IFE Italia

Se il mio corpo sono io, il mio corpo sono il mondo.

di Nicoletta Gini
lunedì 14 maggio 2012

"Non può più bastare il dire “il corpo è mio” perché questa fondamentale e storica rivendicazione mantiene una semantica capitalistica nell’affermare che ho diritto di scelta su qualcosa che è in mio possesso. Se mi vendo, il mio corpo non è più mio: divento possesso di chi mi ha comprato, protettore o presidente del consiglio d’amministrazione" ....

"E cosa v’è di sorprendente in ciò?...Tutti gli esseri circolano gli uni negli altri, e per conseguenza tutte le specie … tutto è un flusso perpetuo … Ogni animale è più o meno uomo; ogni minerale è più o meno pianta; ogni pianta è più o meno animale. Non c’è nulla di perfettamente distinto in natura " Diderot D., Il sogno di D’Alembert

Un terremoto è un aborto. Non è un modo per dire che l’aborto è un terremoto che sconquassa la vita di una donna. Questa sarebbe una banale affermazione che osserverebbe di nuovo l’interruzione volontaria di gravidanza dal punto di vista di un ordine sociale che pensa la maternità come senso innato della donna, e il terremoto per gli effetti che ha sul genere umano.

Al contrario un terremoto è qualcosa che fa parte del processo terrestre e che l’umanità non riesce a ricomprendere nel suo orizzonte. E’ un avvenimento il cui senso non è intellegibile all’essere umano che non può non percepirlo come tragedia per la sua specie.

Allo stesso modo l’aborto è qualcosa di incomprensibile nell’orizzonte dell’assolutismo culturale maschilista, per cui la donna è intrinsecamente madre dal momento che la forma del suo corpo è atta a tale fine. L’aborto corrisponde alla scelta di una donna che rifiuta quel finalismo. E’ la donna che si fa nel suo processo di scelta.

Il maschile è un frammento dell’umanità che gioca a parlare per tutta l’umanità; l’umanità è un frammento del mondo che pretende di decidere del mondo.

Ripensare l’umanità in una prospettiva femminista significa rifondare la relazione conflittuale tra essere umano e natura, tra il vanitoso protagonista del dramma della storia e una scenografia che potentemente si riprende la scena. Abbiamo bisogno di ripartire da noi, la specie umana che ha la certezza della sua sopravvivenza solo in questo ecosistema, per ritornare al mondo.

La natura è storicamente il nesso tra l’essere donna e la femminilità.

La donna è l’essere vivente che rappresenta l’uomo nel suo grado meno perfetto, soggetta alla legge ciclica della natura, la stessa che regola il mondo animale, che la fa somigliare alla fertilità della “madre terra”.

Il conflitto di potere tra uomo e donna è così la metafora di quello tra uomo e natura.

L’uomo è l’animale posto al vertice della piramide degli esseri viventi – piramide immaginata dall’uomo stesso, ma santificata in nome della sua superiorità - ma la donna, come essere umano, è il genere di umanità vincolato alle leggi di natura, sempre identica a sé, nel suo svolgersi, riprodursi e ritornare a sé. “La donna, come l’uomo, è il suo corpo, ma il suo corpo è altro da lei”: il corpo della donna è la fortezza della specie umana, è l’uomo considerato nella sua conservazione e nel suo riprodursi come specie animale. Versante naturale e immanente dell’essere umano, non è soggetto della storia, non agisce la storia, allo stesso modo in cui la natura non può narrarsi in maniera biografica, ma è costretta, nell’immaginario dell’uomo, a un ripetersi infinito e sempre uguale.

La donna esilia il suo essere individuo che si rigenera nel suo raccontarsi. E’ ciclico ripetersi nella mestruazione mensile, nella gravidanza e nella menopausa. L’essere madre è il suo destino di strumento della specie. La sua finalità di vivente che, come tale, si realizza nel sacrificare la sua individualità alla tirannia della specie. Missione connaturata all’esistere.

Rivendicare che il corpo della donna non è “altro da lei”, significa riporre il baricentro dell’essere persona della donna proprio nel suo vivere. La donna, come l’uomo, è il suo corpo: è l’essere corporeità del suo agire e del suo essere agita. La donna è chiamata a ripensare il suo stesso corpo per ripensare il mondo.

Non può più bastare il dire “il corpo è mio” perché questa fondamentale e storica rivendicazione mantiene una semantica capitalistica nell’affermare che ho diritto di scelta su qualcosa che è in mio possesso. Se mi vendo, il mio corpo non è più mio: divento possesso di chi mi ha comprato, protettore o presidente del consiglio d’amministrazione.

Nel riaffermare l’essere corporeità di ognuna/o e l’essere il proprio corpo- e non più l’essere possessore del mio corpo-, il femminismo segna la fine di ogni sfruttamento: non più sfruttamento ma consapevolezza del fatto che il prodotto del nostro lavoro è lo specchio di noi stesse/i.

La forte spinta a riflettere sul diritto all’autodeterminazione è l’invito a fare del corpo lo spazio della materialità delle nostre scelte. E’ la consapevolezza che “la scintilla vitale non è racchiusa in nessuno dei due gameti, ma scaturisce dal loro incontro”. L’autodeterminazione è la volontà di aprirsi al mondo, in modo comunicativo, diluito, di un essere umano che sa di essere una cosa tra le cose. L’autodeterminazione è sentire che il proprio corpo non è il limite esterno di una potenza intellettuale illimitata, è capire che “se il corpo non è una «cosa», è una situazione; è il nostro modo di far presa sul mondo, l’abbozzo su cui fondiamo le nostre finalità”.

La finalità che ci suggerisce Simone de Beauvoir non può non essere la realizzazione di una qualità di vita misurata sui nostri desideri: è in questo senso che vogliamo intendere la salute, non in relazione alle aspettative di un ordine sociale che marginalizza le differenze fisiologiche, economiche e sociali, come periferie per cui crea un apparato assistenzialistico incapace di promuovere il libero sviluppo di ognuno.

Ma non possiamo né vogliamo intendere i desideri in un’ottica capitalista, di una democrazia confusa con l’individualismo più irresponsabile, dove il paradigma delle relazioni è quello del mercato, del continuo rapportarsi a ciò che è altro da sé, mantenendo noi stessi e i nostri bisogni come baricentro delle relazioni.

Ogni specificità del mondo non umano, come la donna, non è circolarità ininterrotta e sempre uguale a sé: è un narrarsi biografico di cui l’umanità costituisce alcune lettere. Saper leggere il libro del mondo è saper immergersi nel nostro esserne parte come corpi tra altri corpi.

La prospettiva che accettiamo è quella in cui l’essere umano vive nei e dei processi ecologici, sfrega il suo corpo con tutto il resto del mondo, fino a che, fondendosi, i limiti diventano labili e l’essere umano si comprende come un vivente collocato tra viventi in un contesto che pulsa delle scintille dei loro incontri: “Tutto stimola me e io stimolo il tutto”.

La proposta politica è nella necessità di comprendere che curare il mondo significa curare se stessi come esseri che sono contestualmente il mondo. Il pensiero che ne consegue esilia il dogmatismo giustificatore e lascia alla libertà lo spazio vitale della responsabilità di ognuno nel suo essere lo specchio di tutto.


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