IFE Italia

Perché la cura non è un affare di famiglia

di Brunella Casalini
domenica 5 agosto 2012

Brunella Casalini è docente presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Firenze.

dal sito cogito ergo sum http://www.fondfranceschi.it/cogito...

Familiari, vicini e amici si sono da sempre presi cura dei propri cari. Oggi l’invecchiamento della popolazione, il prolungarsi delle aspettative di vita dei malati affetti da malattie croniche e degenerative grazie ai progressi della medicina, l’abbreviarsi dei periodi di degenza in ospedale e una generale tendenza alla de-istituzionalizzazione effetto dei tagli alle spese sanitarie, hanno portato ad un aumento senza precedenti del numero di persone bisognose di cure domiciliari. Al tempo stesso, le trasformazioni della famiglia, conseguenza di più frequenti separazioni, del numero sempre più ristretto dei suoi membri, della diminuzione delle nascite, del ritardo nella decisione di mettere al mondo figli, dell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e di una maggiore mobilità geografica, hanno indebolito la capacità della famiglia di trovare al proprio interno le necessarie risorse di cura. Questi cambiamenti demografici e sociali hanno acuito il problema della cura e spinto a prestare una nuova attenzione alla funzione sociale del lavoro di cura.

Le pratiche della cura sono state a lungo nascoste e invisibili, relegate nel privato e considerate un dovere femminile. Per le teoriche femministe della care ethics, due sono gli ostacoli principali che hanno impedito di riconoscere il valore sociale del lavoro di cura: l’idea liberale del soggetto come autonomo e indipendente e la stigmatizzazione della dipendenza, sinonimo di scacco e di fallimento. Una adeguata considerazione delle relazioni di cura e dello spazio che occupano nella vita degli individui presuppone un nuovo orientamento del nostro modo di guardare alla vulnerabilità e alla dipendenza che consenta di vederle come condizioni universali e per questo degne di un progetto pubblico in cui siano contemplati il diritto di ricevere cura, ma anche quello di prestare cura. Da questo punto di vista, per le teoriche dell’etica della cura è fondamentale non separare la condizione del care receiver da quella di chi è impegnato nel lavoro di cura e focalizzare, quindi, l’attenzione non solo sui bisogni dei soggetti dipendenti, ma anche sui bisogni di quei soggetti per i quali gli americani hanno coniato il termine caregiver e gli inglesi carer. Se il soggetto destinatario della cura soffre di una dipendenza che può essere ricondotta alle sue condizioni fisiche e/o mentali, la dipendenza di colui che presta cura è una “dipendenza derivata” (Kittay 1998). Per il caregiver familiare prestare cura ad un anziano fragile non più autonomo o a un disabile grave può comportare non solo un alto rischio di povertà, di isolamento e di solitudine, ma, col tempo, anche di stress, depressione e un peggioramento generale delle condizioni di salute. Una società attenta all’autonomia relazionale dovrebbe farsi carico di quei rischi che fino ad oggi i caregiver informali hanno dovuto affrontare a proprie spese, spesso con la rinuncia ad avere una vita propria.

In paesi come il nostro in cui il welfare nel settore del long-term care è per lo più assente, a farsi carico dei soggetti dipendenti è la famiglia, e al suo interno la donna, oggi viepiù coadiuvata o sostituita da immigrate. Negli ultimi anni, infatti, grazie al basso costo del lavoro di cura migrante offerto da un mercato per lo più informale e irregolare e dal piccolo contributo economico assicurato dall’assegno di accompagnamento, molte famiglie con persone dipendenti sono state in grado di assumere una “badante”. Le migranti hanno sopperito all’inerzia dello stato nelle politiche sociali e alle carenze del nostro sistema di assistenza, venendo a costituire un vero e proprio “welfare sommerso”. L’attuale care crisis appare, così, al centro di un groviglio di importanti problematiche etiche, politiche, giuridiche ed economiche: si intreccia con problemi di diseguaglianza di genere, di etnia e classe, di giustizia sociale e di diritti di cittadinanza. E’ necessario studiare strategie per migliorare tanto la situazione del care-giver familiare non retribuito quanto quella dell’assistente familiare remunerato, ruolo attualmente rivestito per lo più da lavoratrici immigrate. La questione del miglioramento delle condizioni lavorative del care-giver non è separabile da quella di trovare un’adeguata risposta ai bisogni di chi riceve cura; si tratta di due facce della stessa medaglia.

La situazione è diversa negli altri paesi europei. In Germania nel 1995 è stata introdotta un’assicurazione obbligatoria per il long-term care che fissa i diritti del care receiver sul piano giuridico. In questo caso, l’accesso dei carergivers a qualsiasi tipo di sostegno (che può essere in denaro, in servizi o in una combinazione di entrambi) è interamente dipendente dal diritto acquisito mediante l’assicurazione dalla persona che riceve cura e da una valutazione medica relativa al livello di aiuto di cui risulta avere bisogno. Il sostegno monetario si può richiedere e ottenere se il care receiver è in grado di dimostrare che un parente o un amico può assicurargli un adeguato livello di assistenza. In Danimarca solo di recente sono state introdotte misure per favorire e sostenere i carers familiari, dal momento che il sistema di welfare danese, basato sul riconoscimento di diritti individuali, ha scelto di provvedere alle esigenze del long-term care mediante un alto livello di servizi sociali pubblici, assegnando un peso residuale alla cura da parte dei familiari. In Inghilterra, Galles e Scozia il movimento dei carers familiari, attraverso un’efficace azione di lobbying, è riuscito ad ottenere importanti riconoscimenti sul piano dei diritti, del proprio ruolo sociale e comunitario

Nel Regno Unito i carers familiari hanno uno status giuridico dal 1995, anno in cui è stato pubblicato il Carers (recognition and services) act. Solo una quarantina d’anni prima "carer" era un termine poco usato in inglese; l’attenzione era, infatti, rivolta alla persona bisognosa di cure e non a coloro, principalmente familiari, che prestavano cure informali. Nel 1963 fu un gruppo di donne sole della classe media con anziani fragili non autonomi a carico a fondare il National council for the single woman and her dependants, associazione che aprirà le porte a donne sposate e uomini solo nel 1982, trasformandosi nel National council for carers and their elderly dependants, diventata infine Carers national association nel 1986. Il movimento dei carers familiari ha ottenuto un insieme di misure legislative che riconoscono il diritto di chi presta cura ad essere informato sui servizi e il sostegno pubblico di cui può usufruire, la possibilità di scegliere la misura in cui prestare cura e di essere preparato e formato, nel caso intenda farlo, ed, infine, il diritto di poter svolgere le attività di cura senza esserne danneggiato dal punto di vista economico e lavorativo. Al fine di ridurre il forte rischio di esclusione sociale cui i carers familiari sono soggetti, le autorità locali devono offrire loro la possibilità di accedere ad attività formative, sportive o di svago. Il carer deve essere, inoltre, sostenuto nel caso in cui decida di mantenere il proprio lavoro e, qualora l’attività di cura risulti incompatibile con la vita lavorativa, deve essere aiutato a rientrare nel mondo del lavoro, nel momento in cui viene meno la sua funzione di cura.

Nel sistema inglese, il carer è una risorsa importante nel funzionamento del regime di welfare e una voce cui i servizi prestano ascolto per riceverne indicazioni e suggerimenti. Secondo Marian Barnes, come altri movimenti degli utenti, il movimento dei carers familiari non ha solo “promosso campagne volte a migliorare l’organizzazione dei servizi sociali e l’erogazione di prestazioni assistenziali, ma in modo ben più essenziale ha cambiato il […] modo di intendere la vecchiaia, la disabilità, la malattia mentale, nonché i concetti di fornire e ricevere assistenza” (Barnes 2010, p. 165).

In tempi recenti qualcosa si è mosso anche in Italia sul fronte della società civile: a Carpi il 21 maggio del 2011 si è tenuta la prima giornata del caregiver familiare (Si veda il sito http://www.caregiverfamiliare.it/), stimolata anche dalle iniziative nel frattempo intraprese a livello europeo che hanno portato alla promozione della carta europea del familiare che si prende cura di una persona non autosufficiente (v. il testo: http://www.cofaasclelia.it/carta_eu...).

Il riconoscimento dei diritti del carer familiare è una misura da incoraggiare insieme alla creazione di nuovi posti di lavoro nel settore della cura agli anziani, di una gamma diversificata di servizi domiciliari, incentivati da forti agevolazioni fiscali (e per inGenere ne hanno scritto Bettio e Simonazzi). Per sostenere entrambi questi progetti, tuttavia, è necessario prima di tutto riconoscere nella cura non un “affare di famiglia”, ma una questione pubblica, strettamente connessa con temi quali la creazione di capitale sociale, l’inclusione e la coesione sociale.


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