IFE Italia

Morte e vita del sogno americano

di Bruno Walter Renato Toscano*
giovedì 11 giugno 2020

* dottorando di storia all’Università di Pisa, si occupa di storia afroamericana e di storia del femminismo afroamericano.

Fonte: https://jacobinitalia.it/morte-e-vi...

immagine: https://www.metro.us/new-york-artis...

(…)

Sono passate più di due settimane dall’inizio degli scontri urbani negli Stati uniti. Donald Trump, dopo aver minacciato l’uso dell’esercito per sedare le rivolte, si dirige in direzione di una delle chiese storiche vicine alla Casa Bianca incendiata durante le manifestazioni. Con in mano una bibbia, il presidente recita: «Abbiamo una grande nazione, questo è quello che penso. La più grande nazione del mondo. E non ci vorrà molto per capire cosa sta succedendo. [Il paese] sta tornando, sta tornando a essere forte. Sarà più grande che mai».

Il gesto pubblico di Trump è il segno evidente di una presidenza in crisi, schizofrenica, che richiama all’ordine le masse in rivolta utilizzando i simboli religiosi e dando sfogo ai peggiori istinti autoritari che richiamano il binomio «Law and Order» tipico di una certa eredità nixoniania. Il candidato dem Joe Biden, per conto suo, promette di affrontare il razzismo istituzionale che costituisce la storia del paese, senza però offrire nessuna spiegazione in merito. Suggerendo che bisognerebbe addestrare i poliziotti a «sparare alle gambe invece che al cuore», l’ex vicepresidente di Obama ha in programma di incontrare alcuni sindaci per comprendere in che modo le autorità federali possano intervenire per risolvere le problematiche delle città maggiormente colpite dagli scontri urbani. Le autorità comunali richiamano il governo federale ai propri obblighi morali ed economici rispetto alle problematiche che hanno dovuto affrontare durante la pandemia. Trump, invece, accusa i sindaci di non riuscire a tenere testa alle rivolte. Biden cerca il dialogo con le realtà locali per rafforzare il legame tra le città e il partito e spingendo le masse verso le urne elettorali, con lo scopo di eliminare il grande nemico politico, Trump. Fuori dalla Casa Bianca, per le strade delle maggiori città statunitensi, invece, i protagonisti sono i manifestanti, le rivolte urbane e le forme di lotta nonviolenta che stanno scuotendo il paese e che hanno portato in alto il nome di George Floyd, l’ennesima vittima afroamericana del razzismo istituzionalizzato.

Sbaglia chi nelle proteste di questi giorni ha visto soltanto il risultato delle politiche di una presidenza razzista e conservatrice. Ancora di più, sbaglia chi nella rabbia esasperata della società civile statunitense ha visto una forza distruttrice generalizzata, anarchica e totalmente depoliticizzata. Gli Stati uniti stanno bruciando e a emergere prepotentemente sono le contraddizioni di un paese che non ha fatto i conti con le diseguaglianze di razza e classe che alimentano la rabbia dei manifestanti in questi giorni. Gli Stati uniti bruciano, e con essi uno dei miti fondativi del paese a stelle e strisce: il «Sogno Americano». I riot e le manifestazioni diffusesi a macchia di leopardo sono il frutto di politiche di lungo e breve periodo, la cui responsabilità non risiede soltanto in seno al Partito Repubblicano e alle politiche di Donald Trump. Alla base, discriminazioni razziali, diseguaglianze economiche accentuate dalla pandemia, l’enorme gap tra bianchi e neri su base reddituale e la violenza della polizia accentuata da politiche securitarie che hanno finito col colpire le minoranze.

A evidenziare l’intersezione razza-classe delle proteste, l’enorme partecipazione politica dei sindacati e della working-class colpita duramente dagli effetti economici della pandemia. Ma mentre Biden focalizza l’attenzione sulle evidenti responsabilità di Trump nell’aver ampliato le differenze socioeconomiche, ai democratici sfugge che «non basta l’assenza di Trump» per mettere fine alle disparità che costituiscono il paese – così dice il Reverendo Jesse Jackson, attivista per i diritti civili ed ex candidato afroamericano alle presidenziali. Ciò che serve e manca nel Partito Democratico è una politica capace di risolvere il razzismo strutturale del paese e la capacità di comprendere i motivi all’origine della rabbia e della voglia cambiamento.

Tale mancanza è particolarmente evidente se guardiamo alla situazione nelle big cities del paese coinvolte nelle manifestazioni. In particolare, le realtà di Minneapolis, Louisville, New York City, Oakland, San Francisco e Los Angeles: le città che hanno dato vita alle prime rivolte e manifestazioni a partire dall’omicidio Floyd, rendono esplicita la longue durée del rapporto tra povertà e violenza della polizia a sfondo razziale. Roccaforti democratiche, sono città localizzate in Stati in cui democratici sono anche i governatori. Lì le disparità socioeconomiche sono state tra le più evidenti, provocando la marginalizzazione sistematica delle minoranze. Le realtà delle singole città permettono di comprendere quanto i riot di questi giorni facciano appello a una lotta non solto contro le disparità razziali, ma anche contro quelle economiche. Una lotta non all-black, pur avendo colpito maggiormente la comunità nera sotto tutti i punti di vista.

Minneapolis (Minnesota)

A Minneapolis, dove George Floyd è stato soffocato a morte dall’agente Derek Chauvin, tali disparità si evidenziano se analizziamo lo stato della comunità nera negli ultimi due decenni. Città democratica, parte di uno Stato anch’esso democratico, è stata definita dal 2015 la città del «miracolo americano» per la presenza di alcune tra le compagnie più remunerative del paese che hanno contribuito a far crescere il livello occupazionale della città. Ma questo presunto «miracolo» non ha sicuramente coinvolto la comunità nera, marginalizzata e ghettizzata nelle periferie a sud e a nord della città, vittima di una crisi abitativa progressiva, della decrescita dei posti di lavoro a basso e medio reddito, dell’uso massiccio delle forze di polizia e – infine – colpita maggiormente dall’epidemia di Sars-Covid-19. La comunità nera di Minneapolis costituisce circa il 18.6% della popolazione totale, ma soltanto un quarto di essa ha una casa di proprietà (contro il 76% delle famiglie bianche) e guadagna meno della metà delle famiglie bianche (36.000 dollari annui contro 84.000 dollari). Come se non bastasse, a partire dalla fine degli anni Novanta, quando procuratrice era la democratica Amy Klobuchar – una delle candidate alle primarie democratiche che ha finito con il dare l’endorsement a Biden – vennero avviate una serie di riforme della giustizia criminale al fine di abbassare il numero di crimini violenti: una decisione politica che ha coinvolto un dispiegamento enorme delle forze di polizia, guidata dalla teoria delle «finestre rotte» già applicata da Rudolph Giuliani nel 1994 a New York. Politica di tolleranza zero, diretta a ridurre i reati violenti e eliminare le sacche di «degrado urbano» che coinvolgevano i quartieri più poveri e a prevalenza non-white della città, ma sia a New York che a Minneapolis ha finito con il colpire maggiormente la comunità nera. Dal 1999, la città di Minneapolis ha stanziato 4.8 milioni di dollari in spese legali per risarcire le famiglie vittime di circa 122 casi di abuso da parte della polizia. La Minneapolis di questi giorni, insomma, non è nuova a un episodio come quello di George Floyd, e molti sono stati i casi che hanno visto il gran jury non processare gli agenti coinvolti nella morte di cittadini afroamericani. Eletto nel 2017, il sindaco Jacob Frey ha cercato negli anni di ricucire le fratture razziali che costituiscono la storia della città. Nel tentativo di ridimensionare gli attriti tra polizia e comunità nera, il sindaco trentanovenne ha messo a capo del dipartimento di polizia Medaria Arradondo, il primo afroamericano nella storia di Minneapolis a ricoprire quel ruolo. Ma, nonostante le speranze, non si è assistito a una decrescita delle violenze della polizia a sfondo razziale. L’accusa rivolta da parte di molti attivisti e membri della società civile della città a Frey e Arradondo è di aver portato avanti una politica gradualista, poco incisiva nel breve periodo e che avrebbe dovuto dare i propri frutti nel tempo. Da qui la decisione di questi giorni da parte di nove dei dodici membri del consiglio cittadino di Minneapolis di promuovere un taglio drastico dei fondi destinati al Dipartimento di polizia, il suo scioglimento e, infine, la sua sostituzione con un nuovo sistema di pubblica sicurezza pensato per rimettere al centro i bisogni della comunità cittadina. Una decisione contestata dal sindaco di Minneapolis, dichiaratosi favorevole a «reimmaginare» la struttura del Dipartimento di Polizia ma contrario a un suo smantellamento. La transizione proposta della maggioranza del consiglio cittadino, che ha attirato anche le critiche di Donald Trump, rivoluzionerebbe completamente il rapporto tra ordine pubblico e cittadinanza. Una proposta in divenire, non esente da problematiche specifiche, ma che porterebbe a un ripensamento totale della polizia non soltanto a Minneapolis, ma in tutti gli Stati uniti.

Louisville (Kentucky)

La seconda città a dare vita a una serie di proteste successive alla morte di Floyd è stata Louisville, in Kentucky, anch’essa città democratica in uno Stato democratico. Nella città natia di Muhammad Alì, l’eredità della segregazione razziale che ha diviso la comunità nera dal resto degli abitanti è ancora evidente: il quartiere nero a ovest della città è separato nettamente dal resto di Louisville dalla «Ninth Street Divide», una strada per molti simile a una sorta di Muro di Berlino su base razziale. Ancora oggi, la comunità locale cerca di combattere la segregazione, evidente non solo guardando la mappa della città ma anche anche confrontando i tassi di scolarizzazione, quelli occupazionali, il reddito medio per famiglia e il numero di reati violenti. Il numero di morti per mano della criminalità concentrata prevalentemente nella comunità nera e a causa di sparatorie – come quella che nel 2016 ha provocato la morte di due civili – è all’origine della scelta del sindaco Greg Fisher di educare i cittadini all’uso responsabile delle armi da fuoco, oltre ad avere chiesto al presidente Trump una qualche forma di intervento federale per il Gun Control. Gli afroamericani compongono oltre il 13% della popolazione locale e la loro aspettativa di vita è di circa dieci anni inferiore rispetto alla media cittadina. La comunità è maggiormente colpita dalle violenze della polizia, il 35% di essa versa in condizioni di povertà relativa e guadagna all’anno molto meno rispetto alla controparte bianca che abita a ovest del Ninth Street Divide (38.000$ contro 85.000). Maggiormente impiegati nei settori meno remunerativi, gli afroamericani di Louisville sono stati i più colpiti dagli effetti della pandemia, sia perché impossibilitati a svolgere lavori in smart-working sia perché colpiti dalla crisi occupazionale che in Kentucky ha coinvolto il 33% dei lavoratori e delle lavoratrici. Qui, il 28 maggio – tre giorni dopo il caso Floyd – dei colpi d’arma da fuoco hanno raggiunto una folla composta da centinaia di persone che chiedevano giustizia per Breonna Taylor, operatrice sanitaria di 26 anni uccisa a inizio mese dalla polizia durante un’operazione antidroga. Non è la prima volta che succede: secondo le statistiche di Mapping Police Violence, l’anno scorso il 24% delle mille vittime per mano della polizia appartenevano alla comunità afroamericana. In questi giorni le strade della città continuano a essere scenario di brutalità da parte della polizia, e uno scontro a fuoco con i manifestanti ha causato la morte di un contestatore. I due agenti coinvolti nell’omicidio non avevano attivato le body camera durante la sparatoria: da qui la decisione del sindaco di licenziare il capo della polizia e mettere in congedo i due.

New York City (New York)

New York City ha alle spalle una storia di violenze da parte della polizia precedente all’omicidio di Eric Garner del 2014, con un incremento delle morti alla fine del secolo scorso. A seguito di una crescita significativa del numero di omicidi agli inizi degli anni Novanta, l’allora sindaco Rudolph Giuliani applicò come detto la teoria delle «finestre rotte». Questa decisione corrispose a un sistematico attacco alle minorities (afroamericani, ma anche portoricani e latinos) da parte delle forze dell’ordine. Anche se già nel 1996 Amnesty International aveva accusato la polizia di New York City di violenza immotivata a danno delle minoranze, è a partire del 1999 che il numero degli afroamericani uccisi dalla polizia inizia ad aumentare vertiginosamente. Quell’anno viene ucciso Amadou Diallo, crivellato sull’uscio del proprio appartamento da 41 colpi esplosi dalla polizia, convinta che l’uomo – disarmato – stesse cercando di raggiungere un’arma da fuoco dalla tasca dei pantaloni. Dal 2000, decine di afroamericani sono stati uccisi dalla polizia. A peggiorare il rapporto tra polizia e comunità afroamericana, la politica dello Stop-and-frisk (ferma e perquisisci) messa in atto da Mike Bloomberg, sindaco di New York dal 2001 al 2013: quell’operazione interagiva efficacemente con le politiche securitarie di Giuliani, e prevedevano la perquisizione per le strade della città degli individui «sospettati» di possedere droga o materiale proibito dalla legge. Ciò diede enorme discrezionalità alla polizia, che finì con il colpire maggiormente afroamericani e latinos. Prima della morte di Garner e della nascita di #BlackLivesMatter, insomma, New York City aveva alle spalle anni di discriminazioni razziali e di pressioni costanti del dipartimento di polizia sulle minoranze, ghettizzate, vittime della gentrification, e che hanno subito un costante impoverimento a causa della disoccupazione e della crisi abitativa. Attualmente, una famiglia bianca a New York guadagna due volte lo stipendio annuo di una famiglia nera. A distanza di tre giorni dalla morte di Floyd, anche New York è esplosa in una serie di manifestazioni inizialmente non violente e duramente colpite dalla violenza della polizia. A prendere parte alle proteste non solo le minorities, che pure sono predominanti ad Harlem e Brooklyn; tra i manifestanti, sono molti i giovani disoccupati. A New York, il primo Stato statunitense a decidere la via del lockdown, l’epidemia di Sars-Covid-19 ha accentuato le disparità socioeconomiche. A essere maggiormente colpiti dalla disoccupazione successiva alla pandemia sono i lavoratori di prima linea, e il 75% di essi appartiene alle minorities. Nel Bronx, uno dei quartieri più poveri della città e dove sono maggiormente concentrati i lavoratori di prima linea, il tasso di disoccupazione è passato dal 4.7% al 16.5%; il quartiere è diventato scenario di numerosi saccheggi che evidenziano la stretta connessione tra aumento della povertà, emarginazione su base razziale e rabbia sociale.

Oakland, San Francisco, Los Angeles (California)

In California la storia delle violenze della polizia a sfondo razziale è di lunga durata – soprattutto a Los Angeles – così come quella del continuo impoverimento della società, delle minorities in particolare, e la concentrazione di ingenti capitali a favore delle multinazionali che – come nel caso della Bay Area – hanno finito con il modificare il tessuto sociale, economico e urbano delle big cities del Golden State. La crisi abitativa, i salari non adeguati al costo della vita, la gentrificazione insieme alla crisi del 2008 hanno fatto da miscela esplosiva in California, facendo emergere tutte le contraddizioni di uno degli Stati più ricchi del paese. Doppiamente colpiti sono stati gli afroamericani: arrestati il triplo rispetto ai bianchi, guadagnano molto meno, spesso non possiedono case di proprietà e quasi sempre occupano i posti di lavoro meno remunerativi. In California, poi, la comunità nera compone una buona fetta della popolazione carceraria. Nonostante la senatrice Kamala Harris alle ultime primarie democratiche abbia descritto sé stessa come una progressive reformer della giustizia criminale dello Stato della California, non si è evidenziato un cambiamento in positivo sulla carcerazione di massa. Da procuratrice generale la Harris ha reso complicato per i prigionieri ricorrere in appello e chiedere un nuovo processo. Altrettanto ambigue le politiche della senatrice a difesa delle minorities dello Stato, duramente colpite dalle violenze arbitrarie della polizia. Noto a molti critici è infatti il ritardo della legge del 2015 che avrebbe costretto gli agenti a indossare delle body cam, osteggiata duramente da Kamala Harris e accolta soltanto quattro anni dopo. Il mancato accesso alla sanità per molta parte della comunità nera ha influito negli anni nella riduzione dell’aspettativa di vita della comunità nera rispetto a quella bianca. Durante l’epidemia, a Los Angeles e a San Francisco il tasso di disoccupazione ha interessato soprattutto le aree delle città a maggioranza afroamericana e latina. A Oakland, dove il tasso di disoccupazione della comunità nera dopo l’epidemia si attesta intorno al 17%, gli studenti e la società civile hanno dato luogo a una manifestazione pacifica tre giorni dopo l’uccisione di Floyd. Dopo una serie di saccheggi, la polizia di Oakland ha però iniziato a sparare proiettili di gomma sui manifestanti durante la protesta nonviolenta del 29 maggio. Le violenze della polizia si fanno più intense in tutta la Bay Area: con l’acuirsi degli scontri, Sean Monterrosa, disarmato e con le mani in alto, è stato ucciso dalla polizia a Vallejo (San Francisco), città con alle spalle una lunghissima lista di vittime dell’uso massiccio della violenza da parte degli agenti delle forze dell’ordine. In poco tempo, le proteste dei manifestanti californiani iniziano a spostare l’attenzione sulla realtà della Bay Area e delle big cities, in cui povertà, razzismo strutturale e violenza costituiscono la storia delle minorities dello Stato d’Oro. Il 4 giugno, la sindaca di San Francisco, London Breed, ha annunciato su Twitter che reindirizzerà parte dei fondi destinati al dipartimento di polizia alla comunità afroamericana, maggiormente colpita da Covid-19 e dalle violenze da parte della polizia. Decisione simile a quella del sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti, evidenzia come vi sia l’interesse da parte delle amministrazioni cittadine californiane di sedare le rivolte cavalcando l’onda di protesta contro la polizia che negli anni, soprattutto in questo Stato, ha compiuto numerosi atti esecrabili godendo di un certo laissez-faire condiviso da procuratori generali, distrettuali e sindaci delle maggiori città. Scelte fuori tempo massimo, ma che stanno avendo luogo grazie alle proteste che per le minorities sono un terreno di scontro politico attraverso cui invertire la rotta.

Fine o inizio dell’American Dream?

C’è da chiedersi che fine abbia fatto il «sogno americano» nelle proteste e rivolte di questi giorni. A guardare nel dettaglio le singole città diventate focolaio delle rivolte, è chiaro che l’ethos a fondamento degli Stati uniti – la possibilità di ascesa sociale ed economica dei singoli – non si è mai inverato. Le minoranze continuano a subire i drammi del razzismo strutturale che costituisce la storia di questo paese, esplose prepotentemente nel momento in cui violenza della polizia e la povertà sistemica hanno raggiunto il picco, nella crisi provocata dalla pandemia. Sono passati più di cinquant’anni dal famoso discorso di Martin Luther King, Jr. dell’agosto ’63, ma l’American Dream alla base dei miti fondativi del paese a stelle e strisce continua a essere irraggiungibile. A renderlo esplicito Yinka Onayemi, venticinquenne, afroamericano e studente di legge che il 3 giugno, al Lincoln Memorial dove King pronunciò I have a dream, si unisce alle proteste pacifiche. In piedi sulle scale del memoriale, Onayemi regge un cartello con su scritto «When does our American dream begin?». Per molti manifestanti come il venticinquenne, il valore politico di queste proteste è rendere possibile il «sogno americano», un nuovo American Dream, depurato dalle iniquità socioeconomiche a sfondo razziale che rendono la comunità nera una «nazione dentro la nazione». Ma la lotta sarà lunga.


Home page | Contatti | Mappa del sito | | Statistiche delle visite | visite: 704637

Monitorare l'attività del sito it  Monitorare l'attività del sito MATERIALI DI APPROFONDIMENTO  Monitorare l'attività del sito 7.2 Eguaglianza,economia, diritti,welfare   ?

Sito realizzato con SPIP 2.1.1 + AHUNTSIC

POLITICA DEI COOKIES

Immagini utilizzate nel sito, quando non autonomamente prodotte:

Artiste contemporanee :
Rosetta Acerbi "Amiche" per la rubrica "amiche di penna compagne di strada" dal suo sito
Renata Ferrari "Pensando da bimba" sito "www.artesimia5.it" per la rubrica "speranze e desideri"
Giovanna Garzoni "Fiori" per la Rubrica "L'Europa che vorremmo" sul sito artsblog
Tutti i diritti su tali immagini sono delle autrici sopra citate

Pittrici del passato:
Artemisia Gentileschi "La Musa della Storia" per la rubrica "A piccoli passi" da artinthepicture.com
Berthe Morisot "La culla" per la rubrica "Eccoci" sito reproarte.com
Mary Cassat "Donna in lettura in giardino" per la rubrica "Materiali di approfondimento" "Sito Salone degli artisti"

Creative Commons License