IFE Italia

Capitalismo e disabilità

di Paola Guazzo e Nicoletta Pirotta per Intersezioni Femministe
giovedì 5 giugno 2025

"In questo articolo viene esposta una critica radicale alla dicotomia, data da molti per acquisita, abile versus disabile, che nasce dai processi capitalistici di definizione dei soggetti in quanto forza-lavoro e li alimenta. Si tratta di una messa in discussione potente della creazione stessa della “disabilità” in termini di disfunzionalità rispetto agli assetti in cui si definiscono il mondo di produzione e riproduzione."

Fonte: https://transform-italia.it/capital...

Pubblichiamo questa settimana un articolo di Ester Micalizzi, tratto dal numero di maggio della newsletter femminista “Ghinea”1. In questo articolo viene esposta una critica radicale alla dicotomia, data da molti per acquisita, abile versus disabile, che nasce dai processi capitalistici di definizione dei soggetti in quanto forza-lavoro e li alimenta. Si tratta di una messa in discussione potente della creazione stessa della “disabilità” in termini di disfunzionalità rispetto agli assetti in cui si definiscono il mondo di produzione e riproduzione.

Paola Guazzo e Nicoletta Pirotta

Da quali lavori si può scioperare? Appunti sparsi su disabilità, sciopero e lavoro riproduttivo di Ester Micalizzi

Chiamare lo sciopero femminista per l’8 marzo quest’anno, di sabato, ci pone davanti ad una sfida ulteriore: sappiamo che convocare uno sciopero generale di sabato non è usuale, ma per noi è fondamentale all’interno del processo di risignificazione e riappropriazione della pratica dello sciopero per tutte quelle persone che ne sono sempre state escluse. Con lo sciopero transfemminista vogliamo rendere visibili e dare riconoscimento a tutti quei lavori essenziali, sfruttati, precari, non riconosciuti come tali, e trovare insieme pratiche di lotta che consentano l’astensione dal lavoro – da ogni forma di lavoro, a cominciare da quello di cura nei contesti famigliari, dato per scontato (Appello di NUDM, 2025).

Negli ultimi anni, grazie ai movimenti transfemministi come Non Una di Meno, e alle riflessioni di studiose e militanti femministe come Verónica Gago (2022) lo sciopero è stato risignificato: non più solo strumento sindacale legato al lavoro salariato, ma pratica politica collettiva femminista in grado di rendere visibile l’intreccio profondo tra capitale e riproduzione della vita (Gago, 2022). Scioperare, in questa prospettiva, non significa solo interrompere la produzione capitalista, ma anche sottrarsi all’obbligo della cura, dell’assistenza e della disponibilità emotiva. In questa ridefinizione dello sciopero, diventa allora centrale comprendere cosa si intenda per lavoro riproduttivo e quale sia il suo ruolo nel sistema capitalistico. È in questo contesto che le analisi di Silvia Federici, Mariarosa Dalla Costa e altre femministe marxiste offrono strumenti cruciali (Federici, 2020a; Dalla Costa, 2021). Il lavoro riproduttivo, storicamente femminile, invisibile e non pagato, non è esterno al capitale: ne è il motore nascosto ed è la sua condizione strutturale. Il capitalismo, in questa lettura, non si regge solo sull’estrazione di plusvalore nei luoghi della produzione, ma anche sulla riproduzione quotidiana della forza-lavoro (Federici, 2020a; Dalla Costa, 2021). Il capitalismo non vive solo di fabbriche e uffici: vive anche di cucine, relazioni affettive, assistenza, educazione, maternità e si accumula attraverso i corpi, la loro energia, la loro capacità di cura, la loro riproduzione (Federici, 2020b). Tuttavia, se il lavoro riproduttivo è una condizione strutturale del capitale, non tutti i corpi vi partecipano allo stesso modo. Esistono soggettività che si trovano a occupare una posizione ambivalente: da un lato come destinatarie della cura, dall’altro come lavoratrici del prendersi cura. Nel primo caso, vengono rappresentate come “dipendenti”, “inattive”, soggette a misure di assistenza e controllo. Nel secondo, quando assumono ruoli di caregiver — come accade, ad esempio, tra donne disabilitate che si prendono cura di bambini e di altre persone disabilitate, anziane, e malate — il loro lavoro viene invisibilizzato, sottovalutato o escluso dalle narrazioni dominanti sul lavoro produttivo.

È a questo punto che diventa necessario interrogare le categorie stesse di abilità e disabilità: se il lavoro riproduttivo è essenziale al funzionamento del capitale, chi è riconosciuto come soggetto riproduttivo? Cosa significa scioperare dal lavoro riproduttivo per chi è considerata “incapace” di riprodurre la vita secondo i codici normativi del capitalismo? Da quali lavori possono scioperare quei corpi disabilitati che non rientrano facilmente nei ritmi e nei modelli della produzione di valore? E se, come sostengono Marta Russell (2019) e Nirmala Erevelles (2011), la disabilità non fosse semplicemente una condizione individuale, ma una costruzione sistemica del capitalismo stesso?

L’abilità come proprietà: accumulare valore attraverso il corpo

In Capitalism and Disability (2019), Marta Russell propone una lettura radicale della disabilità all’interno del capitalismo. Per Russell, la disabilità non è una condizione di esclusione, ma una conseguenza necessaria della logica capitalista. Il capitale, per funzionare, ha bisogno di tracciare una linea tra corpi “produttivi” e “improduttivi”, tra chi genera profitto e chi viene considerato un “peso” o uno “scarto”. La disabilità è una categoria creata socialmente, che deriva dai rapporti di lavoro, un prodotto della struttura economica di sfruttamento della società capitalista (Marta Russell, Capitalism and Disability, 2019, p.2). Nella prospettiva marxista proposta da Marta Russell, non ha senso parlare genericamente di “persone disabili”, perché questo linguaggio nasconde il ruolo attivo del sistema economico nel produrre disabilità. È più corretto parlare di persone disabilitate, cioè rese tali da rapporti sociali ed economici che escludono chi non si conforma agli standard imposti dal mercato. La disabilità, in questa visione, è un prodotto del modo di produzione capitalista e diventa un criterio di segregazione della forza lavoro: serve a organizzare, escludere e gestire i corpi improduttivi, cioè quelli che non riescono ad adattarsi agli standard di produttività imposti dal mercato (Russell, 2019).

Anche Nirmala Erevelles, nel suo lavoro su disabilità e globalizzazione, insiste su questo punto: la disabilità è un effetto materiale delle diseguaglianze economiche, e non un’identità culturale da celebrare in modo astratto (Erevelles, 2011). Critica, infatti, l’approccio liberale che riduce la disabilità a una “diversità” da rappresentare positivamente, o a una questione di “inclusione” senza mettere in discussione le strutture che generano e riproducono l’oppressione. Nel suo libro Disability and Difference in Global Contexts (2011), Erevelles mostra come la disabilità sia costituita all’incrocio tra povertà, razzializzazione, genere e collocazione geografica. Le condizioni materiali — guerre, colonialismo, sfruttamento del lavoro minorile, carenza di accesso ai servizi sanitari, disastri ambientali — non solo producono disabilità, ma determinano anche quali disabilità vengono riconosciute e quali vengono invisibilizzate, quali corpi meritano assistenza e quali vengono abbandonati. Ad esempio, nei paesi del Sud globale, molte forme di disabilità emergono da contesti di violenza economica e politica: bambini resi disabili dal lavoro forzato, donne che vivono le conseguenze di una maternità forzata o negata, popolazioni esposte a contaminazioni ambientali. Tuttavia, queste soggettività spesso non entrano nei discorsi mainstream sulla disabilità, che privilegiano modelli occidentali, bianchi, e middle class, focalizzati sull’autonomia individuale e sul diritto all’accessibilità (Erevelles, 2011). Nel capitalismo, il valore non risiede soltanto nei beni, ma anche nei corpi stessi, e nella loro capacità di lavorare, adattarsi, essere efficienti (Russell, 2019). Un corpo che lavora, che si adatta, che performa, che si autodisciplina, non è solo funzionale alla produzione: è esso stesso capitale (Russell, 2019). In questo senso, si parla di abilitazione (Campell, 2019), un meccanismo attraverso cui i corpi vengono continuamente modellati, adattati, corretti e spinti a rispondere agli standard normativi del capitale. L’abilità diventa una proprietà funzionale alla valorizzazione del capitale (Erevelles, 2011): chi la possiede viene valorizzato; chi non rientra in questi standard viene escluso, riabilitato, o relegato alla dipendenza attraverso istituzioni di controllo: medicina, welfare, dispositivi assistenziali. Non è solo una questione di capacità fisica o cognitiva, ma un criterio ideologico costruito per misurare quanto un corpo possa essere messo al lavoro. In questa logica, l’abilità (Erevelles, 2011) è anche una forma di accumulazione primitiva: serve a separare i corpi abilitabili da quelli da scartare, riproducendo costantemente le disuguaglianze necessarie al mantenimento dell’ordine capitalistico. È possibile, allora, pensare l’abilità come il feticcio corporeo della riproduzione sociale (Erevelles, 2011)? Perché il lavoro riproduttivo non richiede solo tempo, energia e fatica: richiede corpi performanti. Corpi abili. Ed è lo sciopero femminista, in questo scenario, a offrire un’interruzione possibile a questo ciclo di abilitazione forzata. Scioperare da questa prospettiva significa anche denunciare il mito dell’autonomia, così centrale nelle narrazioni capitaliste e abiliste. Significa rifiutare l’obbligo di funzionare, di mascherare la fatica, di adattarsi, di essere “positive”, “efficienti”, “resilienti”.

È qui che la lotta femminista e la critica marxista alla disabilità si incontrano radicalmente: entrambe rifiutano di dare il proprio corpo al capitale, alle sue esigenze, ai suoi ritmi.

Nessuna conclusione, solo domande

Le riflessioni che precedono non vogliono offrire risposte definitive, ma aprire uno spazio di interrogazione politica. Il lavoro riproduttivo, in questo quadro, non è solo “cura” ma è produzione di forza-lavoro abile. Le donne disabilitate, nella loro esperienza di alienazione e continua abilitazione, ci obbligano a ridefinire le categorie stesse di lavoro, valore e sciopero. Quest’ultimo può diventare una rottura dei processi che riproducono la soggettività abile. Interrogare lo sciopero da questa posizione significa allora rimettere in discussione non solo la gerarchia dei lavori, le forme attraverso cui il capitale stabilisce cosa ha valore e cosa no, chi lavora e chi è lavorato, ma anche interrogarsi radicalmente sul fatto che il lavoro abbia di per sé valore. In una prospettiva marxista, il lavoro non possiede un valore intrinseco: è il modo di produzione capitalistico a conferirgli centralità in quanto strumento di estrazione di valore. Pensare quindi il lavoro come dotato di valore in sé significa ignorare che il valore non è nel lavoro, ma nella relazione sociale in cui il lavoro è inserito. E che tale relazione, nel capitalismo, è una relazione di sfruttamento, alienazione ed espropriazione L’interrogativo, allora, non può più essere se o come riconoscere “più” lavoro — ma se il lavoro debba ancora essere la misura della nostra esistenza politica e sociale. È in questa prospettiva che la disabilità non va più pensata come un’anomalia da correggere o un’esclusione da riparare, ma come una posizione politica capace di destabilizzare l’intero impianto produttivista. Scioperare significa liberarsi dal lavoro, non solo liberare il lavoro.

Abilità e disabilità non sono categorie stabili. Sono campi di conflitto. Allora c’è da chiedersi: Da quali lavori le soggettività disabili scioperano? Da quali dispositivi ci si sottrae? Da quali aspettative ci si disidentifica?

Alcuni riferimenti chiave:

Campbell, F. K. (2019). Precision ableism: a studies in ableism approach to developing histories of disability and abledment. Rethinking History, 23(2), 138–156. https://doi.org/10.1080/13642529.20... Dalla Costa, M. (2021), Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro, Verona, Ombre Corte, Bologna. Erevelles, N. (2011), Disability and Difference in Global Contexts: Enabling a Transformative Body Politic, Palgrave Macmillan, New York. Federici, S. (2020a), Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista, Ombre Corte, Bologna. Federici, S. (2020b), Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, Milano.

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