IFE Italia

Relazioni intersezionali.

di Paola Guazzo e Nicoletta Pirotta per Intersezioni femministe
mercoledì 28 maggio 2025

"Si è svolta a Roma sabato 24 maggio l’assemblea nazionale di transform!Italia. “Europa chi?” è stato il tema affrontato dalla nostra associazione, nata per far crescere anche nel nostro paese la dimensione politica e sociale della UE. Dimensione peraltro non sviluppata secondo una prospettiva lineare di estensione di uguaglianza e diritti, nel tempo, e ora vieppiù pericolante. Sono stati affrontati i temi del contrasto al riarmo ed alla guerra, di sostegno alla Palestina, di ricerca di una identità europea democratica e sociale. Anche il femminismo intersezionale ha presentato due relazioni, tramite noi curatrici di questa rubrica. Abbiamo seguito una linea coerente con la nostra etica femminista, che è anche quella di sovvertire le linee teorico-politiche consuete, ed espresso due punti di vista politici articolati nel senso di un’analisi decoloniale e psicoanalitica. Presentiamo qui le nostre relazioni."

Fonte: https://transform-italia.it/relazio...

Intersezionalismo o intersezioni? Pratiche femministe nel presente

Paola Guazzo

Parlo brevemente della rubrica Intersezioni femministe, che curo su Transform con Nicoletta Pirotta da quasi 2 anni. Ogni settimana presentiamo, con nostra introduzione, voci, concetti e posizionamenti del mondo femminista, con presenze talora di voci queer o comunque di persone, anche maschi, che sviluppino quella che ci appare come una visione intersezionale (ovvero multipla, complessa, stratificata, che tiene conto di ciò che unanalisi classica di classe non sempre contempla: genere, etnia, razza, per parlare solo di macrocategorie sociali). Il nostro sguardo privilegia in questo senso i saperi critici delle donne, cercando anche di non enucleare un solo stile politico, ma di moltiplicare i linguaggi di approccio: ci siamo occupate anche di musica, letteratura e teatro; cerchiamo inoltre di riportare voci non solo occidentali, di femminismo “bianco“; siamo sensibili all‘articolazione decolonializzante dei femminismi più attuali e alla prospettiva di un genere non considerato in modo essenzialista, ma come un‘identità che si plasma con la storia e viene messa in discussione dal movimento transfemminista.

Abbiamo usato il termine intersezioni nel titolo della nostra rubrica, per sottolineare così una pratica costante, un esercizio quotidiano di ascolto, ricezione e rielaborazione; il termine agentivo e plurale ci definisce più di quello di “intersezionalismo“. Tuttavia possiamo accogliere anche questa definizione, perché, se liberata da un certa staticità che potrebbe apparire un blocco concettuale, può indicare che l‘intersezionalità è diventata una dimensione cruciale, anche se forse non ancora egemone ( forse il femminismo sta elaborando una forma di egemonia diversa da quella gramsciana?) , della politica delle sinistre. Insomma, i nostri punti di elaborazione e la disseminazione, non sempre accolta nemmeno in luoghi “compagni”, delle nostre criticità, trovano più spazio che in passato, quantomeno.

Per quanto riguarda le donne in guerra, altro tema con cui ci siamo confrontate varie volte nella nostra rubrica, direi che parlare di una specificità femminile più pacifica per essenza, per una sorta di diritto di nascita che ci rende accudenti e non votate ai conflitti, parlare di donne che non sarebbero votate alla guerra come genere in sé, è un grave errore. Il femminile è un ruolo sociale che prende forma a seconda dei contesti in cui vive o sopravvive, in modo più o meno subalterno al patriarcato. Se c’è bisogno di avere donne in contesti di guerra il patriarco-capitalismo non le risparmia, se c’è bisogno di avere l‘immagine rassicurante della fattrice di figli per la patria il fascismo postmoderno non si fa certo problemi a stimolare in tutti i modi un nostro rientro tra le mura domestiche. I due lati sono l‘aspetto di uno stesso nodo che non è stato risolto: quello della nostra subordinazione ai sistemi ideologici e materiali del patriarcato. Esiste poi il caso di donne che hanno lottato e lottano anche militarmente contro la liberazione da questi sistemi: da Cuba al Kurdistan, alle streghe della notte, le pilote incursore sovietiche che su un biplano scoperto seminavano il terrore nellesercito nazista, importanti in tutte le battaglie sul fronte russo dal ‘42 al ‘45. Esiste poi un caso meravigliosamente complesso e problematico come quello di Simone Weil, con cui concludo il mio intervento. Simone parte per la Spagna nel 36, chiede prima di fare una missione per il POUM dietro le linee nemiche, poi, rifiutata dal POUM, raggiunge l‘Ebro e si aggrega a un gruppo internazionale anarchico legato a Durruti. Partecipa ad alcune azioni di guerra. Scriverà: – I crimini mi facevano orrore, ma non mi sorprendevano; ne sentivo in me stessa la possibilità; anzi è proprio perché ne avvertivo in me la possibilità che mi facevano orrore. – Con questa inquietudine chiudo.

Sulla guerra e sul suo fascino, riflessioni senza pretese

Nicoletta Pirotta

La guerra, dentro i conflitti intercapitalisti volti a ridisegnare poteri e supremazie mondiali, torna a divenire un mezzo di risoluzione dei conflitti, forse addirittura il solo possibile come talune e taluni sostengono. La guerra diviene altresì paradigma delle relazioni sociali: l’enfasi sulla sicurezza che ha prodotto l’orribile decreto , la violenza maschile sulle donne che trova il suo apice nell’aumento esponenziale dei femminicidi. Più che gli aspetti economici, sociali o geopolitici, su cui molti interventi si sono ampiamente concentrati, volevo condividere con voi alcune riflessioni che riguardano quel che potremmo definire “il fascino discreto della guerra”. Un fascino che torna ad aleggiare nella società europea. Com’è possibile che dopo aver ampiamente dimostrato che la guerra non risolve i problemi si senta ancora il bisogno, nel terzo millennio, di farvi ricorso? E lo sentano gli uomini tanto quanto le donne. Le donne non sono naturalmente pacifiche come certa vulgata essenzialista vorrebbe farci credere. Molte donne sono state e sono collaboratrici e complici attive a più livelli. L’attuale leadership politica europea, formata in gran parte da donne, considera il ricorso alla guerra non solo possibile ma auspicabile e sostiene politiche a favore degli interventi armati fondate su ferree logiche di contrapposizione noi/loro. Paola Guazzo è intervenuta su questo tema in mattinata e quindi a lei rimando. Le riflessioni che qui propongo traggono spunto da alcuni scritti di Emilio Masina, psicoanalista e psicoterapeuta, e dallo scambio di pensieri (pubblicati in parte sulla rivista settimanale di Tranform!Italia) con Rita Fiorani , psicologa e psicoterapeuta, oltre che cara amica e compagna di strada nel percorso politico femminista. Due aspetti mi sembrano degni di nota. “L’essere umano spesso non ha memoria- scrive Masina- o meglio ha una memoria selettiva che cancella i momenti difficili della sua storia e di quella del mondo. Cerca di buttare dietro le spalle quello che lo ha turbato per non faticare troppo a capirne il senso e le cause”. Benché questo meccanismo rappresenti una sorta di scorciatoia esistenziale in parte fisiologica è bene sottolineare che un eccesso di oblio impedisce di utilizzare il passato per prevedere e organizzare il futuro. Ci si dimentica che le guerre non solo hanno insanguinato il mondo, ma hanno segnato per sempre la vita di chi è sopravvissuto e addirittura le generazioni successive. Le guerre hanno devastato l’ambiente in modo irreparabile (in Vietnam nascono ancora bambini deformi per effetto del napalm!). Vivere all’insaputa di una parte di se stessi o della realtà esterna può giocare brutti scherzi: ciò che si pensava dimenticato ritorna in gioco in maniera improvvisa e destabilizzante. Rita Fiorani chiama in causa il meccanismo della rimozione – intrinseco alle dinamiche inconsce presenti a livello sia individuale sia collettivo – che può arginare o eludere la paura del presente ma, contemporaneamente, può generare mostri:-Quando si agisce o si fa credere di agire in condizioni di emergenza, la possibile invasione dell’Europa come taluni oggi paventano, la sollecitazione emozionale è massima e gli effetti possono essere drammatici.La razionalità rischia di essere travolta e di non fare argine alla tensione angosciosa. Si tende infatti ad appiattire la complessità della realtà su dimensioni estreme dentro logiche binarie : amico/nemico, eroe o disertore, arrendersi o combattere. Le differenze tra fatti e persone sono minimizzate, si procede per ampie generalizzazioni e improvvide sintesi, si interrompe il dialogo con l’altro, e fra parti di sé , la mente entra in una modalità pericolosamente autoritaria che impedisce il “governo” delle emozioni la cui “scarica”può essere incontrollata e incontrollabile. Nel cercare ulteriori stimoli riflessivi, Rita Fiorani mi ha suggerito il carteggio fra Albert Einstein e Sigmund Freud “Perché la guerra?”, datato ma ancora utile. Einstein nel domandarsi perché si senta il bisogno di fare la guerra, riconosce che in questa scelta operano forti fattori psicologici, in particolare il piacere di odiare e di distruggere che l’umanità ha dentro di sé. In tempi normali queste passioni rimangono latenti ma in circostanze eccezionali è facile attizzarle per produrre rabbia, rivolta, violenza. La risposta di Freud è molto articolata (per una visione più ampia vi invito, se volete, a leggere il carteggio) ma in estrema sintesi il fondatore della psicoanalisi sostiene che l’umanità per convivere il più serenamente possibile dovrebbe tenere a bada gli istinti più violenti ed aggressivi. Nell’attuale fase storica che vede l’ascesa della destra più reazionaria molte e molti dei suoi leader, il presidente USA su tutti, fanno leva, non a caso, proprio sugli istinti più primordiali per costruire un consenso fondato sull’odio e sulla paura. Freud conclude il suo ragionamento affermando che tutto ciò che promuove l’evoluzione umana e civile lavora anche contro la guerra.

Si tratta quindi di dirigere l’evoluzione psichica dell’umanità in modo che diventi capace di resistere alla violenza, all’odio e al “desiderio” di distruggere. Come evolverci, anche sul piano psicologico, dentro un frangente storico nel quale pare riaffermarsi uno “spirito guerriero” che alimenta un modello di umanità, specie in occidente, escludente e violento, misogino e razzista? Come far fronte, collettivamente, all’angoscia di fronte al genocidio che insanguina la striscia di Gaza e la Palestina? Certo si deve continuare con ancora più determinazione a costruire pratiche di pace, ma credo ci sarebbe bisogno anche di lavorare, in profondità, su noi stesse e noi stessi.

So bene che nei contesti politici nei quali siamo impegnate questi temi sono difficili da affrontare. D’altro canto la parte migliore del femminismo, specie quello nero e decoloniale, mi ha insegnato che se non si lavora in modo “sano e generativo”, individualmente e collettivamente, sulle paure, sui sentimenti, sulle pulsioni che stanno dentro di noi, difficilmente si potrà cambiare radicalmente l’ordine delle cose.


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