IFE Italia

Guerra alla guerra: le donne nella resistenza italiana

di Laura Coci, dell’ANPI di Lodi
martedì 24 aprile 2012

25 aprile : festa della liberazione dal nazifascismo

Mentre ci preoccupano i 6 milioni e mezzo di voti ottenuti, nelle elezioni presidenziali in Francia, dalla candidata della destra più reazionaria, ci dà speranza ricordare la storia delle donne partigiane che hanno lottato a fianco degli uomini per regalare a loro stesse e a noi tutte un futuro differente.

dal sito http://www.universitadelledonne.it/...

Immagine tratta da: Adolfo Mignemi (a cura di), Storia fotografica della Resistenza, Bollati Boringhieri, 2003

Le donne della Resistenza per la pace. Il tema rimanda alla scelta delle donne.

Io non credo nel determinismo biologico, non credo che le donne siano dalla parte della pace per natura, semplicemente in quanto donne, ma che lo siano in quanto donne democratiche.

Le donne sono dalla parte della pace (e della storia) per scelta, una scelta che riguarda donne e uomini, nell’Italia del 1943, una scelta determinante non solo per il presente, ma anche, soprattutto, per il futuro, per chi, incolpevole, subirà non le intenzioni, ma gli effetti delle azioni compiute.

“Allora c’è la storia – scrive Italo Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno - C’è che noi, la storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo oltre venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi”.

La scelta per la storia, per “un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”, è la scelta per la pace.

La guerra delle donne inizia l’8 settembre del ‘43: non è guerra di aggressione (o umanitaria, o preventiva) ma di resistenza, resistenza civile e resistenza partigiana, senza armi e con le armi. Parlerò di entrambe.

Non che prima le donne non conoscessero la guerra: dal ‘40, da oltre tre anni, conoscono fame e stenti, dolore e lutti. Per le donne ebree, poi, la guerra è iniziata ancora prima, nel ‘38, con le leggi razziali.

“Speravo che malgrado tutto le cose sarebbero andate bene, che la guerra sarebbe finita presto […] che, dissipato l’incubo, la vita avrebbe ripreso un ritmo di pace” scrive Giuliana Gadola Beltrami: è l’illusione seguita al 25 luglio, alla caduta del fascismo, è soprattutto la speranza e l’attesa della fine della guerra, e della pace, che si coniuga a “una volontà di lavorare, di far qualcosa, qualunque cosa, meglio che mai”.

L’8 settembre, rifiutando la legalità fascista in nome di ben altra idea di legittimità (perché è immorale far pagare alle popolazioni prezzi così alti in termini di rischi e sofferenze) le donne danno vita a una grandissima operazione di salvataggio, il salvataggio dei soldati italiani sbandati. Quanto vale la vita di un ufficiale, di un soldato, in divisa grigia? Ecco, allora, che le donne svestono e rivestono i giovani uomini di ritorno dai fronti, occultano divise militari e reperiscono, confezionano, fanno indossare abiti civili ai “ragazzi”, figli reali e simbolici, figli che non si fanno per darli al fascismo, per mandarli a morire in guerra

“Ricordo che la mamma diede abiti civili a un soldato inglese: lo aiutò perché pensava che come faceva lei, così altre avrebbero forse aiutato i suoi figli” racconta Giovanna Patrini.

Le donne portano a compimento una gigantesca opera di travestimento, maternale, che esalta il loro ruolo di madri, che curano e consolano (così è, per esempio, per “Mamma Agnese”, la protagonista dell’Agnese va a morire di Renata Viganò). Ed è una maternità collettiva, portatrice di pace, di cui gli uomini sono ben consapevoli: “Le donne pareva che volessero coprirci con le sottane: qualcuna più o meno ci provò” scrive Luigi Meneghello nei Piccoli maestri.

Da subito la Resistenza delle donne si articola nelle due modalità, senza armi e con le armi. Scrive Anna Bravo che “è resistenza civile quando si tenta di impedire la distruzione di cose e beni ritenuti essenziali per il dopo, o ci si sforza di contenere la violenza intercedendo presso i tedeschi, ammonendo i resistenti perché Non bisogna ridursi come loro, quando si dà assistenza in varie forme a partigiani, militanti in clandestinità, popolazioni, o si agisce per isolare moralmente il nemico; quando si sciopera per la pace o si rallenta la produzione per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali da parte dell’occupante; quando ci si fa carico del destino di estranei e sconosciuti, sfamando, proteggendo, nascondendo qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra”.

Privilegiando questa lettura (Resistenza civile e Resistenza armata), le donne contribuiscono alla Liberazione in numero elevato. Certo – come sappiamo - le donne scompaiono quando nella lingua italiana si declina al maschile: e già negli scioperi del marzo ‘43, dietro al termine “operai” arrestati e condannati si scopre che ci sono, anche in maggioranza, donne.

Ne sono consapevoli i Gruppi di difesa della donna, che non mancano di rivendicare la titolarità delle azioni e la presenza pubblica delle donne, che non sono soltanto mogli, madri, sorelle di partigiani: sono le prime a scendere in piazza, sono quelle che urlano più forte: per l’aumento del salario, per il ritorno dei figli dal fronte, per dire basta guerra. Le parole d’ordine dei grandi scioperi di cui abbiamo ricordato da pochi giorni il cinquantennale sono pace, pane, libertà. Pace, prima di tutto, come condizione necessaria a instaurare benessere e democrazia.

Se gli uomini danno vita a due eserciti, uno in parte volontario, l’altro frutto della più grande diserzione di massa, altrettanto fanno le donne. Le donne non hanno il problema di sfuggire all’arruolamento forzato di Salò: tanto le partigiane quanto le ausiliarie compiono una scelta incondizionata, “gratuita”: le une per “un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”, le altre per “ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio”. Le donne della Resistenza per la pace, le donne di Salò per le città in macerie, le macellerie coloniali, i campi di sterminio.

Vi è grande consapevolezza nella scelta, anche se talvolta essa appare dissimulata nella casualità, nella noncuranza. L’8 settembre, a Roma, alla madre che le chiede “Ma che ci va a fare una donna?”, Carla Capponi risponde che “Donne e uomini sono tutti utili”.

Per le donne la scelta delle armi è sempre dolorosa (alcune non la compiono), ma talvolta ineludibile. Il rapporto con le armi passa attraverso un sentimento di rivolta: è quel quando è troppo è troppo che leggiamo in più di una memoria, è l’ingiustizia divenuta intollerabile, è l’urgenza di porre fine al fascismo e alla guerra.

Utilizzando le armi, le donne invadono il ruolo maschile (perché le armi sono pensate dagli uomini per gli uomini), ma non ne fanno un oggetto di presunzione, bensì di estrema necessità, in una contingenza storica eccezionale. “Non mi è mai piaciuto vedere gli altri cadere, anche se erano il nemico”, scrive Laura Perseghettini, e “Non è per odio per nessuno che si deve fare”, dice Filippo Beltrami a Giuliana, che nell’immaginario popolare diviene leggendaria quanto il marito: “con una raffica di mitra la Signora ha ucciso sei tedeschi” sente dire di sé, in treno, dopo la morte di lui.

La contingenza storica è eccezionale: non è in gioco la sensatezza e la necessità dell’uso delle armi e neppure stupisce il contributo di donne in armi.

Con alcuni distinguo: l’assenza di odio, per esempio, che è un tratto importantissimo, così come la partecipazione al dolore delle vittime incolpevoli.

Nell’agosto del ‘43 Carla Capponi incontra un giovane soldato nazista a Ostia: lui le mostra le foto di famiglia e tra queste la propria foto in posa con un partigiano russo impiccato: lei ricorderà sempre la sensazione di orrore che fa “soffrire indicibilmente”, alla quale si aggiungono altri ricordi intollerabili, come quello del rastrellamento degli ebrei del ghetto romano, nell’ottobre

“Fu alla stazione Tiburtina che il diciassette alle cinque del pomeriggio, partirono diciotto vagoni piombati dentro ai quali era anche una bimba, nata durante la notte… Pensare a quella madre giovanissima con la sua piccola creatura nuda, nel lungo viaggio verso le camere a gas, divenne per me un assillo che mi tormentò ogni qualvolta dovevo intraprendere un’azione contro gli aguzzini tedeschi e i loro alleati fascisti”; o la memoria di Teresa Gullace, la donna romana uccisa davanti alla caserma di viale Giulio Cesare, dove si trovava il marito in attesa della deportazione, che ha ispirato il memorabile personaggio di Nina in Roma città aperta; o ancora il ricordo delle dieci donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella abbattute “come si ammazzano le bestie al mattatoio” perché avevano preso pane e farina da un forno, per sfamare i figli.

Ebbene, a che pensa Carla Capponi (che è, evidentemente, una partigiana in armi esemplare) prima dell’attentato di via Rasella? “Avevo bisogno di ritrovare tutte le ragioni che mi portavano a compiere quell’attacco… Malgrado questi pensieri il mio animo era distante, e nel pensare a quei soldati non riuscivo a provare odio… Mi tornava alla mente la disperata difesa della donna ebrea a cui avevano saccheggiato il negozio e che avrebbero ucciso; mi sentivo parte di quella tragedia come se avessi vissuto in prima persona lo sterminio. Per tutti coloro che avevano sofferto ed erano morti ingiustamente, che erano ingiustamente perseguitati, per loro dovevo battermi”. Usare le armi, sì, ma per porre fine alla guerra, per avere finalmente la pace.

Altro distinguo forte e significativo è la pietas: Ada Gobetti cerca il turbamento sul viso del figlio davanti alla morte del nemico (guai, se non ci fosse) e Vitalina Lassandro, a proposito delle uccisioni, afferma che “non avere disgusto di queste cose significherebbe non avere sensibilità neanche per il bene”.

La Resistenza delle donne si declina, dunque, sia senza armi sia con le armi: due modalità che non sono separabili, che sono concepite all’interno di una scelta comune, che rendono ragione - tra l’altro - della vittoria della Resistenza. Due modalità che hanno per unico fine la libertà e la pace.

Dopo la guerra le donne hanno mantenuto la memoria, molti uomini, invece, sono ammutoliti (“Mio nonno taceva e piangeva, mia nonna parlava e raccontava”, quasi fossero Francesca e Paolo, scrive la giovane Emilia Rancati): l’indicibile, spesso, è stato detto dalle donne.

Non è casuale che siano le donne dell’ANPI a chiedere pace in questo 8 marzo: chi ha conosciuto la guerra teme troppo il suo ripetersi, non soltanto per sé, ma per gli altri uomini e donne.

L’8 marzo del ‘45, nell’Italia occupata, i Gruppi di difesa della donna rivendicavano il diritto non alla festa della donna, ma alla Giornata internazionale delle donne, che era celebrata in tutti i paesi liberi, e che invece nella parte d’Italia oppressa dall’occupante nazifascista era commemorata ancora illegalmente (l’interruzione durava, di fatto, dal primo dopoguerra, per la lunga frattura del fascismo): sapremo però ugualmente, come abbiamo dimostrato in molte altre occasioni, affermare la nostra volontà di farla finita con la guerra, dichiaravano le donne nel volantino distribuito clandestinamente quel giorno.

Che sia di buon augurio, e che a noi pure, figlie di quelle madri simboliche, vostre figlie, sia dato di farla finita con la guerra, di affermare le ragioni della pace.

Laura Coci fa parte del direttivo provinciale dell’Anpi di Lodi; ha pronunciato questo discorso il 9 marzo 2003 a Milano


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