IFE Italia

Le donne a caccia del lavoro

di Chiara Saraceno
giovedì 28 ottobre 2010 par ifeitalia

In controtendenza con il resto dei paesi sviluppati ed anche con quanto era avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni, la percentuale di donne italiane che non ha, nè cerca, lavoro ha ripreso ad aumentare e riguarda oggi quasi la metà di tutte le donne in età da lavoro – una percentuale da anni sessanta.

In controtendenza con il resto dei paesi sviluppati ed anche con quanto era avvenuto in Italia negli ultimi dieci anni, la percentuale di donne italiane che non ha, nè cerca, lavoro ha ripreso ad aumentare e riguarda oggi quasi la metà di tutte le donne in età da lavoro – una percentuale da anni sessanta. Dimentichiamo pure gli obiettivi di Lisbona, che prevedevano un tasso di occupazione (non solo di attività) femminile pari ad almeno il 60%.

Ma il fatto che la metà delle donne italiane risulta «inattiva» dovrebbe costituire un problema politico rilevante ed essere al centro dei dibattiti sullo stato non solo della nostra economia, ma della nostra società. Dovrebbe essere tra le priorità da affrontare sia da parte del governo che dell’opposizione, oltre che dei sindacati. Perché significa che la metà delle donne in età da lavoro non ha nessuna speranza di ottenere una autonomia economica ed invece deve dipendere dall’avere un marito e sperare che il matrimonio duri, senza poterne uscire se si rivelasse insopportabile. Significa che gran parte delle famiglie italiane, soprattutto, ma non solo, al Sud, ha un solo percettore di reddito, dalla stabilità ed adeguatezza del quale dipende la sopravvivenza di tutti. Al punto che quando questo marito si trova senza lavoro e senza ammortizzatori sociali e non sa dove sbattere la testa, quindi non riesce più fare fronte alle proprie responsabilità economiche, può anche decidere che non valga più la pena vivere. È successo all’operaio disoccupato di Castellammare, che non ha più retto la «vergogna» di non riuscire a mantenere moglie e figlie.

Certo, queste «inattive» in realtà sono spesso attivissime e tutt’altro che mantenute gratis. Come e più delle donne occupate, sono loro a fare miracoli con bilanci famigliari scarsi, producendo con il loro lavoro domestico e di cura enorme e indispensabile valore aggiunto. Ma questo non produce automaticamente sicurezza per loro e le loro famiglie. Anzi, ne escono indebolite nei loro diritti sociali individuali (ad una pensione decente, per esempio).

Temo tuttavia che, più che con preoccupazione, il dato sull’aumento dell’«inattività» femminile anche nell’ultimo trimestre venga letto con sollievo da chi ci governa. Perché contribuisce a ridurre il tasso di disoccupazione. Le donne che non cercano (più) lavoro escono ufficialmente dalle forze di lavoro e quindi non contano ai fini della valutazione della disoccupazione. Non sarà del tutto un caso che il dato sulla diminuzione della disoccupazione nell’ultimo trimestre coincida esattamente con quello sull’aumento delle inattive: rispettivamente meno e più 0,2%.

Oltre a fare questo regalo statistico-comunicativo a chi ci governa (per altro nel silenzio dell’opposizione), le inattive forniscono anche una legittimazione ad ogni riduzione di servizi sociali già scarsi. Che bisogno c’è di mantenere i servizi e ancora più di farne di nuovi, per bambini e persone non autosufficienti, o di avere scuole a tempo pieno e servizi mensa, se si può contare su questa schiera di nonne e mamme «inattive» e quindi indefinitamente a disposizione? E così l’inattività femminile genera perdita di lavoro e disoccupazione (per lo più femminile), parte della quale potrebbe diventare inattività e così via. Da tempo è stato mostrato che l’occupazione femminile non solo allarga la base imponibile, producendo quindi maggiori entrate fiscali, ma anche genera domanda di lavoro, soprattutto nel campo di servizi di vario genere. È ora che ci si accorga che vale anche l’effetto contrario: la disoccupazione femminile genera inattività che a sua volta produce disoccupazione.

Anche senza affrontare la questione della valorizzazione delle capacità delle donne non solo entro lo spazio familiare ma anche nella economia e nella società e neppure quella, pur cruciale in una democrazia, della uguaglianza delle opportunità, che futuro ha questa società fondata sul lavoro non riconosciuto delle donne e sulla esclusione di metà di loro dall’accesso al lavoro remunerato e quindi alla indipendenza economica? Tra un lodo, una casa a Montecarlo, una barzelletta, una battutaccia da trivio e l’altra, c’è qualcuno al governo e all’opposizione cui interessa porsi questa domanda?


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