IFE Italia

La povertà: il tema dimenticato che la politica deve rispolverare

di Tonia Mastrobuoni
venerdì 27 maggio 2011

...sulle donne, per una volta, vale la pena partire dalla cultura e non dai numeri. «L’Istat ci ha segnalato di nuovo che c’è una forte asimmetria negli incarichi di cura e di tempo dedicato alla famiglia».....

Che le famiglie stiano erodendo i propri risparmi per salvaguadare il livello dei consumi «non è una novità», osserva Marco Revelli. È vero, il tasso di risparmio degli italiani è sceso a livelli record, per la prima volta al di sotto della media dei Paesi dell’euro, al 9,1 per cento. Per il politologo che ha guidato in passato la Commissione d’indagine per l’esclusione sociale (Cies) è importante tuttavia guardare molto da vicino i dati sui consumi perché mettono invece in evidenza un dato inoppugnabile e per certi versi inquietante.

«Se è vero che stiamo consumando i cuscinetti accumulati negli anni buoni, è vero anche che si registra ormai un livello dei consumi voluttuari che sembra diventato indispensabile». Per il politologo dell’Università del Piemonte orientale, la spesa rimane alta perché «c’è il bisogno di confermare l’autostima e il sistema di relazioni e l’appartenenza di status». E l’impossibilità di rinunciare a questi beni non indispensabili, aggiunge, «comporta d’un lato la necessità di intaccare le riserve». Ma c’è di più: «gli italiani stanno rinunciando spesso ai consumi essenziali, al cibo, all’istruzione, magari a qualche rata di affitto, piuttosto che perdere lo status e rinunciare, magari, a comprarsi l’ennesimo cellulare». In Poveri, noi (Einaudi) uscito qualche mese fa Revelli mette in relazione l’impoverimento del Paese cui si è assistito in questi ultimi anni e che anche l’istituto di statistica ha fotografato ieri - ua famiglia su quattro rischia la povertà - con un crescente rancore sociale che si sta esprimendo in una sempre più diffusa «guerra orizzontale», di poveri contro i poveri. «L’impoverimento crea rancore - sottolinea il politologo - e intolleranza, Quindi si moltiplicano gli espisodi di persone, quartieri interi!, che si ribellano contro la scolarizzazione dei rom o contro l’arrivo di migranti. È un fenomeno terribile perché è il fondo della scala sociale che si contende le scarse ricchezze che ha». Sarebbe ora, conclude, «di rimettere in cima all’agenda politica il tema della redistribuzione della ricchezza, uscito da anni anche da quella del centro sinistra».

Le donne: in casa fanno tutto, le imprese imparino a puntare su di loro

Sulle donne, per una volta, vale la pena partire dalla cultura e non dai numeri. «L’Istat ci ha segnalato di nuovo che c’è una forte asimmetria negli incarichi di cura e di tempo dedicato alla famiglia». E siccome se c’è da lavare un piatto, stendere un panno, portare il bambino a scuola o accudire l’anziana madre la scelta ricade quasi sempre sulle donne, Alessandra Casarico fa notare che «esiste ormai un circolo vizioso che ha ripercussioni pesanti anche sul lavoro». L’economista della Bocconi che si occupa spesso in tandem con la collega Paola Profeta del tema delle diseguaglianze di genere - l’ultima fatica a quattro mani si intitola Donne in attesa (Egea/Bocconi) - sintetizza la questione così: «siccome tutti sanno che l’impegno in famiglia delle donne è molto più alto, i datori di lavoro e le imprese si aspettano che siano meno disposte a lavorare e affidano loro incarichi meno qualificati e meno retribuiti. E questo ha poi la conseguenza che le cure in famiglia vengano affidate a loro, perché guadagnano meno, eccetera». Un cane che si morde la coda.

I numeri sono chiari: le donne italiane lavorano in casa 80 minuti in più degli uomini: «in Spagna sono 50 e nei paesi nordici come la Norvegia sono zero», ricorda Casarico. Che ci tiene anche a sfatare un luogo comune: «non è affatto vero che le donne che lavorano dedicano menotempo ai bambini; è spesso vero il contrario» e sarebbe bene scacciare dalla testa di molte persone anche questo pregiudizio. Che le donne lavoratrici sarebbero madri peggiori: i numeri «smentiscono chiaramente questa tesi».

E a proposito di numeri, l’economista della Bocconi sottolinea come la crisi abbia interrotto un trend virtuoso. Da un decennio il tasso di occupazione femminile «stava crescendo. Ora quel trend si è interrotto». Non solo: come sottolinea l’Istat «è anche aumentata la presenza donne nei contratti a tempo e nel part time involontario». Infine, il 40% delle laureate fa un lavoro che non è all’altezza delle sue qualifiche. «Un dato preoccupante», conclude Casarico.

Futuro in bilico: giovani rassegnati. E il prossimo dramma colpirà gli over 50

Due milioni di giovani che sono inchiodati a casa dei genitori senza fare nulla, i cosiddetti “Neet” (not in employment, educational or in training), «sono ovviamente un dramma», come il fatto «che la crisi abbia mandato a casa soprattutto loro», mezzo milione di under 30 nell’ultimo biennio. Ma Francesco Daveri ricorda che nel passato decennio, mentre l’Italia cresceva a ritmi da prefisso telefonico, c’è stato invece, fino alla crisi, un aumento dell’occupazione giovanile, dovuta ovviamente alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. C’è stato «uno scambio - spiega l’economista dell’Università di Parma - e grazie alla possibilità di mantere i redditi bassi, le imprese hanno creato più posti di lavoro». In altre parole, se è vero che la politica è stata «troppo spesso distratta» rispetto alle esigenze di questa trasformazione profonda - «ad esempio mancando di approvare una seria riforma degli ammortizzatori sociali» - per il futuro prossimo Daveri intraevede un nuovo dramma: «potremmo assistere a una nuova emergenza, quella di un forte aumento di disoccupazione tra gli over 50».

La crisi sta mettendo in evidenza un difetto ormai strutturale del nostro sistema, osserva l’economista de Lavoce.info. Il fatto, cioè, «che ci sono due mercati del lavoro, uno tutelato e uno, rappresentato soprattutto dai giovani, flessibile». Se la ripresa dovesse confermarsi troppo lenta, ragiona Daveri, è prevedibile «che molte aziende sposteranno la produzione all’estero, che delocalizzeranno». In questo caso perderebbero il lavoro anche i contratti a tempo indeterminato, anche moltissimi lavoratori con più di quaranta o cinquant’anni. «E un conto è che sia un giovane a perdere il lavoro, che ha la possibilità o la spinta, se necessario, ad andare anche in Cina a cercarsi un lavoro». Un conto invece, è se si perde il lavoro a 45 anni, con una famiglia a carico e una rigidità maggiore, nelle scelte. «Io temo moltissimo che se non ci sarà un’accelerazione nella ripresa, questo sarà il prossimo dramma che affronteremo».


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