IFE Italia

Un affare di donne: crisi e divisione sessuale del lavoro

di MIGRANDA
lunedì 25 marzo 2013

Secondo recenti studi statistici, dopo una relativa tenuta dei livelli occupazionali rispetto ad altri settori, a partire dal 2009 anche quello del lavoro domestico – almeno se si guarda al lavoro regolare – ha conosciuto un calo significativo, che tuttavia non corrisponde a una riduzione della domanda di assistenza familiare. Si tratta di un cambiamento che si compie all’interno del quadro sostanzialmente immutato della divisione sessuale del lavoro: le cosiddette «badanti» continuano a essere donne. Queste costituiscono l’80% dei migranti che svolgono lavori domestici e di cura, ma la percentuale è probabilmente maggiore se si considera che molto uomini hanno potuto regolarizzare la propria posizione solo attraverso le «sanatorie» e i flussi destinati a «colf e badanti». Non è un caso che, se si prendono in considerazione anche i migranti comunitari, che in quanto tali non sono stati coinvolti nelle recenti «sanatorie», la quota delle donne impiegate nel lavoro domestico arriva al 96%. I numeri cambiano poco se si guarda alle italiane, che costituiscono il 94,1% dell’insieme di coloro che svolgono lavori domestici e di cura

Le cifre parlano delle trasformazioni innescate dalla crisi economica, il cui portato non è possibile valutare con chiarezza. Si può considerare la riduzione complessiva dell’occupazione regolare nell’ambito del lavoro di cura in relazione ai più recenti movimenti dei migranti finora residenti in Italia: nel 2011 ci sono state 32.000 cancellazioni dall’anagrafe, il 15,9% rispetto al 2010, e molte meno iscrizioni. Le lavoratrici domestiche migranti sono diminuite del 5,2% nel 2011. Non sembra possibile, però, interpretare le statistiche nel senso di un «ritorno di massa» delle donne migranti nei paesi di provenienza: da considerare è innanzitutto l’incidenza del lavoro nero in questo specifico settore. La rilevanza del lavoro nero emerge se si considera che la rilevazione Istat registra, per quanto riguarda la provincia di Bologna, un incremento delle lavoratrici domestiche simile al decremento evidenziato dalla banca-dati Inps, indicando così un divario tra quanto si dichiara e mondo reale, cioè appunto un aumento del lavoro nero. Per quanto riguarda le migranti, ciò non dipende solo dalla mancanza di documenti ma anche dal fatto che spesso scelgono di ricevere il salario per intero, senza versare contributi che non rivedranno mai, o perché i padroni quei contributi non intendono versarli. Se si considerano poi le migranti comunitarie, come le donne rumene, il gruppo più cospicuo sia di badanti sia di donne che stanno abbandonando il Paese anche perché sono più libere di spostarsi all’interno dell’Europa, il fatto che non siano sottoposte al ricatto quotidiano del permesso di soggiorno rende più facile rinunciare a un contratto di lavoro in regola per un salario globale complessivamente più alto, cosa che vale ovviamente anche per le donne italiane.

Questo insieme di trasformazioni deve essere considerato in relazione all’aumento della domanda di prestazioni di cura nel quadro dello smantellamento dei servizi sociali. Da un lato, il welfare pubblico non è più in grado di fornire risposte efficaci al bisogno di assistenza che riguarda sempre più famiglie, anche alla luce dell’invecchiamento della popolazione, delle trasformazioni degli assetti familiari e del rifiuto da parte delle donne del loro «destino domestico». Dall’altro, quel bisogno trova una sua risposta «privata», monetizzata. Le donne sono chiamate in causa non solo all’interno dei propri nuclei familiari, ma ancora sono costrette a pagare un’altra donna per gestire la propria famiglia e mantenere il proprio lavoro, generando l’ormai nota «catena salariale della cura».

Il rapporto tra l’aumento della domanda e la diminuzione delle lavoratrici domestiche migranti è spiegabile considerando un’altra trasformazione, cioè l’aumento della presenza di lavoratrici italiane in questo settore, testimoniato anche dalla loro crescente partecipazione ai corsi di formazione organizzati da Acli Colf o da Federcasalinghe. Per dare ancora un po’ di numeri, a Torino le badanti italiane assunte attraverso l’agenzia Obiettivo Lavoro sono passate dalle 948 del 2008 alle 1757 del 2010, con un incremento dell’85%. Se il lavoro salariato domestico per le donne italiane è stato a lungo una scelta residuale rispetto ad altre possibilità di impiego, la crisi sembra destinata a cambiare la situazione in modo durevole, trasformando il lavoro salariato domestico in una scelta obbligata – e dettata da una sempre chiara e definita divisione sessuale del lavoro – per coloro che, non più giovani, si sono trovate al di fuori del mercato del lavoro. È infatti significativo che i dati relativi all’aumento dell’occupazione femminile (+1,2% nel 2011, +1,3% nel 2012) riguardino prevalentemente donne single e giovani, mentre per quelle che vivono una relazione di coppia e hanno figli il tasso di occupazione precipita notevolmente (e in modo proporzionale al numero dei figli). Sembra cioè che abbia avuto luogo un processo di «sostituzione» tra le donne migranti e quelle italiane nell’ambito del lavoro salariato domestico dove infatti, al contrario degli altri settori, l’età delle lavoratrici impiegate è andata costantemente aumentando negli ultimi dieci anni. In questo contesto, le donne migranti hanno un salario inferiore, in particolare se si considera il numero di ore lavorate: il fatto di vivere spesso sul luogo di lavoro comporta una disponibilità pressoché totale. Nello stesso tempo, se alla maggiore disoccupazione delle madri e delle donne ‘accoppiate’ si aggiunge una riduzione complessiva delle spese familiari – il che significa anche riduzione delle ore di lavoro pagate per «colf e badanti» – il quadro è quello di un probabile «ritorno a casa», come «casalinghe», di quelle donne che hanno perso il lavoro per la crisi e che non riescono a trovarne un altro per ragioni di età e per la scarsa flessibilità che possono offrire in quanto madri.

Almeno in Italia, la crisi sta ridefinendo l’organizzazione e la gerarchia sociale del lavoro riproduttivo, e sembra invertire in parte quel processo globale di «sostituzione» che, in maniera massiccia e con il sostegno della legge Bossi-Fini, aveva visto le lavoratrici migranti svolgere, in cambio di un salario, una parte del lavoro riproduttivo delle donne «native». Mentre la salarizzazione del lavoro riproduttivo e di cura sembra non essere più solo un «affare delle migranti», la divisione sessuale del lavoro – che qualcuna aveva persino data per morta e la cui rilevanza politica scompare di fronte all’invocazione di una generica uguaglianza nello sfruttamento – rischia di ripresentarsi in forme «tradizionali», e continua a essere un «affare di donne».


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