IFE Italia

L’amore non basta

di Gaia Benzi
domenica 2 gennaio 2022

*Gaia Benzi è redattrice di Jacobin Italia e ricercatrice di storia e letteratura. Ha scritto Tra prìncipi e saltimbanchi. Medicina e letteratura nel Tardo rinascimento (Sue, 2020).

Fonte: https://jacobinitalia.it/lamore-non...

C’è un meme che circola da un paio d’anni e riassume bene una disforia diffusa. Parte da un motto molto in voga nel coaching e nei motivational speech, «Fai quello che ami e non lavorerai un giorno in vita tua», ma ne cancella e riscrive la seconda parte. La frase finale, di lucida semplicità, recita: «Fai quello che ami e ti ammazzerai di lavoro senza soluzione di continuità o confine alcuno e prendendo ogni cosa estremamente sul personale».

La premessa comune a entrambe le varianti è quella di associare un sentimento potente come l’amore a una fonte di reddito, il proprio lavoro: una versione moderna e aggiornata di «insegui i tuoi sogni», o anche solo «dai seguito al tuo percorso di studi», ed entra a far parte della ruggente classe creativa che ha ottenuto il bene supremo di fare, appunto, quello che ama, e vedersi addirittura retribuita per questo.

Con classe creativa, qui come altrove, ci si riferisce alla chimera inseguita dal teorico urbano Richard Florida nello scorcio del nuovo millennio, quando ne L’ascesa della classe creativa (Mondadori, 2003) delineò i contorni di una nuova classe sociale composta da giovani e talentuosi operatori culturali – artisti, intellettuali, studiosi – che avrebbe popolato le trainando la crescita economica di interi paesi a botte di innovazione tecnologica e raffinate relazioni sociali. Non completamente sovrapponibile alla classe professional-manageriale, ma nemmeno a essa del tutto estranea per livelli di istruzione e, spesso, background familiare, la classe creativa sembrò a molti una comoda panacea a tutti i mali della sinistra, una compagine priva della fatica materiale e dell’alienazione proprie della fabbrica e ancora capace di una postura conflittuale – non troppo, quel tanto che basta: una nuova classe potenzialmente rivoluzionaria, di una rivoluzione che avrebbe continuato a non essere un pranzo di gala, certo, ma magari un vernissage sì.

Inutile dire che non è andata a finire proprio così, e il meme di cui sopra ne è solo un indizio. Il lavoro creativo del nuovo millennio si è rivelato nel tempo un mix indigesto di precariato feroce e vecchio lavoro d’ufficio di stampo fordista, caratterizzato da orari sempre più lunghi e paghe sempre più basse. La classe creativa non solo non ha traghettato il mondo nel futuro ma è stata l’avanguardia di un processo di impoverimento collettivo, riuscendo nel difficilissimo compito di rendere appetibile l’assenza di tutele e la mancanza di stabilità a intere generazioni di giovani lavoratori e lavoratrici. Un percorso a tappe forzate, puntellato soltanto da poche proteste.

Come è stato possibile convincere migliaia di individui ad accettare accordi tanto svantaggiosi e tanto in contrasto con la felice visione promessa da Florida? Com’è possibile «ammazzarsi di lavoro senza soluzione di continuità o confine alcuno» tra vita privata e professionale per stipendi irrisori o inesistenti e considerarla la normalità?

La giornalista statunitense Sarah Jaffe ha provato a rispondere a questa domanda, raccogliendo testimonianze di giovani lavoratori e lavoratrici dell’industria culturale e non solo. In Work Won’t Love You Back: How Devotion to Our Jobs Keeps Us Exploited, Exhausted, and Alone (Hurst, 2021), Jaffe traccia i contorni di un’ideologia dell’amore applicata al lavoro che ruota attorno all’imperativo di dover amare il proprio lavoro e che, esattamente come lo stucchevole romanticismo patriarcale nei rapporti sentimentali, è funzionale a nascondere una relazione d’oppressione, violenza e sfruttamento.

Anche se indubbiamente la classe creativa costituisce un bacino d’analisi privilegiato, Jaffe non parla solo di lavoro creativo. Ad esso affianca ogni tipo di lavoro caratterizzato da quei tratti umani (empatia, gentilezza, capacità d’adattamento, ecc.) non replicabili meccanicamente, come ad esempio il lavoro di cura, arrivando a includere in una stessa macro categoria lavoratori e lavoratrici tenuti quasi sempre rigidamente separati: insegnanti, collaboratori domestici, attori, parrucchieri, bartender, terapiste, operatori sociali, staff dei musei, avvocate, addette alle vendite, infermieri, artiste, giornaliste, programmatori, stagiste, ricercatori, atlete e così via, in un elenco lunghissimo di mansioni e mestieri.

Nell’interpretazione di Jaffe, ad accomunare queste figure, e più in generale lavoro creativo e lavoro di cura, è il lavoro emotivo richiesto al lavoratore e alla lavoratrice. Sono entrambi campi in cui non basta seguire il dettame neoliberista che ci vorrebbe tutti «imprenditori di noi stessi»: dobbiamo anche essere innamorati del nostro lavoro, farlo perché ci piace, per passione o predisposizione, come nel caso dell’insegnamento o dell’assistenza ai malati, per militanza o vocazione, nel caso dei lavori nel sociale o nell’arte. In questo senso l’arte ha rappresentato un cavallo di Troia perfetto per l’ideologia dell’amore applicata al lavoro, perché chi più di un artista lavora non perché deve ma perché vuole, mosso dall’incontenibile urgenza dell’espressione di sé?

Non è un caso che al centro di uno dei romanzi più riusciti degli ultimi anni dedicati al mondo del lavoro e in particolare al lavoro intellettuale – una sorta di Illusioni perdute di balzachiana memoria aggiornato al ventunesimo secolo – vi siano proprio l’arte e i suoi officianti. Ne La vita adulta (Ponte alle Grazie, 2021) Andrea Inglese mette in bocca a un giovane scultore un’analisi impietosa dell’ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni: «Io che ho trentaquattro anni sono già vecchio, sono fuori. […] D’altra parte, quelli più giovani mi fanno anche compassione. Già a ventidue anni stanno in piedi a botte di psicofarmaci, per tenere sotto controllo l’ansia oppure per darsi la spinta. Vivono una pressione incredibile […] devono capire immediatamente che cosa hanno da offrire di interessante, devono tendere le antenne verso coloro che li accerchiano, decifrare al volo il desiderio altrui, e sapergli dare forma senza tentennamenti, con pulizia e rigore. […] Bisogna farsi trovare pronti, arrendevoli, diligenti».

Pronto, arrendevole, diligente,l’artista è il lavoratore ideale, il prototipo di un individuo che ha smesso di vendere la propria forza lavoro in cambio di un salario e ha iniziato a «esprimere sé stesso», dando seguito alla propria naturale inclinazione in cambio di esperienza e visibilità, o per «contribuire a una buona causa» con il proprio talento, perfettamente aderente ai desideri dei suoi superiori.

Non più sfruttati e sfruttatori, dunque, ma un mondo in cui ciascuno e ciascuna fa semplicemente ciò che ama, in cui l’amore è la forza cosmica capace di sconfiggere l’alienazione. Ma ciò che il cognitariato e la terziarizzazione ogni giorno brutalmente ci ricordano è che, sotto il manto di una flessibilità posticcia fatta di incertezze e precariato, lavoratori e lavoratrici dell’industria culturale, dell’insegnamento, della cura, dei servizi, non hanno mai smesso di essere alienati: non hanno mai smesso, cioè, di non avere alcun controllo sui propri tempi di lavoro e sui prodotti della loro fatica.

La moderna alienazione è però più difficile da riconoscere, perché è più difficile per il lavoratore ammetterla a sé stesso. Se pur facendo il lavoro che amiamo siamo insoddisfatti, frustrate, annichilite, non sarà forse colpa nostra? Saremo forse noi che non amiamo abbastanza? Come per ogni dinamica tossica riuscire a uscirne non è facile, soprattutto perché in un contesto in cui tutti e tutte siamo costrette a lavorare quaranta o più ore alla settimana lo spazio per la vita al di fuori del lavoro – relazionale, sociale, politica – diventa sempre più esiguo, e la linea di confine tra lavoro e privato è sempre più sfumata, con ambienti di lavoro che tendono a somigliare a un inquietante e distorto nucleo familiare. Se tutto il proprio tempo è dedicato al lavoro, il lavoro diventa l’orizzonte di tutto.

Oltre a essere deleteria in sé, la sovrapposizione tra lavoro e privato, la confusione dei ruoli – con capi che, ad esempio, si pretendono «amici», mascherando lo squilibrio gerarchico di potere da rapporto personale paritario – non fa altro che avallare e coadiuvare dinamiche manipolatorie, in cui il patriarca fa leva su emozioni come senso di colpa e senso del dovere per ottenere dai propri dipendenti quel di più – non retribuito, ovvio – che si presenta come eccezione ma spesso diventa la regola. La passione dei lavoratori e la loro disponibilità emotiva – quell’essere «pronti, arrendevoli, diligenti»di cui sopra – non sono lì per essere valorizzate, ma per essere utilizzate contro di loro. E se per qualche ragione, memori dei propri diritti, provano a dire no a uno sfruttamento senza fine, la reazione che ottengono è violenta e vessatoria: diventano immediatamente imperdonabili ingrati. «Se è il lavoro in sé stesso la principale ricompensa», sintetizza Jaffe, «è molto più facile per il capo dire ai propri dipendenti di stare zitti ed essere riconoscenti».

In questo scenario le più colpite sono, come sempre, le donne, alle quali viene implicitamente richiesto di assolvere funzioni di cura all’interno del proprio ambiente lavorativo quale che siano le loro mansioni di base: devono essere sempre gentili, disponibili e di buon umore, accudenti e materne, ascoltare gli sfoghi degli altri e appianare i conflitti, fare da mediatrici, avere un atteggiamento conciliante e remissivo anche e soprattutto di fronte all’aggressività esibita dei propri colleghi maschi. Se ci si sottrae a questo ruolo, se si rifiuta questo ricatto, si viene tacciate di essere «intrattabili» o «esagerate», o di avere «un brutto carattere» – il quale, da tendenza più che scusabile nell’uomo, diventa elemento problematico se non potenzialmente pericoloso nella donna.

La verità è che quando ti viene chiesto di mostrare amore e gratitudine ogni giorno, quando l’ambiente di lavoro non è più tale ma diventa una grande famiglia il cui collante è l’amicizia, la militanza o la riconoscenza verso il capo, è molto più difficile sviluppare la mentalità necessaria a riconoscere le ingiustizie, costruire una solidarietà di classe e organizzarsi per cambiare le cose. Come per altre relazioni disfunzionali, l’abuso reiterato produce autosvalutazione, e alimenta la fallace speranza di un cambiamento – a patto, ovviamente, di «resistere un altro po’», in una sorta di gavetta permanente – che fa sopportare senza reagire vere e proprie forme di maltrattamento: retribuzione assente o irrisoria, sottoinquadramento, burnout, overworking, straordinari non pagati, lavoro nero, lavoro grigio, mobbing.

La buona notizia è che questa ideologia del lavoro inizia oggi a vacillare. Le crepe che si stanno aprendo al suo interno sono dovute anche, in parte, allo stress aggiuntivo imposto dalla pandemia, che ha portato molti a riconsiderare le proprie priorità di vita e ha fatto luce sugli effetti collaterali di un’esistenza ridotta a mero lavoro. In questo senso la duplice crisi del lavoro creativo e del lavoro di cura sono a loro modo un’opportunità per rompere finalmente la cappa tossica dell’ideologia dell’amore associata al lavoro, del mito del lavoro come fonte di liberazione e strada maestra della realizzazione personale. È arrivato il momento di ammettere che, anche se amiamo quello che facciamo, non è per passione che lavoriamo ma per soldi, che non è l’amore ma la necessità materiale a spingerci a lavorare, e se il trattamento è pessimo, la paga bassa, l’orario sfiancante e il capo stronzo, il gioco semplicemente non vale la candela. L’amore non basta e non basterà mai.


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