IFE Italia

Riflessioni sulla Convenzione di Istanbul..senza Istanbul.

di Nicoletta Pirotta
venerdì 2 aprile 2021

Il governo della Turchia ha deciso di ritirare la propria firma dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne. Una Convenzione, ironia della sorte, che ha preso il nome proprio da Istanbul, città nella quale, il 7 aprile 2011, è stata adottata in occasione della 121ª Sessione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Il primo Stato a firmarla fu proprio la Turchia, l’11 maggio 2011, mentre,per inciso, la Gran Bretagna ancora non l’ha fatto e così pure la Russia, benché siano anch’essi membri del Consiglio d’Europa. Ricordo che, come ha scritto il Consiglio d’Europa, la Convenzione di Istanbul è “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza ed è incentrata sulla prevenzione della violenza domestica al fine di proteggere le vittime e perseguire i trasgressori". Nella Convenzione all’articolo 3, la violenza contro le donne è considerata come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione e pertanto ogni Stato è invitato a “prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli” (art.5). Inoltre, la Convenzione considera come reati una serie di violenze contro le donne ed invita gli Stati ad includerli nei propri codici penali e ordinamenti giuridici, se non già inclusi. I reati previsti dalla Convenzione sono: la violenza psicologica, lo stalking, la violenza fisica e/o la violenza sessuale compreso lo stupro, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata, le molestie sessuali.

Numeri drammatici. Una decisione, quella del governo turco, che stride con la realtà dei fatti visto che durante la pandemia, a causa del confinamento dentro le mura domestica, le violenze contro le donne ad opera di maschi familiari sono aumentate, in ogni parte del mondo, in modo esponenziale e così pure i femminicidi. Una situazione tanto drammatica che il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres,  ha chiesto a tutti i Paesi di adottare misure contro lo “scioccante aumento” di violenza maschile contro le donne. Guterres ha invitato ad aumentare le risorse per implementare servizi on-line, a fare in modo che i sistemi giudiziari continuino a perseguire gli autori degli abusi, a creare sistemi di allarme nelle farmacie e nei supermercati e ad aumentare le risorse destinate ai centri anti-violenza o di accoglienza, che dovrebbero essere considerati servizi essenziali.   Dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dal Belgio all’Australia, dall’Argentina al Libano, alla Cina alla Malaysia, come le statistiche confermano, le richieste di aiuto sono raddoppiate così come le violenze e i femminicidi. Nel nostro Paese le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza della rete Di.Re sono state il 74,5% in più rispetto alla media mensile registrata due anni fa. Mentre i femminicidi sono stati 73 nel 2020 e ben 14 dall’inizio del 2021.

Qualche inquietante perché. Ebbene nonostante questo allarmante situazione, la Turchia, un Paese in cui, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, almeno il 40% delle donne è vittima di violenza, rispetto a una media europea del 25% e dove ogni giorno avviene almeno un femminicidio, decide di uscire dalla Convenzione. Perché il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha deciso di ritirare la Turchia dalla Convenzione quando, oltretutto, fu il primo a firmarla? Nel 2011 il governo turco aveva bisogno di accreditarsi agli occhi dell’Europa come alleato affidabile, moderno e progressista. Sottoscrivere la Convenzione calzava a pennello! Oggi la Turchia, getta la maschera e si schiera con quei governi ultra-conservatori (ricordo fra questi la Polonia e l’Ungheria che la scorsa estate non hanno ratificato la Convenzione benché l’avessero firmata) che, a partire dalla profonda misoginia di cui sono portatori e dalla funesta cultura patriarcale di cui sono espressione, vedono come fumo negli occhi la libertà delle donne di decidere sul proprio corpo e non sono affatto disponibili a colpevolizzare o “addirittura” a condannare i maschi che usano violenza contro le "loro" donne. Una funesta cultura patriarcale che è viva e vegeta e cerca spazi per espandersi ovunque possibile. Anche nel nostro Paese. Il Congresso Mondiale delle famiglie (WCF), cioè il forte movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQI che, su questi orientamenti di fondo, ha saputo unire le destre europee fornendo “tematiche, linguaggi e iconografie ideali” ( si veda Il Congresso Mondiale delle Famiglie, spiegato bene - Il Post ) due anni fa tenne il XIII Congresso proprio a Verona. Ed è di questi giorni la notizia che in alcune realtà locali, fra cui la regione Piemonte, verrà consentito ai Movimenti pro-life di attivare sportelli presso consultori ed ospedali. E’ bene tenere conto di tutto ciò per comprendere meglio il livello e la dimensione dell’attacco contro il diritto delle donne all’autodeterminazione e alla loro libertà di scelta sul proprio corpo. Un attacco dentro al quale si situa anche la scelta del presidente turco di uscire dalla Convenzione di Istanbul.

Gli anticorpi, per fortuna, ci sono.

Le reazioni internazionali alla scelta di Erdogan di uscire dalla Convenzione sono state numerose, sia sul piano istituzionale che di movimento. In particolare ad Istanbul ed ad Ankara migliaia di donne hanno riempito strade e piazze per contestare la scelta del governo turco. Così pure in Italia dove, in solidarietà con la lotta delle donne turche, il movimento femminista ha dato vita a partecipati presidi e flash-mob al grido di “Tayyp scappa scappa scappa, arrivano le donne!” Una risposta forte e puntuale che rivela l’esistenza di positivi anticorpi di fronte alla protervia patriarcale e che dimostra quanto le donne, in ogni parte del mondo siano decise a lottare per i loro diritti e per la loro vita. Una risposta altresì utile a contrastare una pericolosa abitudine, come spiega Arwa Mahdawi (Il caso di Sarah Everard e il controllo del corpo delle donne - Arwa Mahdawi - Internazionale ) quella cioè di sentirsi dire che il comportamento delle donne "dovrebbe essere modificato in reazione alla violenza maschile o che sia conveniente limitare la propria libertà di movimento, stando sempre all’erta quando si torna a casa tardi la sera, liquidando come sciocchezze le molestie per strada o accettando il fatto che le libertà e i corpi delle donne siano oggetti di dibattito". Va detto forte e chiaro: non è colpa di una donna tutto ciò che fa un uomo!


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