compassione (“sentire insieme”) verso chiunque questa condizione umana condivide.

Su quella “nave dei folli” medievale di cui l’anno scorso ho scritto in un articolo (parlavo della pazzesca chiusura dei porti di salviniano memoria e non pensavo certo a una pandemia…, leggi Persone da respingere), stiamo rischiando di trovarci tutte e tutti se non riusciremo a usare questa drammatica emergenza, che poi emergenza non è ma forse conseguenza, per cambiare radicalmente tutti i modelli sociali e culturali che c’imprigionano in una strada senza uscita. Riprendere le misure, rifare le scelte, ridare voce ai soggetti negati della storia. Le donne, i popoli depredati e colonizzati, la natura stessa… Le strade alternative esistono, c’è ancora tempo per prenderle.


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