IFE Italia

Occhi e mani di donna

di Rosangela Pesenti
martedì 12 giugno 2012

in MAREA, Prendi i soldi e scappa, n. 2/2012

http://www.mareaonline.it/

Ho deciso di riproporre in questo numero di Marea un testo pubblicato molti anni fa. Nel 1997 a Bergamo con la Convenzione delle donne, che avevo contribuito a fondare, abbiamo proposto un percorso di quattro incontri dal titolo “L’economia mondiale con occhi e mani di donna”. Le relatrici erano Lidia Menapace, Paola Melchiori, Lidia Campagnano, Sylvie Coyaud. A me toccò la prima relazione. A quel tempo ero una giovane dirigente nazionale dell’Udi, dove operavo nel Gruppo Scienza della Vita Quotidiana, nato dall’intuizione di Lidia Menapace, col quale avevamo già organizzato tre convegni, tra il 1991 e il 1993, sulla creatività politica delle donne in relazione all’habitat, all’abitare, all’abitudine, oltre al seminario su La scuola smemorata (delle donne e della cultura del femminismo).

Ricordo questi dettagli perché, come abbiamo imparato allora proprio da Lidia Menapace, ciò che non viene ricordato non diventa degno di memoria. Sono stati anni fecondi di idee e progetti, in totale controtendenza rispetto ad un femminismo, per la verità un po’ provinciale, che proclamava la morte del patriarcato e la libertà delle donne come dimensione della coscienza, fondamentale certamente, ma dentro la complessità delle vite che conoscevano, e ancora conoscono oggi, violenze, mortificazioni, cancellazioni.

Quando si era trattato di curare la pubblicazione avevamo deciso di non aggiungere nulla alle sbobinature, perciò non lo faccio nemmeno ora, anche se molto ho pensato e approfondito su questi temi. Molte cose sono cambiate, chi è giovane non ricorda Chernobyl e Christa Wolf purtroppo se n’è andata. Il suo pensiero ci ha soccorse nei momenti cruciali e ora ci manca. Molte cose invece sono uguali, solo peggiorate a tal punto che ora sono sotto gli occhi di tutti e ci si appella alle mani delle donne per salvare il mondo. Non lo farei gratuitamente, né in silenzio, voglio uno scambio equo e un cambiamento epocale. Noi che conosciamo la legge della casa possiamo agire in tempo, dentro il nostro tempo che è adesso.

(Da L’economia mondiale con occhi e mani di donna, Fondazione Serughetti, Centro Studi e Documentazione La Porta, Bergamo 1998)

Primo incontro:

ALLE SOGLIE DEL 2000: PROGRESSO ILLIMITATO O FALLIMENTO DI QUESTA CIVILTA’

Relazione di Rosangela Pesenti

Innanzi tutto non sono un’economista, non sono cioè una studiosa né un’insegnante di economia ma, com’è accaduto a molte donne che hanno vissuto la passione politica del femminismo, l’economia ha necessariamente incrociato la mia strada per vari motivi: prima di tutto perché sono cruciali nella mia vita, come in quella di molte donne, le questioni del lavoro e del rapporto tra bisogni, consumi, desideri e risorse a disposizione e in secondo luogo per la caratteristica pervasiva che hanno assunto le comunicazioni relative all’andamento dell’economia nella vita quotidiana. Il linguaggio economico è il nuovo “latinorum” di questa fine secolo, ci accompagna in ogni edizione del telegiornale insieme ai massacri quotidiani e al calcio, segnando il nostro immaginario con una costellazione di inquietudini racchiuse in termini di cui pochissimi conoscono il significato. L’occasione di tenere la lezione d’apertura di questo corso mi consente una certa libertà di movimento intorno alla domanda posta al centro della serata. La domanda pone un’alternativa, “progresso illimitato o fallimento di questa civiltà ?”, oscilla cioè tra ottimismo e catastrofe, rispecchiando l’oscillazione storica delle nostre percezioni. Se c’è stato un tempo, infatti, nel quale l’accesso al benessere attraverso l’allargamento del mercato e dei consumi ci ha dato l’illusione di una modificazione irreversibilmente positiva del nostro modo di vivere, la conoscenza dello scenario mondiale entro il quale si muovono anche le nostre vite ci ha posti di fronte ai costi drammatici di un modello di sviluppo insostenibile per il pianeta e che non promette la stessa possibilità e qualità di futuro a tutti e tutte. Uso il termine scenario non per seguire una moda linguistica, ma per il significato stesso della parola, che indica la rappresentazione della realtà disegnata quotidianamente dai mezzi di comunicazione: alle immagini delle catastrofi (guerre, stragi, inquinamenti, bambini laceri e affamati, territori distrutti...) si succedono le minuziose informazioni relative ai tassi di sconto, il mercato dei cambi, l’indice Mib, i parametri di Maastricht: un’economia di carta, la cui vera natura viene nascosta dai tecnicismi di un linguaggio incomprensibile ai più e, insieme, le immagini crude di tragedie che ci vengono presentate nel loro esito finale, per salvaguardare la pace delle nostre coscienze con la certezza dell’impotenza. Progresso economico e catastrofe si presentano quindi a noi nella forma di un’icona di cui non sappiamo decifrare il mistero, immagine piatta e astorica in cui si confondono le leggi dell’economia e quelle della natura, immagine che ci convince alla passività evocando paure irrazionali e ingestibili. Mi sembra importante perciò prima di tutto conoscere, decodificare le parole e le immagini, porre tutte le domande possibili. Se la conoscenza è una mappa, che di volta in volta disegniamo in modo sempre più preciso per poterci muovere agevolmente nel territorio della vita, per quanto riguarda l’economia del mondo conviene accantonare le mappe consuete, sulle quali non sappiamo riconoscere gli indicatori utili, per muoverci coraggiosamente solo con la bussola. Ci siamo abituati a studiare accuratamente le mappe e tra l’altro l’economia mi sembra una materia fin troppo mappata, in cui ogni punto è già rigidamente definito. Ci siamo abituati a studiare queste mappe così rigidamente definite senza domandarci se siano davvero rispondenti al territorio. D’altro canto sappiamo che la differenza tra mappa e territorio implica conseguenze ben più importanti del semplice mutamento di sguardo, di punto di vista. Affidarci a una bussola significa allora non rinunciare alla propria soggettività, significa punteggiare la mappa, di cui siamo in possesso, di punti interrogativi che ci consentano di immaginare nuove strade. Uso la metafora della bussola perché penso possa essere utile in questo momento partire con uno strumento leggero, ma affidabile: se l’economia, nel suo significato più conosciuto e condiviso, è la scienza che si occupa della produzione e distribuzione della ricchezza, i punti cardinali che dobbiamo tenere come costante riferimento sono certamente i soggetti, le risorse, il tempo e lo spazio, le coordinate concrete dentro le quali si muove la vita di ogni essere umano su questo pianeta. Non come economista quindi, ma come donna mi sento profondamente coinvolta oggi, e qui, non solo dalla questione delle risorse e della loro distribuzione, ma anche dal significato che attribuiamo al termine risorsa: oggetto, merce, bene materiale, ma anche sistema di relazioni tra le persone e rappresentazione sociale di questo sistema. Vorrei provare a disordinare questa mappa cognitiva che tutti e tutte abbiamo interiorizzato e che in qualche modo i nostri gesti riproducono rendendoci involontariamente complici. Perché come donna? Che differenza c’è tra l’essere uomini e l’essere donne in questa parte privilegiata del pianeta su cui viviamo? Dovendo dare una ragione per guardare il mondo con occhi di donna e per fare in modo che questo sguardo diventi una risorsa per l’intera umanità, su cui anche gli uomini si possano soffermare, dobbiamo andare oltre le intuizioni e un generico buonismo che troppo spesso ci viene attribuito. Per esempio non credo che le donne non siano state complici nelle guerre, oltretutto anche il silenzio è una forma di complicità. Guardando la storia dal punto di vista di entrambi i generi non troveremo che uno è salvifico e l’altro è malefico, ma certamente non può essere stato senza influenza lo squilibrio profondo tra accesso al potere e distribuzione delle ricchezze che ancora segna, pur se in modi diversi, l’organizzazione sociale di tutto il pianeta e che trova solido fondamento nella conservazione dei pregiudizi sessisti. Riparto dal titolo per fare brevemente il punto della situazione: “alle soglie del 2000” il settimo rapporto sullo sviluppo umano delle N.U. ci informa che un miliardo e seicento milioni di persone vivono peggio di dieci anni fa, oltre tre miliardi vivono con meno di due dollari al giorno e l’elenco potrebbe continuare a lungo e sarebbe difficile da sopportare se trovassimo il modo di tenerlo costantemente presente alla memoria, magari con una delle nostre tanto amate tecnologie. La divaricazione tra ricchezza e povertà, da sempre considerata iniqua, oggi è diventata disumana e non possiamo far finta di niente perché questo “sapere” è a disposizione di tutti. Prendiamo ora in esame altri due aspetti di questa domanda che è stata messa all’inizio del corso: il primo è “progresso illimitato”, l’altro “fallimento della nostra civiltà”. Che il progresso non sia illimitato lo abbiamo imparato irreversibilmente sulla nostra pelle con il disastro di Cernobyl. Voglio rievocare Cernobyl perché c’è un tale succedersi di eventi che corriamo il rischio che si cancellino nell’indistinzione. Voglio rievocarlo con le parole di una scrittrice della Germania orientale, Christa Wolf, che a me piace molto perché coinvolge la sua esperienza individuale per riflettere sulle grandi questioni in cui oggi ci dibattiamo tutti e tutte. Nella prima parte del libro che s’intitola “Guasto” lei racconta di un viaggio che fa negli Stati Uniti per visitare quei grandi santuari della scienza e della tecnica che sono le centrali nucleari. Osservando gli uomini che vi lavorano scrive: “Uomini giovanissimi, assai dotati, che - sotto la spinta, temo, dell’iperattività di determinati centri del loro cervello - hanno venduto l’anima, non al diavolo (ah, fratello! Il buon vecchio diavolo! Se ancora esistesse!), ma alla fascinazione esercitata da un problema tecnico. Solo a poco a poco, quando, affidandomi alla descrizione che se ne faceva, sono riuscita a farmi un’idea della loro vita, mi è diventato chiaro che le fantasie che poco prima mi ero proibita erano state ormai da tempo superate dalla realtà: questi erano sì uomini in un laboratorio, in totale isolamento, senza donne, senza bambini, senza amici, senza altri piaceri che il loro lavoro, sottoposti alle più accurate norme di sicurezza e di segretezza; ma non avevano alcun bisogno di una vita surrogata con ricordi suscitati elettricamente. […] In realtà questi uomini sono assolutamente paghi di quello che fanno. Vi è stata quasi una mutazione in loro e questo fa sì che essi vadano avanti senza alcuna coscienza del contesto. Le domande fondamentali che lei pone, grandi domande inevase, sono contenute nel brano seguente: “Lista delle attività che gli uomini della scienza e della tecnica presumibilmente non svolgono o che, se costretti ad esse, vedono come uno spreco di tempo: cambiare un poppante. Cucinare, andare a far la spesa, con un bambino in braccio o in carrozzina. Lavare i panni, stenderli, riportarli dentro, ripiegarli, stirarli, rammendarli. Spazzare pavimenti, strofinarli, dar la cera, passarvi l’aspirapolvere. Spolverare. Cucire. Lavorare a maglia. Lavorare all’uncinetto. Ricamare. Lavare i piatti. Lavare i piatti. Lavare i piatti. Curare un bambino ammalato. Inventargli delle storie. Cantargli canzoni. – E quante di queste attività vedo io stessa come uno spreco di tempo? […] A quale crocevia l’evoluzione in noi umani ha imboccato la strada sbagliata, al punto che abbiamo associato il soddisfacimento del piacere alla spinta alla distruzione? Oppure, ponendo diversamente la domanda, quale paura separa rigidamente quei giovani così coscienziosi da ciò che noi gente normale chiamiamo ‘vita’? Una paura che dev’essere così enorme che essi preferiscono ‘liberare’ l’atomo piuttosto che se stessi…”. Queste domande ci spiegano anche perché Christa cominci il libro in maniera apparentemente così decentrata dai temi fondamentali di Cernobyl, della scienza e della tecnica, delle questioni economiche del nostro pianeta. Lei, comincia così: “Un giorno, di cui non posso scrivere al presente, i ciliegi saranno fioriti. Io avrò evitato di pensare: ‘esplosi’; i ciliegi sono esplosi, come ancora l’anno prima potevo non solo pensare ma anche dire senza esitazione, pur se non più con l’assoluta inconsapevolezza di una volta. Esplode il verde: mai come quest’anno, con il caldo primaverile subentrato al lungo inverno senza fine, una frase del genere sarebbe stata appropriata a quel processo della natura. Di tutti i comunicati, che si diffusero molto più tardi e che sconsigliavano di mangiare i frutti degli alberi in fiore durante quei giorni, non sapevo ancora niente quella mattina […]. Qui, lei, con questo suo linguaggio quotidiano, ci dice un’altra cosa su ciò che si distrugge con Cernobyl: la possibilità della parola stessa, la possibilità della comunicazione. Non solo il pianeta, ma ciò che vive sul pianeta e interi pezzi della nostra vita, della nostra cultura. Quanto, possiamo chiederci, con il pianeta, distruggiamo di noi stessi e di noi stesse, tanto da diventare esseri umani talmente estranei all’idea stessa di umanità che ci siamo fatta, da essere allo stesso tempo fautori della distruzione e vittime della distruzione? Allora non mi basta dire che siamo di fronte al fallimento di questa civiltà. Evocare la catastrofe non serve. Sento il bisogno di una riflessione più profonda che mi accompagni lungo la giornata e che mi consenta di distinguere quei gesti e quelle parole che portano speranza da quelli che sono fautori, anche senza la mia consapevolezza, della distruzione.

Nella domanda posta inizialmente incontro un’altra parola chiave: Economia. Nelle svariate definizioni che si possono trovare sui vocabolari per la parola economia si trovano alcuni termini centrali come uomo, bisogni e desideri. Dunque l’essere umano, che ha dei bisogni e dei desideri, stabilisce un certo rapporto con le risorse e con il mondo e questo rapporto è mediato dal lavoro. Il lavoro umano che si rapporta alla natura e la trasforma è parte di quello stesso processo attraverso il quale la specie umana trasforma se stessa e la propria percezione del mondo traducendola in sistemi comunicativi efficaci ed in azioni. Si tratta quindi, come dice Bateson, di pensare con chiarezza ai rapporti che legano un organismo al suo ambiente. Nel suo testo “Verso un’ecologia della mente” egli parte dal fatto che ci troviamo di fronte a un mondo minacciato da vari tipi di disorganizzazione, una delle quali è la distruzione stessa dell’ambiente. Noi non siamo ancora in grado di comprendere pienamente che cosa sia quell’entità che chiamiamo organismo più ambiente. In realtà gli esseri umani non vivono a prescindere dall’ambiente, così come non esiste un ambiente a prescindere dalla specie umana che non solo lo vive ma, mentre lo vive, lo pensa. Bateson procede analizzando velocemente il concetto di sopravvivenza della specie e tutte le varie concezioni che si sono succedute nella cultura occidentale sul rapporto tra organismo e ambiente. Alla fine conclude che c’è un’unità di sopravvivenza e che questa è costituita dal complesso flessibile di organismo nel suo ambiente. Ma cosa significa affermare che l’unità di sopravvivenza è l’organismo nel suo ambiente? Significa che è sulla nostra stessa pelle che noi proviamo la distruzione dell’ambiente. Non esiste una distruzione dell’ambiente che ci lasci immuni. E non c’è bisogno che la distruzione ci tocchi nella nostra percezione fisica, nel contesto in cui viviamo. Le sue conclusioni non sono di facile comprensione, pure mi sembrano centrali per il nostro tema. Egli sostiene che “Se modifichiamo l’unità di sopravvivenza darwiniana fino a includervi l’ambiente e l’interazione fra organismo ed ambiente, appare una stranissima e sorprendente identità: l’unità di sopravvivenza evolutiva risulta coincidere con l’unità mentale.” Ciò che noi pensiamo ha efficacia sull’ambiente. Possiamo tradurre questo concetto in modo forse grossolano, ma più comprensibile con una domanda: il fatto che ogni giorno muoiano tanti bambini di fame è indifferente per la sopravvivenza del mio bambino? E se sopravvive, con chi condividerà la sua vita quando noi non ci saremo più? E se sopravvive grazie al fatto che altri muoiono, che tipo di essere umano sarà? Un altro esempio, che Bateson stesso riporta, riguarda la distruzione del Lago Erie, nel passato utilizzato per lo scarico di detriti industriali. Il fatto che io abiti lontano dal Lago Erie non mi lascia senza conseguenze, in quanto esso fa parte non solo del sistema ecologico, ma anche del mio sistema ecomentale. Quindi la follia della distruzione del lago viene incorporata nei miei pensieri e nella mia conoscenza. Anch’io divento produttrice di follia. D’altra parte abbiamo tutti davanti agli occhi la follia più grande: siamo ricchi, ma incredibilmente infelici. Come possiamo dire questo al resto del mondo? Come possiamo dire a un contadino, una contadina, di un paese povero: guarda, io ti rubo tutto, ma tutto questo mi rende infelice? Chiaro che equivale a insultarlo una seconda volta. Bateson ricorda che dal punto di vista antropologico sembra che l’uomo primitivo traesse degli spunti dall’ambiente naturale e li applicasse in un qualche modo metaforico alla società in cui viveva. Due esempi di questo comportamento possono essere l’animismo e il totemismo. Oggi noi dichiariamo che questi tipi di atteggiamenti non sono scientifici. In realtà, il fatto che la specie umana in epoca preistorica si identificasse con l’ambiente naturale circostante e lo prendesse a guida della propria vita sociale faceva si che l’integrazione specie umana-ambiente circostante, funzionasse. Staccare successivamente la mente dal corpo non ci ha aiutato a vivere nel mondo nel quale eravamo e siamo immersi. Evidentemente abbiamo preso una strada sbagliata. Un altro esempio, estremamente interessante, riguarda il fatto che pur essendo convinti, la maggior parte di noi, che non esiste una mente separata dal corpo, separata dalla società e separata dalla natura, molti dei nostri comportamenti sono ancora conseguenti a quella credenza. Bateson esemplifica dicendo “Guardiamo al modo in cui le nozioni fondamentali sono rinforzate ed espresse in ogni genere di particolari del nostro comportamento. Il fatto stesso che io stia monologando davanti a voi è una norma della nostra sottocultura accademica, ma l’idea che io possa insegnare a voi, unilateralmente, è derivata dalla premessa che la mente controlla il corpo. […] Di fatto sto compiendo un atto di prevaricazione, rinforzando nella vostra mente un atto di pensiero che in realtà è assurdo” Anch’io sono convinta di questo e in questo momento, tenendo una conferenza, sto facendo una cosa in cui non credo e cioè che la mente possa apprendere a prescindere dal contesto; posso sì trasmettere delle informazioni utili e necessarie, ma certamente con questa forma di comunicazione non si possono trovare le soluzioni ai problemi e non favorisco l’assunzione di comportamenti diversi. Infatti quando un individuo monologa non si costruisce un processo, semmai avviene un fatto. Le soluzioni, proprio perché siamo un’interazione di sistemi (specie umana più ambiente), si trovano solo attraverso la produzione di processi che inneschino meccanismi di modificazione dei comportamenti. Questa riflessione ci porta dritti alla parola Risorse e alla complessità di significati che evoca. La questione delle risorse, oltre ad essere legata all’ambiente, è anche legata al lavoro umano e quindi all’esistenza stessa della specie umana, con le sue specifiche caratteristiche fisiche e psicologiche. L’attenzione del mondo economico si è rivolta soprattutto alle risorse che possiamo considerare prodotti, al lavoro umano quindi come capacità di plasmare il mondo con le mani per ricavarne degli oggetti. A causa del fascino che sprigionano le nostre mani, in grado di creare sempre qualcosa di nuovo, la ricchezza è diventata sinonimo di possesso di beni. Se però guardiamo il lavoro dal punto di vista della sopravvivenza, vediamo che esso la rende possibile in quanto implica un’interazione tra sistemi. Quindi, un altro lavoro fondamentale è il lavoro che tiene in vita le persone. L’interazione processi-prodotti non può essere spezzata sottraendo un termine alla valorizzazione sociale e il fatto che sia accaduto ha portato ad un risultato che è sotto gli occhi di tutti. Vorrei ricordare qui che una parte del movimento delle donne si riunì al principio degli anni ‘80 a Torino per un grande convegno che si intitolava “Produrre e Riprodurre”. In quella sede si mise a fuoco la questione del lavoro delle donne e il fatto che, qualsiasi lavoro esse svolgano, con o senza riconoscimento sociale ed economico, non si sottraggono al lavoro rappresentato dall’aver cura di sé e del più o meno piccolo collettivo di persone (generalmente bambini, anziani e malati, ma non solo purtroppo) ad esse affidato. Il lavoro che si svolge nel quotidiano e che consente la sopravvivenza degli individui è un lavoro che si svolge nella contingenza. La differenza tra questo tipo di attività e un’attività produttiva sta nella gestione del tempo, dello spazio e nella relazione tra i soggetti. Agnes Heller affermava anni fa che la vita quotidiana è quella che si svolge nella contingenza, che perciò non è possibile né prevedere né programmare. Essa esige una grande competenza sulle interazioni e una continua capacità di stabilire patti tra gli individui sulla possibilità della gestione delle risorse. Contingenza per Heller vuol dire differenziazione, pluralità degli stili di vita, apertura e indeterminatezza, centralità della vita quotidiana intesa come sfera dell’esperienza da cui si dipartono e a cui fanno ritorno tutte le oggettivazioni cosiddette materiali e spirituali. I lavori che hanno più a che fare con la contingenza sono i lavori che hanno a che fare con la riproduzione della specie e cioè la crescita, l’acculturazione, la conservazione della salute della specie umana. Tutto il contrario succede nei lavori che sono finalizzati alla produzione di merci. Adam Smith scriveva, descrivendo il processo di produzione di uno spillo, che se lo suddividiamo nelle sue singole mansioni consentiamo una moltiplicazione infinita del prodotto finale. Se un uomo in un’ora fa uno spillo, dieci uomini, suddividendosi i singoli gesti richiesti dallo svolgimento del lavoro, in un’ora non fanno dieci spilli, bensì diecimila spilli. La teoria di Smith, che ha trovato ampia applicazione nel sistema industriale, si fonda però sulla fantasia che esistano “quote di lavoro puro” erogate dai soggetti e incorporate negli oggetti, ma il lavoro umano è sempre dentro la complessità dei sistemi interagenti e gli esseri umani se funzionano come automi possono essere funzionali alla produzione, ma diventano pericolosi per la sopravvivenza della specie. La crescente automazione delle mansioni ripetitive può certamente essere considerata come un processo liberatorio per la specie umana, ma questo stesso processo richiede esseri umani in grado di modificare e affinare processi e procedure e tutto questo mette in discussione il sistema di attribuzione di valore economico e la definizione corrente di ricchezza. La praticabilità del ragionamento di Smith ha talmente affascinato gli uomini e i pensatori dell’800 che si è creduto per tutto il secolo nella possibilità illimitata di produzione e che questo fosse il presupposto per il progresso illimitato dell’intera società. Di questa convinzione il ‘900 ha poi sopportato tutto il peso e ne ha tragicamente pagato le conseguenze. Il punto estremo di sperimentazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro, dell’uomo al servizio della merce, è il lager. Primo Levi ha detto con grande lucidità che il lager non è il frutto di qualcosa di estraneo alla storia e all’economia, al contrario è profondamente radicato nel nostro sviluppo economico del quale costituisce il punto massimo di arrivo. Possiamo provare ad analizzare uno dei lavori più semplici della riproduzione per comprendere la diversa natura di questo lavoro. Mi riferisco alla lettura dei lavori della riproduzione proposta da Lidia Menapace che oltre a quelli cosiddetti della riproduzione sociale (sanità, scuola e pubblica amministrazione) considera anche la riproduzione domestica (i lavori del casalingato) e biologica (i lavori necessari alla crescita di bambini e bambine) definendo la cura come il modo in cui devono essere svolti questi lavori, che non producono merce, ma riproducono persone. Crescere un bambino, lei dice, non è solo un lavoro (tutta la parte affettivo-relazionale non lo è) ma è anche un lavoro, che quindi deve avere un riconoscimento sociale ed economico (e ciò non significa che deve essere pagato direttamente), ma per tutti gli approfondimenti rimando ai suoi testi e alla sua prossima conferenza qui. Tra i lavori della riproduzione un lavoro semplice come fabbricare uno spillo può essere quello di imboccare un bambino. Imboccare un bambino può essere considerato un “segmento semplice” (lo definisco “segmento” perché i lavori della riproduzione hanno per oggetto processi e non prodotti) del lavoro di riproduzione biologica, se prendiamo in considerazione la quantità di soggetti, oggetti e gesti necessari alla sua realizzazione. La finalità di questo lavoro non è solo nutrire, ma anche insegnare al bambino a mangiare autonomamente e secondo la cultura del contesto in cui è nato, si tratta quindi di un lavoro che deve raggiungere contemporaneamente finalità complesse, come accade per la maggior parte dei lavori della riproduzione. L’analisi è molto lunga e mi limito qui solo ad alcuni cenni: intanto questo lavoro non va fatto con “precisione” ma con “cura”, il gesto e gli oggetti utilizzati non devono essere sempre uguali, ma devono rispondere alle esigenze del bambino/bambina, quelle previste per standard d’età (e qui entra in gioco il livello culturale del contesto) e quelle impreviste perché strettamente individuali, quindi se i tempi della “precisione” possono essere “programmati” quelli della “cura” possono essere solo “previsti”. La quantità di lavoro necessaria alla produzione degli spilli, come delle scarpe o altro, è fissa e il successo del lavoro dipende proprio dalla ripetizione rigorosa dei gesti, mentre imboccare un bambino richiede sempre accanto alla quota di lavoro fisso una quota di lavoro variabile in relazione alle esigenze dei soggetti (entrambi); si possono produrre scarpe senza amarle, perfino senza considerarle utili, separando i propri gesti dai propri pensieri, non si può imboccare un bambino senza entrare in una relazione che implichi ascolto, rispetto, comprensione, pena il fallimento del lavoro. Non si tratta di ridurre l’affettività, propria delle relazioni tra i soggetti, a prescrizione economica valutabile sul mercato, ma di considerare che la specificità dei lavori della riproduzione non può essere sottratta ad una valorizzazione sociale e confinata nella stratosfera dei sentimenti nobili. Oggi queste competenze appaiono socialmente più utili, più adeguate, più necessarie alle attuali necessità in ordine alla sopravvivenza della specie, espressioni di un sapere che non si esprime secondo quella codificazione gerarchica dei ruoli che appare sempre più inutile e dannosa. Io non credo che le donne siano biologicamente dotate di un istinto innato che consenta loro di essere più adatte degli uomini ai lavori della riproduzione. Credo invece che la lunga pratica in questo tipo di attività le ha rese in grado di saper lavorare meglio sui processi e di conseguenza anche sui prodotti. E’ una capacità storicamente acquisita di cui non abbiamo ancora elaborato politicamente i modi e i canali di trasmissione tra le generazioni, ma certamente si tratta di una competenza che anche gli uomini possono acquisire. Intendo per elaborazione politica il riconoscimento condiviso a livello sociale, perché la trasmissione tra donne ha comunque funzionato, com’è evidente. Quindi storicamente le donne hanno avuto un rapporto con il tempo non rivolto alla ricerca di eternità, ma una quotidiana consapevolezza del limite legata all’immediata fruizione del loro lavoro e alla ripetizione ciclica, ben diversa dal fantasma di eternità che leghiamo alla produzione degli oggetti. La relazione non è eterna, perché presuppone la consapevolezza della nascita e della morte. Con la nascita si mettono al mondo degli esseri mortali e questa consapevolezza ci aiuta a comprendere che per salvaguardare la vita di figli e figlie non basta salvaguardare il nostro rapporto con loro ma è altrettanto indispensabile offrirgli un mondo in cui vivere e cioè un insieme di natura e reti di relazioni in cui noi non siamo indispensabili. Anche rispetto allo spazio le donne sono più abituate alla gestione anziché all’appropriazione. Infine rispetto ai soggetti sono meno abituate alla suddivisione dei ruoli. Vedono le persone come soggetti complessi più che come ruoli, come mansioni. Non credo che le donne in sé siano un’entità salvifica, quella banalità del male che fa in modo che ognuno e ognuna di noi entri nel meccanismo della distruzione, magari senza rendersene conto, non è sconosciuta alle donne. Credo invece che, nell’interazione tra sistemi che caratterizza la vita della specie umana sul pianeta, sia da considerare come fondamentale l’esistenza di uomini e di donne. Affermo un’ovvietà, ma si tratta di un’ovvietà culturalmente censurata che oggi si propone come occasione e risorsa per ritrovare il punto nel quale abbiamo imboccato quella famosa strada sbagliata di cui si parlava prima. Attraverso quali comportamenti possiamo rendere visibile il patrimonio censurato del genere femminile affinché la specie umana trovi la strada di un’interazione vitale con l’ambiente in cui vive? La questione è di tale complessità che abbiamo appena cominciato ad approssimare l’analisi. La complessità non può diventare però un alibi, perciò vorrei riproporre quello che dicevo all’inizio sui comportamenti quotidiani sottoponendone ad analisi alcuni. Perché non sempre servono grandi gesti eroici, qualche volta sono più utili tanti piccoli gesti compiuti da tante persone ogni giorno. Scelgo due aspetti di cui parlare per concludere. Si tratta di due aspetti apparentemente marginali, che riguardano il linguaggio usato da noi, donne bianche occidentali. Nel mondo occidentale si parla di parità, delle donne rispetto agli uomini, come di un fatto acquisito almeno dal punto di vista legale. Questa “parità” è stata conquistata anche grazie al fatto che viviamo in una parte ricca del pianeta, dove non si sta male, ma è chiaro che non ci è stata regalata da nessuno, anzi, ha richiesto anni di lotte e permane comunque una realtà drammatica di espulsione delle donne dal mondo del lavoro, una realtà di disoccupazione, di standard di lavoro sempre più massacranti, rimane il famoso “tetto di vetro” che impedisce alle donne di raggiungere gli stessi posti di responsabilità degli uomini, così come esiste ancora la segregazione formativa che colloca le ragazze in percorsi scolastici emarginanti che ne determinano la marginalità successivamente, nel mercato del lavoro. Questa dura realtà è poco denunciata e quando le donne sporgono questa denuncia essa viene ignorata dai mezzi di comunicazione, come se si trattasse di un retaggio arcaico di lotte ormai superate. Non so se la nostra realtà sia davvero di pari opportunità, ma anche se lo fosse non possiamo dimenticare che si tratta di una conquista raggiunta da pochissime donne e che a ridosso dei nostri confini le nostre coetanee non hanno nessun diritto e sulle nostre strade vivono donne in schiavitù che ci possiamo permettere di ignorare. Trovo dunque assolutamente fuori luogo l’attuale snobismo che viene esibito da certe donne nei confronti di quel nostro recente passato che ci ha viste lottare per uscire dall’oppressione. Questo snobismo linguistico nei confronti del femminismo troppo spesso diventa connivenza, da parte di chi si sente “pari”, con un sistema che “assume” alcune donne per cooptazione, usandole per cancellarne altre. Sono molteplici e sottili le forme attraverso cui si cerca di “persuadere” le giovani donne a non competere sul mercato del lavoro: dalla retorica della mamma alla colpevolizzazione delle mamme reali, dalla distruzione dei servizi sociali all’incoraggiamento del volontariato, diventa sempre più difficile per le donne far riconoscere il proprio diritto al lavoro e insieme quello che abbiamo chiamato “il valore sociale della maternità”. Non riesco a nascondere un sentimento di rabbia nei confronti di alcune donne del ceto medio che di fronte alla domanda: “Tu cosa fai?” rispondono “Io faccio la mamma”. A me questa frase sembra molto grave. Per prima cosa perché è uno schiaffo in faccia alle donne che fanno la mamma e anche altro. Inoltre è maggiormente offensiva verso le donne nere, le donne che vivono nei paesi poveri, che non riescono nemmeno a fare la mamma, mentre vedono i loro figli morire di fame, perché ogni giorno devono magari allontanarsi da casa per andare a prendere l’acqua. Anche queste donne fanno la mamma, nel modo migliore che possono. Fare la mamma non è un mestiere. E’ una relazione. Su questo non possiamo mediare. Rivendicare il diritto al lavoro e insieme il diritto al tempo per i propri figli è una battaglia di civiltà che uomini e donne dovrebbero condurre insieme. Sono convinta anzi che ogni essere umano adulto abbia diritto a svolgere un lavoro socialmente riconosciuto ed economicamente valorizzato ed abbia insieme diritto ad un tempo per sé e per le persone che ama. I piccoli della specie non sono proprietà dei genitori, ma responsabilità per tutti e tutte. Per restare al linguaggio vorrei sottolineare un altro atteggiamento su cui riflettere: la consuetudine, da parte di molte donne, di declinare al maschile il proprio ruolo, raggiunto spesso con fatica e “stringendo i denti” perché usare il femminile appare irrilevante oppure complicato o perfino vetero-femminista (il maschilismo non è ancora vetero). Quali sono le reali motivazioni che determinano questi atteggiamenti? Una può essere la timidezza, l’altra la possibilità di essere ricattate o emarginate, l’ultima è lo snobismo. Non credo sia irrilevante segnalare la presenza delle donne anche nel linguaggio. Non si può rinunciare per esempio a dire che io sono la sindaca, per ribadire che in nessun luogo al mondo può essere tolta alla donna la gestione del proprio tempo, degli spazi, del proprio corpo e della propria immagine. Mi sono interrogata e continuo a interrogarmi su quello che possiamo fare. Vi sono alcune piccole cose sulle quali agire. Il linguaggio è a costo zero. Anche se può sembrare banale, è fondamentale. L’altra cosa fondamentale è ribaltare il concetto di ricchezza su cui si fonda il bilancio di uno stato. Se la ricchezza di una nazione è data solo dai prodotti, se essi valgono di più dei bambini felici, allora c’è qualcosa che non va. La prima ricchezza è la sopravvivenza della specie umana: imboccare un bambino è un’attività almeno significativa quanto fare uno spillo?

Dibattito Intervento: Io, sul foglio che è stato fatto passare prima, alla voce professione ho scritto genitrice, anche se ho avuto la tentazione di scrivere disoccupata. Mi sento comunque sempre di più ai margini di una società che si automatizza sempre di più e dalla quale mi sono allontanata a causa del tempo passato con i miei figli. Non si riesce più a lavorare, in quanto questo spesso significa non ragionare, bensì fare solamente delle cose. Quando i miei figli sono cresciuti mi sono trovata quasi a svolgere il ruolo di educatrice, e non solo nel mio ambito, poiché faccio anche del volontariato. Comunque, visto che mi piacerebbe fare qualcosa di creativo, mi sento un po’ condannata al mio ruolo, anche se mi ha dato molte soddisfazioni che credo si protrarranno nel tempo. Risposta: Lei, con questo suo discorso, mi dà perfettamente ragione. Ha infatti detto alcune cose importanti. Per prima cosa ci ricorda che i lavori nella nostra società sono stati settorializzati e disciplinati in modo tale da non prevedere tutta una serie di bisogni, i quali allora devono essere coperti dalle donne gratuitamente. Dunque questo problema non è solo il suo, ma di tutta una società che considera lavoro quattro cose, quando le attività che consentono la sopravvivenza della specie sono almeno centocinquanta. Di queste ultime sono riconosciute solo quelle che servono per educare alla produzione. Per esempio la scuola è nata per l’educazione dei dirigenti e si è poi man mano aperta grazie alle spinte di democratizzazione. In realtà però la sua organizzazione non è mai cambiata. Non riesce a fornire una risposta a tutti i bisogni dell’uomo e della donna. Le donne sono dunque destinate a coprire dei lavori che non sono riconosciuti come tali, tanto da non avere nemmeno un nome. Tra l’altro lei non fa solo la genitrice, perché questo implicherebbe solo la cura del suo o dei suoi figli e figlie, bensì fa una serie di cose, che non sono socialmente riconosciute, non sono pagate, non sono valorizzate, ma sono certamente necessarie. La parola genitrice presa in sé esclude invece altre donne, tra le quali coloro che svolgono un lavoro più “tradizionalmente riconosciuto”. Dire faccio la genitrice significa poi scivolare al di sotto di quello che io definisco livello etico socialmente stabilito. Noi abbiamo una Costituzione che dice “La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro”. Questo significa che chi non lavora potrebbe anche non accedere ai diritti di cittadinanza, che infatti proprio per questo motivo sono stati negati per lungo tempo alle donne. Le due ragioni che impedivano dal punto di vista giuridico i diritti politici alle donne erano la mancanza di autonomia lavorativa e la dipendenza dagli uomini della famiglia, tanto che non potevano trasmettere i propri beni e il proprio nome ai figli. Il superamento di questa logica non è solo dire “anche le donne che non sono autonome possono votare”, ma riconoscere che non tutto il lavoro viene pagato. Mi piacerebbe trovare un nome per l’attività che lei svolge e definirne il riconoscimento economico e sociale. E’ questa la sfida. Queste sono le cose per cui vogliamo richiedere, non necessariamente un salario, ma la giusta valorizzazione sociale. Tra l’altro adesso conosco anche molti uomini che stanno apprezzando un nuovo modo di essere padri, più simile a quello delle madri, godendo dei lati positivi, stando attenti all’interrelazione tra i sistemi.

Intervento: Augurerei agli uomini di vivere qualche secolo chiusi in casa, come noi donne abbiamo fatto, e che in questo tempo possano acquisire la capacità alla relazione, all’intuito, a una sensibilità diversa. Per questo io penso a una natura salvifica della donna. Questa sensibilità acquisita nel corso degli anni può servire ad aprire un po’ la mentalità dell’uomo. Intervento: Mi ha molto impressionato il discorso della mutazione genetica. Mi sembra davvero di leggere in tante forme esasperate della tecnologia e della produzione un carattere molto maschile. Una lettura femminile, un intervento del pensiero femminile, può ancora avere una qualche efficacia contro questo grosso pericolo di mutazione genetica rispetto a un’ecosistema e a un’ecologia della mente che ormai, in certe forme di vita e in certe forme di lavoro, è ormai perduta. Risposta: Sulle cose dette da Giuliana: siamo tutti e tutte troppo immersi e immerse nel presente. Quando si è immersi in una condizione è difficile guardare. Mi vengono in mente due cose. L’altra sera ho presentato Simona Forti che doveva parlare di Hannah Arendt. La Arendt è senz’altro una pensatrice molto disincantata, che parla ad esempio della desertificazione guardando non solo alle conseguenze che essa ha sul territorio, ma anche a quelle che ha sulla nostra immagine del mondo e sul nostro stesso mondo interiore. Dobbiamo allora impegnarci per un patto, “mobile” come devono essere gli uomini e le donne, continuamente da storicizzare (lei non usa la parola contingenza, ma è come se la usasse). Lei però trova pochi e marginali esempi nella storia dove si realizza quell’orizzontalità che mantiene i soggetti nella loro individualità, pur consentendo un patto per la vivibilità del futuro. L’altra sera, dovendo fare da moderatrice, non ho osato dire quello che pensavo. Più tardi, parlando in privato con Simona Forti, ho sostenuto che secondo me l’Assemblea di Pechino, dove non era scontato che più di 36.000 donne, visti i fallimenti precedenti, riuscissero a trovare un accordo, è un esempio di questo tipo di patto. Certo, non siamo alla fine di un cammino. Siamo all’inizio di un’umanizzazione. Siamo agli inizi di una scienza dell’umanità. Simona Forti condivideva questa mia impressione. Solo che noi, qui in Italia, ma anche in altri paesi dell’occidente, tendiamo a dimenticare questo evento. Lo conosciamo poco, anche se si è trattato di una delle più grandi assemblee politiche della storia conosciuta. Infine, per mia personale natura, io non sono molto ottimista, per lo meno per quanto riguarda il nostro mondo bianco, del quale tra l’altro, non saprei fare a meno. Credo solo che non esistano più verità assolute, ma solo verità ripattuibili. Conto ormai anche su energie diverse, che vengono da altre culture, da altre civiltà, da gente diversa da noi. Nei nostri paesi tendo a vedere in quelli più giovani di me, nei miei figli, ma anche nei miei alunni e alunne una grande capacità creativa che spesso gli adulti, uomini e donne, non sanno riconoscere.


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