IFE Italia

Il militarismo come motore e malattia

di Nicoletta Pirotta
venerdì 18 marzo 2022

Fonte: https://transform-italia.it/il-mili...

Immagine: dipinto ad olio di Tamara di Lempicka

Fin dalle sue origini il movimento femminista si è espresso contro la guerra e quindi contro la violenza che è insita in ogni guerra.

E non perché le donne siano “naturalmente” pacifiche o pacificate, come certa vulgata differenzialista vorrebbe far intendere. Le donne la violenza la sanno usare quando si tratta di opporsi a chi detiene il potere ed usa la violenza per imporlo ed opprimere. Penso, solo per fare due esempi, alle donne partigiane durante la seconda guerra mondiale o alle donne curde. Una violenza che, in questi casi, è stata agita per difendersi o autodeterminarsi.

La violenza che il femminismo ha saputo svelare e che vuole contrastare è quella che va a braccetto con il potere, capitalista e patriarcale insieme. Quella che esalta la forza bruta, che costruisce il nemico, che mostra i muscoli, che santifica il maschio-macho.

Non è un caso uno dei primi appelli contro la guerra l’abbiano scritto le femministe russe visto che la pratica machista la conoscono bene perché sta al governo del loro Paese.

In questo breve testo voglio evidenziare, in particolare, due aspetti che la guerra porta inevitabilmente ad esasperare: il militarismo e il nazionalismo. Aspetti su cui il femminismo ha prodotto una miniera d’oro di riflessioni e di pratiche.

Il militarismo come ebbe a dire Rosa Luxemburg e stato il motore dello sviluppo capitalista diventandone una malattia.

Le ricadute del militarismo hanno una dimensione materiale che ricade direttamente sulla vita delle persone : l’ aumento delle spese militari e della produzione di armi , un’ ulteriore riduzione dei sistemi pubblici di welfare, la crescita esponenziale di profughi.

La Germania ha annunciato un aumento delle spese militari pari al 2% del suo PIL ( il più alto d’ Europa), mentre la Francia ha proposto alla UE, per ora senza successo, la costruzione di un esercito europeo. Si sta inoltre ragionando su un nuovo NGEU o Recovery Plan che metta a disposizione risorse destinate al riarmo. A danno delle spese sociali.

Ed intanto centinaia di migliaia, se non milioni, di profughi ucraini lasciano la loro casa, i loro affetti, i loro ricordi per avviarsi verso un incerto futuro.

Ma il militarismo ha ricadute anche simboliche: esso tende a rafforzare le gerarchie e gli stereotipi di genere inteso unicamente nella sua concezione binaria. Ed ecco allora che le femmine-madri scappano con i loro figli mentre i maschi-padri vanno al fronte a difendere la patria. Le immagini incessanti che scorrono sui social e sui mezzi di comunicazione raccontano della tragedia e del dolore che vivono in Ucraina le persone sotto i bombardamenti ordinati da Putin ma intanto ripropongono quegli stereotipi che il femminismo ha cercato in tutti i modi di contrastare per consentire a ciascuno di essere ciò che vuole, per scelta e non per destino.

Il militarismo produce anche militarizzazione delle coscienze che induce a schierarsi e non più a ragionare. Ne abbiamo già avuto un esempio durante la pandemia nella quale, giova ricordarlo, il compito di distribuzione dei vaccini è stato affidato ad un generale dell’esercito.

Una militarizzazione che fa sì che anche noi ci si senta in guerra anche se, nella realtà, non lo siamo. O perlomeno non ancora.

Benché non sia corretto, in questo caso, parlare di coscienza militarizzata non posso nascondere che ho accolto con stupore, ed un po di smarrimento, la posizione di Vito Mancuso, un teologo il cui pensiero considero uno dei miei riferimenti teorici, favorevole, per ragioni umanitarie che fatico a comprendere, all’invio di armi agli ucraini. Tempi duri.

L’altro aspetto riguarda il nazionalismo, tornato guarda caso sulla scena dopo anni in cui sembrava che il sistema capitalista, o almeno una parte di esso, dentro un’economia globalizzata potesse fare a meno.

Un nazionalismo che come alcune intellettuali femministe hanno messo in luce (si veda Paola Rivetti “Di fronte alla guerra rivolgiamoci al femminismo” / MicroMega) si declina, in modo intersezionale, su due aspetti: quello del genere e quello della razza o se preferite del colore della pelle o della provenienza.

Nel primo caso si veicola un immaginario patriarcale secondo il quale per le donne non resta che tornare ad essere, per destino prima ancora che per scelta, madri o mogli. Rimettendo in discussione il diritto delle donne all’autodeterminazione su cui il movimento femminista tanto ha lottato e lotta.

Nel secondo caso la ricaduta è quello di costruire una differenza di valore tale per cui non tutte le nazioni hanno uguale importanza e non tutti i popoli hanno pari dignità. Faccio solo un esempio per farmi capire. Come si condanna l’invasione russa del Donnbas perché non si fa lo stesso con la politica egemonica in altre parti del mondo? Penso alla martoriata Palestina o al popolo curdo solo per fare qualche esempio.

Allo stesso modo pare che non tutti i profughi abbiano gli stessi diritti. Come ho già avuto modo di scrivere su queste pagine se la Polonia avesse accolto con la stessa efficienza, che reputo encomiabile, i profughi (migliaia e non centinaia di migliaia com’è ora!) provenienti dal medio-oriente ed ammassati sul confine con la Bielorussia, in poche ore avrebbe dato loro assistenza ed un tetto. Ed invece li ha respinti con la violenza costringendoli a vivere in condizioni sub-umane nella foresta che costeggia la regione polacca di Podlaskie.

I due pesi e le due misure non hanno mai aiutato la pace.

In ragione di queste brevi note su militarismo e nazionalismo appare evidente che il no alla guerra femminista dovrebbe indurre a sottoporre l’esistente a critica, evitando di schierarsi per auspicare una neutralità attiva che è il solo antidoto alla guerra.

Nell’articolo sopra citato Paola Rivetta si chiede se non sia tempo ” di attivare la creatività politica necessaria ad immaginarci senza bisogno di un esercito o di confini”.

Utopia? Non credo, di fronte alla barbarie che avanza accontentarsi non basta.


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