IFE Italia

La 194 non si tocca

di Nicoletta Pirotta
domenica 27 novembre 2022

"È questo il tempo di mettere in discussione la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) visti alcuni suoi pesanti limiti? Lo chiedo perchè mi è capitato di leggere o ascoltare voci in tal senso anche all’interno del mondo femminista. Poichè ciò mi ha preoccupato provo a spiegare perché io credo che la 194 vada ancora difesa.(...)"

È questo il tempo di mettere in discussione la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (IVG) visti alcuni suoi pesanti limiti? Lo chiedo perchè mi è capitato di leggere o ascoltare voci in tal senso anche all’interno del mondo femminista. Poichè ciò mi ha preoccupato provo a spiegare perché io credo che la 194 vada ancora difesa.

La legge 194 vede la luce il 22 maggio 1978. Fino ad allora l’interruzione volontaria di gravidanza era regolata dal Codice Penale ed era considerata un reato. Poco più di un anno prima, precisamente nel gennaio del 1977, l’UDI (Unione Donne Italiane) pubblicò Sesso amaro, libro nel quale vennero raccolte le testimonianze di oltre trentamila donne su maternità, sessualità, aborto. La sua lettura (che mi permetto di consigliare anche oggi) consentì di conoscere e capire quanto la vita delle donne fosse segnata da prevaricazioni, ignoranza, solitudine e sofferenza. E di comprendere quindi quanto fosse necessaria una legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. Con Sesso amaro l’aborto, fino ad allora pratica clandestina vissuta in solitudine e rischiosa per la salute (numerose furono le donne che persero la vita) divenne argomento non solo di discussione sui media ma sopratutto di mobilitazione e di lotta.

Il discorso sulla scelta o meno di essere madri il movimento femminista lo aveva posto ancor prima dell’uscita del libro e lo aveva posto come problema politico su cui discutere collettivamente per sfidare il sistema patriarcale. Questo positivo e generalizzato fermento, dentro un clima sociale e politico favorevole al conflitto di classe e di genere, fece sì che il movimento delle donne riuscisse a favorire un’utile convergenza fra differenti esperienze femministe e femminili divenendo protagonista di imponenti mobilitazioni per pretendere che l’IVG non fosse più considerata reato e che le donne potessero accedervi liberamente e in sicurezza, scegliendo se essere madri oppure no.

La legge 194 fu il frutto di tali lotte. Essa fu certamente una legge di compromesso, come denunciarono diverse realtà femministe, ma al contempo quanto di meglio si potesse ottenere in un Paese segnato dall’iniziativa politica delle gerarchie vaticane e delle forze politiche che a queste si rifacevano, che avevano in odio (allora come oggi) la libertà delle donne di avere, sul proprio corpo, la prima e l’ultima parola. In particolare sono due gli articoli della legge che danno conto di tale compromesso, e cioè l’articolo 2 che consente ai consultori di avvalersi della “collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”, quindi anche di associazioni anti-abortiste, e l’articolo 9 che permette l’obiezione di coscienza, cioè la possibilità per il personale sanitario di non praticare aborti in ragione di scelte individuali sul piano morale. Senza alcun dubbio due articoli negativi e insidiosi, benché la legge italiana sull’IVG resti, ancora oggi, fra le più avanzate non solo in Europa.

La legge, nonostante le limitazioni e le ambiguità, ha dato comunque buoni risultati.

Come è scritto nell’ultima relazione al Parlamento sulla 194 del Ministero della salute, nel 2020 si è confermato il continuo andamento in diminuzione del fenomeno (-9,3% rispetto al 2019) a partire dal 1983. “Il tasso di abortività (numero di IVG rispetto a 1.000 donne di età 15-49 anni residenti in Italia), che è l’indicatore più accurato per una corretta valutazione del ricorso all’IVG, conferma il trend in diminuzione del fenomeno: 5,4 per 1.000 nel 2020 con una riduzione del 6,7% rispetto al 2019″. Certo l’obiezione di coscienza è andata aumentando in modo esponenziale. Lo riconosce anche il Ministero quando sottolinea che nel 2020 il fenomeno ha riguardato il 64,6% dei ginecologi (valore in diminuzione rispetto al 67,0% del 2019), il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico”. L’Associazione “Luca Coscioni” ha recentemente denunciato che nel nostro Paese ci sono ben 31 strutture con il 100% di obiettori di coscienza tra ginecologi, anestesisti, infermieri e assistenti sanitari ausiliari.

Come ho già avuto modo di scrivere anche su queste pagine, l’ampiezza del ricorso all’obiezione di coscienza ha ormai raggiunto l’insopportabile media del 70%, fino a toccare in alcune regioni, per esempio il Molise, punte del 90%. Fatto questo che favorisce il ricorso agli aborti clandestini. È lo stesso Ministero della Salute a riconoscere questa pericolosa tendenza approssimando che ogni anno sono fra le 10mila e le 13mila donne che abortiscono in clandestinità. Il ritorno alla clandestinità è un dato che desta preoccupazione prima di tutto per la salute delle donne che sono costrette a ricorrervi e rende evidente quanto siano pesanti le ricadute dell’obiezione di coscienza sulla salute delle donne stesse. Anche la possibilità data alle associazioni anti-abortiste di entrare nei consultori o nelle strutture sanitarie ha prodotto effetti negativi, specie nelle Regioni governate dalla destra.

La giunta regionale del Piemonte, tanto per fare un esempio, avrebbe addirittura trovato modo di finanziare con denaro pubblico queste associazioni grazie alla creazione di un albo regionale ad hoc. La rete femminista “Più di 194 voci” si sta opponendo a questa scelta così come ha fatto anche in altre occasioni sventando per il momento, ulteriori attacchi alla 194.

Se la situazione è questa, da dove nasce la mia contrarietà alla messa in discussione della legge 194? Prima di tutto nasce dal fatto che di fronte alla vittoria elettorale della destra e alla composizione del governo che ne è conseguita, mettere in discussione la legge potrebbe offrire il fianco ed aprire un ulteriore varco al suo smantellamento.

In secondo luogo credo che la forza materiale del movimento femminista e, più in generale, dei movimenti che si oppongono all’egemonia della destra, non sia tale da consentire la possibilità di ottenere una legge migliore. Sul piano politico istituzionale, inoltre, la situazione è molto diversa da quella di quarant’anni fa, quando esistevano “cinghie di trasmissione” fra la società e la rappresentanza politica, specie a sinistra. Oggi il discredito verso le forze politiche è ai massimi livelli anche a causa della loro quasi totale incapacità di essere in sintonia con i problemi reali delle persone.

Ma c’è un ulteriore aspetto che, a mio avviso, dovrebbe indurre alla prudenza. È vero che, grazie all’onda lunga del femminismo, le nuove generazioni di donne sono più consapevoli dei loro diritti e più decise a voler autodeterminare la propria vita. Ma l’autodeterminazione dipende da molti fattori quali le condizioni materiali, la provenienza, la conoscenza della lingua, il sapere e l’essere informate, l’esigibilità dei diritti alla salute, all’istruzione, al lavoro, alla casa. Ed anche dall’esistenza di alcune leggi, seppur perfettibili, come la 194.

Giudico invece più saggio pretendere alcune modifiche della 194, in particolare per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, chiedendone l’abolizione dell’articolo 9 anche in ragione del pericoloso aumento degli aborti clandestini. Così come andrebbe preteso il pieno accesso a tutte le tecniche abortive farmacologiche, come sostiene opportunamente “Obiezione respinta”, un progetto femminista che ha come obiettivo la mappatura di medici e farmacisti obiettori e la creazione di reti di mutuo aiuto e solidarietà per chi ha bisogno di abortire. La RU486 , cioè la cosiddetta “pillola abortiva, un farmaco a base di mifepristone che viene utilizzato per indurre l’aborto farmacologico, è utilizzata scarsamente e in modo disomogeneo nelle varie regioni. Servirebbe chiedere con forza l’armonizzazione dei protocolli di impiego della RU486 su tutto il territorio nazionale garantendo quantomeno il rispetto delle norme indicate dalle linee guida del Ministero della Salute emanate nell’agosto del 2020.

Sarebbe tempo, infine, di rimettere al centro la lotta per i consultori pubblici. Come è scritto nel “Report del tavolo sulla salute” di Non Una Di Meno “i consultori devono tornare a essere aperti e accoglienti, liberi e gratuiti, diffusi nel territorio. Per perseguire questo obiettivo è necessario rimettere in discussione il processo di istituzionalizzazione che li ha sottratti alle donne trasformandoli in meri servizi socio-sanitari comunque di serie C. Riappropriarsi dei consultori significa quindi recuperarli alla funzione di spazi in cui sessualità, piacere e autodeterminazione assumano piena centralità”.

Credo che la lotta dovrebbe convergere su questi temi per migliorare le parti più problematiche della 194 e quindi per poterla difendere con ancora maggiore forza.


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