IFE Italia

L’epoca delle rivolte borghesi

di Slavoj Zizeck
lunedì 16 aprile 2012

Traduzione di Gigi Cavallo per "Internazionale"

da http://www.fondfranceschi.it/cogito...

Come ha fatto Bill Gates a diventare l’uomo più ricco d’America? La sua ricchezza non ha nulla a che fare con la produzione di software di qualità a prezzi inferiori a quelli della concorrenza o con uno “sfruttamento” più efficace dei suoi dipendenti (la Microsoft paga uno stipendio relativamente alto ai lavoratori intellettuali).

Il software della Microsoft continua a essere comprato da milioni di persone perché è riuscito a imporsi come uno standard quasi universale, monopolizzando in pratica il settore, quasi una personificazione di quello che Marx chiamava “intelletto generale”, riferendosi al sapere collettivo in tutte le sue forme, dalla scienza al know how pratico. Bill Gates ha di fatto privatizzato parte dell’intelletto generale ed è diventato ricco intascando i profitti.

La possibilità di privatizzare l’intelletto generale non era stata prevista da Marx nei suoi scritti sul capitalismo (soprattutto perché ne aveva trascurato la dimensione sociale). Eppure è proprio questo il nocciolo delle dispute odierne sulla proprietà intellettuale: mano a mano che nel capitalismo postindustriale il ruolo dell’intelletto generale – basato sul sapere collettivo e la cooperazione sociale – continua a crescere, la ricchezza si accumula in modo del tutto sproporzionato rispetto al lavoro speso per la sua produzione. Il risultato non è, come sembrava aspettarsi Marx, l’autodissoluzione del capitalismo, ma la graduale trasformazione del profitto generato dallo sfruttamento del lavoro in una rendita ottenuta grazie alla privatizzazione della conoscenza.

Lo stesso è vero per le risorse naturali, il cui sfruttamento è una delle maggiori fonti di rendita del mondo. C’è una lotta permanente su chi debba aggiudicarsi questa rendita, se i cittadini del terzo mondo o le grandi multinazionali occidentali. Paradossalmente, spiegando la differenza tra il lavoro (che nell’uso produce plus­valore) e altre merci (che consumano il loro valore nell’uso), Marx parla proprio del petrolio come esempio di una merce “ordinaria”, il cui consumo diminuisce al crescere del prezzo. Oggi qualunque tentativo di collegare l’aumento e la diminuzione del prezzo del petrolio alla crescita o al calo dei costi di produzione o al costo della manodopera utilizzata non avrebbe senso: i costi di produzione sono trascurabili rispetto al prezzo che paghiamo per il petrolio, un prezzo che in realtà è la rendita di cui i proprietari della risorsa possono disporre grazie alla sua limitata disponibilità.

Una conseguenza dell’aumento di produttività causato dall’impatto, in crescita esponenziale, della conoscenza collettiva è il cambiamento nel ruolo della disoccupazione. È il successo stesso del capitalismo (maggiore efficienza, crescita della produttività) a generare disoccupazione, rendendo inutile un numero sempre maggiore di lavoratori: quella che dovrebbe essere una benedizione – serve meno lavoro usurante – diventa una maledizione. O, per dirla in termini diversi, l’opportunità di essere sfruttati in un lavoro a lungo termine oggi viene percepita come un privilegio.

Il mercato mondiale, come ha osservato Fredric Jameson, è “uno spazio in cui tutti un tempo sono stati lavoratori produttivi e in cui il lavoro ha cominciato dappertutto a essere troppo costoso per il sistema”. Nel processo di globalizzazione capitalistica che stiamo vivendo, la categoria dei disoccupati non è più confinata a quello che Marx chiamava “esercito industriale di riserva”. Comprende anche, come osserva Jameson, “quelle sterminate popolazioni di tutto il mondo che sono state deliberatamente escluse dai progetti modernizzatori del capitalismo del mondo sviluppato e messe da parte come casi disperati”: i cosiddetti stati falliti (Congo, Somalia), vittime della carestie o di disastri ecologici, quelli intrappolati in lotte etniche pseudoarcaiche, al centro delle attenzioni di filantropi e ong, oppure bersagli della guerra al terrore.

La categoria dei disoccupati si è quindi ampliata fino a comprendere una gamma enorme di persone, dai temporaneamente disoccupati ai non più occupabili e permanentemente disoccupati, fino agli abitanti dei ghetti e degli slum (tutti quelli che Marx tendeva a liquidare definendoli “lumpenproletariat”) e a intere popolazioni escluse dal processo capitalistico globale, come gli spazi vuoti nelle mappe antiche.

Alcuni sostengono che questa nuova forma di capitalismo offre nuove possibilità di emancipazione. Questa almeno è la tesi di Moltitudine, di Michael Hardt e Antonio Negri, che cercano di radicalizzare la tesi di Marx secondo cui basterebbe tagliare la testa al capitalismo per ottenere il socialismo. Marx, a loro giudizio, subiva un condizionamento storico: pensava in termini di lavoro industriale centralizzato, automatizzato e gerarchicamente organizzato, quindi per lui l’intelletto generale era qualcosa di simile a un’agenzia centrale di pianificazione.

Solo oggi, con l’affermarsi del “lavoro immateriale”, secondo gli autori è diventato “oggettivamente possibile” un capovolgimento rivoluzionario. Questo lavoro immateriale si estende tra due poli, dal lavoro intellettuale (la produzione di idee, testi, programmi per computer eccetera) al lavoro di cura (come quello svolto da medici, babysitter e assistenti di volo). Oggi il lavoro immateriale è egemonico nel senso in cui Marx affermava che, nel capitalismo dell’ottocento, era egemonica la grande produzione industriale: non s’impone con la forza dei numeri ma svolgendo il ruolo centrale, strutturale ed emblematico. Quello che emerge è un dominio ampio e nuovo, definito “comune”: il sapere condiviso e nuove forme di comunicazione e cooperazione. I prodotti del lavoro immateriale non sono oggetti ma nuove relazioni sociali o interpersonali; la produzione immateriale è biopolitica, è la produzione della vita sociale.

Hardt e Negri descrivono il processo che gli ideologi dell’attuale capitalismo postmoderno celebrano come il passaggio dalla produzione materiale a quella simbolica, dalla logica centralistico-gerarchica a quella dell’auto-organizzazione e della cooperazione multicentrica. La differenza è che Hardt e Negri sono fedeli a Marx: cercano di dimostrare che aveva ragione, che l’emergere dell’intelletto generale a lungo termine è incompatibile con il capitalismo. Gli ideologi del capitalismo postmoderno sostengono esattamente il contrario: la teoria (e la pratica) marxista, affermano, rimane nei limiti della logica gerarchica del controllo statale centralizzato, quindi non può misurarsi con gli effetti sociali della rivoluzione dell’informazione.

Ci sono buone ragioni empiriche a supporto di questa tesi: quello che di fatto ha condannato i regimi comunisti è stata la loro incapacità di adattarsi alla nuova logica sociale. Cercarono di governarla, di farne l’ennesimo progetto di pianificazione statale centralizzata su larga scala. Il paradosso è che ciò che Hardt e Negri celebrano come un’opportunità per superare il capitalismo viene celebrato dagli ideologi della rivoluzione dell’informazione come l’ascesa di un nuovo capitalismo “senza attriti”. L’analisi di Hardt e Negri ha alcuni punti deboli che ci aiutano a capire come il capitalismo sia riuscito a sopravvivere a quella che (nei classici termini marxisti) avrebbe dovuto essere una nuova organizzazione della produzione che lo rendeva obsoleto. I due studiosi sottovalutano la portata del successo del capitalismo di oggi nel privatizzare l’intelletto generale, così come il fatto che gli stessi operai, più della borghesia, stanno diventando superflui (sono sempre di più i lavoratori che si trovano a essere non solo temporaneamente disoccupati, ma strutturalmente non occupabili).

Se idealmente il vecchio capitalismo presupponeva un imprenditore pronto a investire denaro (suo o preso in prestito) nella produzione che egli stesso organizzava e dirigeva per incassare un profitto, oggi si sta affermando un nuovo modello: non più l’imprenditore che possiede l’impresa, ma il manager esperto (o un consiglio di manager presieduto da un amministratore delegato) che dirige un’impresa in mano alle banche (a loro volta guidate da manager che non ne sono proprietari) o a singoli investitori. In questo nuovo tipo ideale di capitalismo, la vecchia borghesia, diventata non funzionale, acquista una nuova funzionalità in quanto management salariato: gli esponenti della nuova borghesia percepiscono un salario, e anche se possiedono parte della loro impresa, ricevono azioni come integrazione del loro compenso (“premi” per il loro “successo”).

Questa nuova borghesia continua ad appropriarsi del plusvalore, ma nella forma (mistificata) di quello che è stato definito “plus-salario”: sono pagati molto più del salario minimo proletario (un punto di riferimento puramente mitico, il cui unico esempio reale nell’odierna economia globale è il salario degli operai sfruttati nelle fabbriche in Cina o in Indonesia), ed è questa differenza rispetto ai proletari comuni a determinare il loro status. La borghesia in senso classico tende quindi a scomparire: i capitalisti ricompaiono come un sottoinsieme di lavoratori salariati, manager abilitati a guadagnare di più in virtù della loro competenza (ed è per questo motivo che la “valutazione” pseudoscientifica diventa cruciale: legittima le disparità). La categoria dei lavoratori che guadagnano un plus-salario non si limita certo ai manager, ma si estende a ogni genere di esperti, amministratori, dipendenti pubblici, medici, avvocati, giornalisti, intellettuali e artisti. Il “plus” assume due forme: più soldi (per i manager e simili), ma anche meno lavoro e più tempo libero (per alcuni intellettuali, ma anche per amministratori statali eccetera).

Il processo valutativo usato per decidere quali lavoratori debbano ricevere un plus-salario è un meccanismo arbitrario del potere e dell’ideologia, senza nessun serio rapporto con la vera competenza. Il plus-salario non esiste per ragioni economiche, ma per motivi politici: serve per mantenere una “classe media” in funzione della stabilità sociale. L’arbitrarietà della gerarchia sociale non è un errore, ma il vero punto della questione, e l’arbitrarietà della valutazione svolge un ruolo analogo all’arbitrarietà del successo di mercato. La violenza minaccia di esplodere non quando c’è troppa contingenza nello spazio sociale, ma quando si cerca di eliminarla.

In La marque du sacré Jean-Pierre Dupuy definisce la gerarchia come una delle quattro procedure (“dispositivi simbolici”) utilizzate per rendere non umiliante il rapporto di superiorità: la gerarchia (un ordine imposto dall’esterno che mi consente di percepire la mia condizione sociale inferiore come indipendente dal mio valore personale); la demistificazione (il procedimento ideologico che dimostra come la società non sia una meritocrazia ma il prodotto di oggettive lotte sociali, consentendomi così di evitare la dolorosa conclusione che la superiorità di qualcuno sia il risultato del suo merito e dei suoi risultati); la contingenza (un meccanismo simile, che ci consente di capire come la nostra posizione nella scala sociale dipenda da una lotteria naturale e sociale: i fortunati sono quelli nati con i geni giusti in famiglie ricche); e la complessità (forze incontrollabili hanno conseguenze imprevedibili: per esempio, la mano invisibile del mercato può portare al mio fallimento e al successo del mio vicino, anche se io lavoro molto di più e sono molto più intelligente).

Malgrado le apparenze, questi meccanismi non contestano o minacciano la gerarchia, ma la rendono accettabile, perché “a scatenare l’invidia è l’idea che l’altro meriti la sua fortuna e non l’idea opposta, l’unica che può essere espressa apertamente”. Da questa premessa Dupuy giunge alla conclusione che sia profondamente sbagliato credere che una società ragionevolmente giusta, e che si percepisce come giusta, possa essere priva di rancore: al contrario, è proprio in società di questo tipo che chi occupa posizioni inferiori darà sfogo al suo orgoglio ferito con violente esplosioni di risentimento.

A questo fenomeno è collegata l’impasse in cui si trova la Cina di oggi: l’obiettivo ideale delle riforme di Deng Xiaoping era introdurre il capitalismo senza la borghesia (perché sarebbe diventata la nuova classe dirigente). Ma ora i leader cinesi fanno i conti con la dolorosa scoperta che il capitalismo senza la solida gerarchia resa possibile dall’esistenza di una borghesia genera un’instabilità permanente. E allora che strada prenderà la Cina? Gli ex comunisti si stanno dimostrando i manager più efficienti del capitalismo perché la loro inimicizia storica nei confronti della borghesia in quanto classe si adatta perfettamente alla tendenza del capitalismo attuale di diventare un capitalismo manageriale senza borghesia – in entrambi i casi, come disse Stalin molto tempo fa, “i quadri decidono tutto” (una differenza interessante tra la Cina e la Russia di oggi: in Russia i professori universitari sono sottopagati in modo ridicolo – in realtà fanno già parte del proletariato – mentre in Cina hanno un confortevole plus-salario che garantisce la loro docilità).

L’idea del plus-salario getta nuova luce anche sulle persistenti proteste “anticapitalistiche”. In tempi di crisi, i primi candidati a stringere la cinghia sono i livelli più bassi della borghesia salariata: la protesta politica è l’unica strada possibile se vogliono evitare di unirsi al proletariato. Anche se le loro proteste a parole sono rivolte contro la logica brutale del mercato, di fatto protestano per la graduale erosione della loro posizione economica politicamente privilegiata.

Nella Rivolta di Atlante, Ayn Rand immagina uno sciopero di capitalisti “creativi”, una fantasia che trova la sua realizzazione perversa negli scioperi di oggi, molti dei quali hanno come protagonista una borghesia salariata mossa dal timore di perdere i suoi plus-salari. Queste non sono proteste proletarie, ma contro la minaccia di essere ridotti allo status di proletari. Chi osa scioperare oggi, quando avere un lavoro stabile è di per sé un privilegio? Non gli operai malpagati in (quello che rimane delle) fabbriche tessili o posti simili, ma quei lavoratori privilegiati che hanno posti garantiti: insegnanti, operatori del trasporto pubblico, poliziotti. Questo spiega anche l’ondata di proteste degli studenti: la loro motivazione principale è presumibilmente la paura che in futuro l’istruzione superiore non garantisca più un plus-salario.

Allo stesso tempo è chiaro che l’enorme ondata di proteste dell’anno scorso, dalla primavera araba all’Europa occidentale, da Occupy Wall street alla Cina, dalla Spagna alla Grecia, non dovrebbe essere liquidata semplicemente come una rivolta della borghesia salariata. Ogni caso va considerato a sé. Le proteste studentesche contro la riforma dell’università in Gran Bretagna erano chiaramente diverse dagli scontri di agosto, che sono stati una sagra consumista di distruzione, una vera esplosione degli esclusi.

Si potrebbe sostenere che la sollevazione in Egitto sia cominciata in parte come rivolta della borghesia salariata (con i giovani istruiti che manifestavano per la loro mancanza di prospettive), ma questo è stato solo un aspetto di una più ampia ribellione contro un regime oppressivo. D’altra parte, la protesta non ha comportato una vera mobilitazione degli operai e dei contadini poveri, e la vittoria elettorale degli islamisti rende evidente la limitata base sociale dell’originale protesta laica. La Grecia è un caso speciale: negli ultimi decenni si è creata una nuova borghesia salariata (soprattutto nella pachidermica amministrazione statale) grazie agli aiuti finanziari dell’Unione europea, e le proteste sono state motivate in larga misura dalla minaccia che tutto questo possa finire.

Alla proletarizzazione della piccola borghesia salariata si accompagna all’estremo opposto la remunerazione irrazionalmente alta dei top manager e dei grandi banchieri (irrazionale perché tende a essere inversamente proporzionale al successo di un’azienda). Invece di sottoporre queste tendenze a una critica moralistica, dovremmo leggerle come segnali del fatto che il sistema capitalistico non è più capace di garantire una stabilità autoregolamentata. Rischia, in altre parole, di sfuggire al controllo.


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