IFE Italia

In Italia calano le nascite. Ma è davvero un male?

di Valter Giuliano
domenica 11 luglio 2021

1.

La Cina abolisce la legge liberticida su “non più di due figli a coppia”, varata per garantire la stabilità della popolazione su base aritmetica: sostituzione tra nuovi nati e presunti morti. Da noi da tempo è scattato il lamento italico sulla mancata crescita demografica, forse retaggio della retorica fascista. Che i figli li ha mandati a farsi ammazzare sui vari fronti di guerra, giacché non è bastata l’invenzione della presunta superiore razza italica per evitare le pallottole degli invasi. Procreare per costruire il nuovo Impero, fedeli a Hitler e al Duce. Assicurarsi carne da mandare al macello sull’altare ignobile di stolte visioni di una classe politica malata che ha chiesto anche le fedi nuziali per le guerre della Patria… Ignorante e costretto, il popolo obbedì. Tragico che lo faccia anche oggi, ignaro della sua storia, consegnando il consenso agli eredi di quel fascismo che ha solo lasciato macerie e lutti scarificati a quel “Credere, obbedire, combattere” che raggela il sangue. Sapere che c’è ancora qualche branco di stolti che a quel tempo si ispira e che trova anche un partito politico che li asseconda è davvero preoccupante.

Se la destra nostrana è rimasta ferma a quel progetto politico, fa ancora più male registrare, qualche tempo fa, il giovane leader delle Sardine, Mattia Santori, dichiarare che «la Rivoluzione è procreazione». Rivoluzione per che cosa? Per sostituire allo slogan del Ventennio quello del libero mercato “Produrre, vendere, consumare”, non meno nefasto visto che ci sta conducendo alla catastrofe ambientale? Non sappiamo se, nel frattempo, il Sartori abbia contribuito a quella rivoluzione… Magari su richiamo arcaico di Giuseppe De Rita, legittimamente entusiasta per gli otto figli di cui si dichiara orgoglioso, iscritto al coro di chi si strappa i capelli per il calo delle nascite. Ma che, da autorevole sociologo, invece di guardare alla singola famiglia dovrebbe insegnarci a guardare il mondo.

L’andamento demografico, nell’era della affermata globalizzazione, non può infatti fermarsi ad analisi locali. Ha necessità di adottare quella visione globale che oggi attraversa i flussi non solo delle merci ma dei migratori di massa, coinvolgendo ogni angolo del mondo. Dobbiamo assumere la consapevolezza della necessità di una decrescita demografica globale, per garantirci un futuro più sostenibile. È evidente che non siamo pronti. Anche perché nessuno ci informa. E tutti, come greggi obbedienti, seguono il pensiero unico, senza domande né, tantomeno ragionamenti. Dov’è l’informazione? Viene da chiederselo davanti alla comunicazione di sistema rilanciata da testate e teste acefale assuefatte al pensiero unico e all’omologazione. Come non pensare a Umberto Eco e al suo appello alla decodificazione delle notizie messe in circolo dai grandi poteri dell’informazione strettamente nel dominio del potere che controlla le società?

A fine Settecento, all’inizio della rivoluzione industriale, la popolazione mondiale contava 750 milioni di persone. Tra il 1800 e il 1930 i Sapiens salgono a due miliardi. Solo 47 anni dopo, nel 1974, il numero degli individui raddoppia a quattro miliardi. Oggi sulla Terra vivono circa 7,5 miliardi di persone e i demografi stimano che si arriverà a 10 miliardi nel 2100. Una crescita tanto imponente ha sconvolto gli assetti socio-economici delle popolazioni, con la definitiva prevalenza di addensamenti urbani rispetto alle campagne e alle zone montane. Nel mondo ci sono sempre più metropoli e almeno 20 megalopoli abitate da più di dieci milioni di persone. Già oggi più di metà della popolazione mondiale vive in aree urbane in continua espansione e secondo l’ultimo World Urbanization Prospects, il documento del Dipartimento economico e degli affari sociali delle Nazioni Unite sull’urbanizzazione, salirà a oltre sei miliardi entro il 2045.

Cosa potrà capitare? Ciò che profeticamente si legge nell’introduzione a La società suicida (G.R. Taylor, Milano, 1972):

«Mettete dei batteri in una provetta, con nutrimento e ossigeno, ed essi prolificheranno in modo esplosivo, raddoppiando di numero ogni venti minuti circa, fino a formare una massa visibile e solida. Ma a un certo punto la moltiplicazione cessa, man mano che i microbi vengono avvelenati dai loro stessi prodotti di rifiuto. Nel centro di questa massa verrà così a costituirsi un nucleo di batteri morti o morenti, tagliati fuori dal nutrimento e dall’ossigeno del proprio ambiente dalla solida barriera dei loro vicini, Il numero dei batteri viventi si ridurrà quasi a zero, a meno che le materie di rifiuto non vengano eliminate. L’umanità si trova oggi in una situazione simile. La popolazione sta aumentando in maniera esplosiva, ma i prodotti di rifiuto della tecnologia cominciano a esigere il loro tributo. Le materie inquinanti che avvelenano l’aria e l’acqua non sono soltanto uno sgradevole sottoprodotto della tecnologia; esse costituiscono una minaccia per la vita, proprio perché l’incremento demografico è stato così anormalmente rapido. Queste materie nocive fanno parte del meccanismo di reazione con il quale la natura cerca di frenare una crescita eccessiva».

2.

Questo lo scenario e la prospettiva. Ecco perché il lamento, sul decadimento demografico dell’Italia necessita di essere riportato nella dimensione globale su cui oggi tutto si muove. Perché se è quella che regola il mondo, a quella occorre riferirsi non solo per ciò che fa comodo.

E allora proviamo a capire come si colloca l’allarme sul calo della nascite nel nostro Paese a livello globale.

L’Italia è popolata, secondo gli ultimi dati Istat, da 59,6 milioni gli abitanti con età media di 45,2 anni. Il 23% supera i 65 anni e solo il 13% è composta da giovani al di sotto dei 15 anni. Dati che fanno puntualmente scattare l’allarme: «Crisi demografica! Bisogna fare più figli! Diamo incentivi finanziari a chi procrea!». Regge la logica dell’imperante economicismo e della dittatura del mercato, cui si associa l’angosciante interrogativo su chi pagherà le pensioni? Cui si è recentemente aggiunto lo stigma razzista dell’identità nazionale, come se non fossimo già, fortunatamente (perché la genetica delle popolazioni lo conferma) un popolo meticcio storicamente attraversato a Sud-Ovest dalle presenze ispanico-magrebine, a Nord da quelle germaniche e a Est da quelle illirico-balcaniche (va ricordato che sotto il profilo genetico ogni popolazione che si chiude in se stessa rischia un affermarsi dei caratteri degenerativi e, per contro, ogni incrocio tra individui di provenienza lontana la rivitalizza).

In Italia registriamo una densità abitativa ‒ calcolata al lordo delle superfici non utilizzabili perché già cementificate o asfaltate oppure composte di rocce, ghiacciai, corsi d’acqua e bacini idrici naturali o artificiali ‒ che annota 200 persone per chilometro quadrato. Ognuno di noi ha dunque, attualmente, a disposizione mezzo ettaro. Che non è molto. Se calcoliamo la capacità di carico ‒ cioè il numero di esemplari di una specie che un determinato territorio può sopportare in termini di cibo fornito e smaltimento rifiuti richiesto ‒ del nostro territorio rispetto alla popolazione insediata, risulta che viviamo ben al di sopra delle possibilità. Siamo oltre di quattro volte e lo possiamo fare perché viviamo sulle spalle di altri territori (quasi esclusivamente quelli che teniamo nel sottosviluppo) per il nostro fabbisogno di materie prime. E, soprattutto, stiamo pesantemente intaccando le ricchezze destinate alla generazioni che verranno. Che infatti stanno cominciando a protestare e a chiedercene conto insieme al degrado inflitto dal nostro abulico egoismo, alla natura e al paesaggio. Debito pubblico e debito ambientale vanno a braccetto, ma per quest’ultimo non c’è Banca centrale né europea, né mondiale, che ci possa salvare.

Come si è già detto, se rivolgiamo la nostra attenzione a un orizzonte globale constatiamo che siamo grosso modo 7,5 miliardi di umani e cresciamo al ritmo di 80 milioni l’anno (poco meno degli abitanti della Germania). Secondo il modello demografico delle Nazioni Unite la popolazione mondiale salirà a 9,7 miliardi nel 2050, per poi cominciare a stabilizzarsi arrivando a fine secolo sui 10-11 miliardi. Per allora ci dovrebbe essere una diminuzione della popolazione cinese, che si dovrebbe stabilizzare sui 950 milioni di persone. In compenso l’India arriverà a 1,5 miliardi. Resterebbe comunque invariato il conto per la cosiddetta area geopolitica chiamata Cinindia. Il massimo che il nostro pianeta può sopportare viene stimato, dalla fonti già citate, in 8 miliardi. L’Africa è l’unico continente in cui la natalità è ancora al di sopra del livello di sostituzione (nascite che rimpiazzano le morti). Il picco è rappresentato dalla Nigeria che dovrebbe raggiungere i 750 milioni di persone. Il tasso di crescita è comunque quasi dimezzato rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo allorché partì l’allarme di Paul Erlich con il suo saggio La bomba demografica. Inoltre il miglioramento produttivo dell’agricoltura ha consentito di far fronte alle necessità di cibo ad oggi sufficiente, anche se ingiustamente distribuito.

In questo quadro il problema principale non è la mancanza di spazio sul Pianeta bensì la carenza di risorse e il suo impatto ambientale. Già ora la popolazione mondiale consuma le sue intere disponibilità annuali in poco meno di sei mesi. Come potrà la Terra sostenere una popolazione in costante aumento? Ciò fa sì, tra l’altro, che il cosiddetto Earth Overshoot Day (giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse biologiche che gli ecosistemi naturali possono rinnovare nel corso dell’anno), ogni anno anticipa, al punto che la nostra impronta ecologica globale richiederebbe ormai 1,7 Terre, il che significa che siamo fuori dal pareggio di bilancio ambientale del 70%. Secondo la FAO, entro il 2050 la quantità di acqua potabile disponibile pro capite scenderà del 73%. Considerando che ogni anno ben 5 milioni di persone muoiono per la scarsità di acqua e per la mancanza di servizi igienico-sanitari di base è facile prevedere che in un futuro ormai prossimo il numero dei morti per questa causa sia destinato a salire.

Inutile aggiungere che i problemi della sovrappopolazione non fanno che aggravare quelli provenienti dai cambiamenti climatici. Si stima che l’aumento dell’80% di gas serra tra il 1970 e il 2010 sia dovuto per il 50% proprio all’incremento di abitanti. Una recente ricerca dell’OMS ha rilevato che, a causa dei cambiamenti climatici e dei fenomeni a esso collegati, ogni anno muoiono circa 300 mila persone, il 50% in più rispetto al 2000. Il livello di anidride carbonica presente nell’atmosfera ha già superato le 400 parti per milione, un livello che sulla Terra non veniva toccato da almeno 3 milioni di anni. Si paventa la devastante previsione dei più 4 gradi di temperatura globale. Uno scenario da incubo: acqua salata in aumento, quella dolce in regresso; Cinindia che attinge dal grande bacino himalayano in rapida e profonda crisi da stress idrico, al pari degli Stati Uniti che dipendono in gran parte dalla grande falda acquifera Ogallala, in costante abbassamento (tra i 30 e i 90 cm l’anno). Senza contare il fenomeno dell’acidificazione degli Oceani di cui troppo poco si parla ma che mette a rischio un ecosistema strategico per la sopravvivenza della specie umana.

Quali le azioni più efficaci per ridurre le emissioni di anidride carbonica e gas termoalteranti? Il riciclo dei rifiuti e le azioni di efficientamento energetico vi contribuirebbero in maniera marginale; la rinuncia al traffico privato automobilistico significherebbe 2,4 tonnellate equivalenti di CO2 in meno ogni anno a persona; i viaggi aerei transcontinentali, andata e ritorno: 1, 6 t equivalenti. Soprattutto, però, avere un figlio in meno, globalmente significherebbe riduzione di 58 t equivalenti a testa di CO2.

Dunque il problema demografico non è né secondario, né superato e la ricerca di una stabilità equilibrata ancora lontana da raggiungere. Ci sta, tutto, il richiamo ancora una volta profetico di papa Francesco a «procreare con consapevolezza». Come una copiosa nevicata o la rigidità delle temperature invernali non significano affatto un’inversione nella tendenza al surriscaldamento del pianeta, così leggere flessioni nella natalità di qualche Paese non sono in grado di contrastare la corsa dell’espansione demografica.


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