IFE Italia

La Costituzione e noi

di Maria Grazia Campari
lunedì 23 settembre 2013

Il punto di vista di una femminista, compagna di strada in tantissime occasioni, sulla manomissione del dettato costituzionale, in atto nel nostro Paese attraverso la deroga dell’art. 138.

Dal sito : http://www.womenews.net/spip3/

L’attacco alla Costituzione avviato con la “deroga”all’art. 138 (sull’iter di modifica delle sue norme), non è un fulmine a ciel sereno.

Non occorre essere giuriste esperte di diritto costituzionale, per interrogarsi, e in alcune lo facciamo da tempo, su come difenderci dalla manomissione surrettizia dei valori cardine della nostra Costituzione. Nel difenderla, consideriamo di difendere noi stesse. Ci è sembrato e ci sembra un modo di operare per il consolidamento di spazi di libertà e di opportunità acquisiti, da arricchire e ampliare attraverso un’azione politica mirata. A cominciare dall’art.1 della Costituzione che proclama che il nostro ordinamento è democratico e fondato sul lavoro, quindi valorizza la partecipazione in regime di eguaglianza e conferisce dignità al soggetto che lavora e non tollera mercificazioni di sé nel mercato. E’ chiaro che l’espressione negli intenti dei costituenti era ben lungi dal ricomprendere le donne al lavoro (come chiaramente si deduce dall’art. 37 della stessa Costituzione), ma altrettanto è chiaro, secondo molte di noi, che la tenuta di una legge quadro che fa del soggetto libero ed eguale il suo pilastro, avrebbe finito col ricomprenderci autorizzando un conflitto politico finalizzato.

Abbiamo dovuto constatare che negli ultimi anni questi valori sono smentiti dal modello sociale che pratica la supremazia dei mercati, che concentra la ricchezza nelle mani di una percentuale sempre più ristretta di persone ai danni della stragrande maggioranza degli altri, ridotti in povertà, che trasforma il lavoro in precariato, che riduce i diritti sociali e le opportunità culturali, che blocca l’ascensore sociale riservando i piani alti a ristrette oligarchie che dominano la scena politica italiana, europea, mondiale.

Queste ineguaglianze sociali senza apparente via di uscita, da anni mettono a rischio la democrazia partecipata in favore di una cittadinanza censitaria ove i diritti non sono universalmente garantiti, ma distribuiti in modo difforme che dipende dalle risorse disponibili da ognuno per acquisirli. La logica mercantile che viene presentata come legge ineluttabile erode in modo silenzioso i pilastri della “società giusta che la Costituzione ci indica” (cito dal manifesto “La via maestra”).

Con l’attuale governo di larghe intese, scelto impropriamente dal Presidente della Repubblica impropriamente rieletto e non dai cittadini attraverso rappresentanti liberamente eletti, l’attacco si è fatto diretto e si manifesta attraverso la volontà esplicita di modificare gran parte della Costituzione, ciò che rende necessaria un’azione di popolo per porvi freno.

Secondo me, ci si presenta l’occasione (da cogliere) per rovesciare anche il riformismo neoliberale a conduzione bipartisan che ci affligge da anni e mi auguro che la partecipazione del sindacato (FIOM, SPI CGIL, salvo altri) abbia il senso di imboccare finalmente con decisione questa strada. Cito sempre dal manifesto “ La via maestra ”: “La difesa della Costituzione è innanzitutto la promozione di un’idea di società divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e ora operano per manometterla formalmente”.

Dal mio punto di vista, difenderla significa portare i valori affermati ad ulteriori effetti attraverso un’opera di parziale modificazione di senso che la adeguino senza aporie ai principi fondamentali in essa contenuti. In primo luogo bisogna contrastare il consolidamento del potere nelle mani di una oligarchia ristretta e curare la compiutezza e l’estensione dei diritti di cittadinanza. Mi soffermo su questo aspetto che è quello maggiormente attinente al progetto di controriforma costituzionale.

Non è da oggi che la democrazia italiana si manifesta come a-partecipata, corrosa alle fondamenta da forme oligarchiche di rappresentanza, pur mantenendo formalmente il medesimo assetto costituzionale. Non è quindi per caso che le critiche ricorrenti sia a destra che a sinistra esitino ora nel tentativo aperto di scardinarne l’assetto in favore di una governabilità che mira alla concentrazione dei poteri nell’esecutivo e allo svilimento ulteriore del ruolo del Parlamento, già attualmente “carente di legalità costituzionale” (espressione di G. Zagrebelsky) a causa della legge elettorale.

Secondo me la situazione attuale mostra gli esiti di un peccato originale: la esclusione di fatto di una gran parte della cittadinanza dalla gestione della cosa pubblica. Mi riferisco alla quasi totale assenza femminile dallo spazio pubblico, dall’esercizio compiuto ed effettivo del diritto di cittadinanza. Un’assenza che, secondo me, determina debolezza politica e sociale. La cittadinanza giuridica formale è assicurata alle donne, ma la carenza di cittadinanza politica (la evidente povertà di presenza nelle istituzioni rappresentative) mette continuamente a repentaglio autodeterminazione e persino diritti della personalità della metà del genere umano.

Questo è il risultato di una condizione di esclusione cui concorrono pratiche istituzionali, definizioni giuridiche, interessi economici. Un dato da non sottovalutare è, infatti, il vantaggio maschile. Non pare opportuno tenere il discorso su un piano di disinteressata superiorità, poiché tale atteggiamento è spesso foriero di miseria materiale e anche simbolica.

Occorre prendere in attenta considerazione il piano materiale. Su questo piano, è palese il guadagno che dalla debolezza politica e sociale femminile consegue agli uomini, anche ai meno dotati: servizi alla persona, cura delle relazioni, eliminazione di concorrenza per posti di potere e di danaro. Con questo esito evidente: il sistema così strutturato tende incessantemente a ridurre la donna a una condizione pre-giuridica dove è fatalmente dominata dalla legge creata dall’altro, priva della reale possibilità di modificare le regole del vivere associato. Sembra, allora, necessario partire dalla tradizionale esclusione femminile dal governo della cosa pubblica per incardinare un conflitto per la partecipazione che è l’unico modo di garantire universalità ai diritti per tutti. Colmare lacune di effettività nella cittadinanza passando dalla cittadinanza giuridica a quella politica, non vuol dire, secondo me, impegnare le donne nel fornire ossigeno a una democrazia ormai comatosa, ma dare corso a pratica e pensiero differenti, capaci di modificarne radicalmente l’orizzonte.

Divenire parte significativa del soggetto costituente della democrazia significa, in prima istanza, contrastare esclusione e violenza contro le donne, segregate in ruoli tradizionali di erogatrici di servizi. (Vi è una violenza implicita nella esclusione delle donne dallo spazio pubblico e dal potere di prendere le decisioni che contano, un implicito giudizio svalorizzante che considero condizione predisponente di ogni violenza manifesta, una sottrazione di democrazia partecipata, quindi una sottrazione di democrazia per la metà del genere umano, quindi per il genere umano complessivamente inteso).

E’ ora più che mai necessario contrastare l’appropriazione del potere decisionale da parte di pochi scelti per cooptazione, che costituisce appropriazione privata della democrazia. Ciò significa allargare il corpo politico come condizione per l’ampliamento di relazioni, di scambi discorsivi che modificano la cittadinanza, la rendono plurima, condivisa fra differenti. Ancora oggi, nel corpo sovrano autonormante (cioè fra i titolari dei diritti di cittadinanza) non tutti sono membri a pieno titolo.

Vi sono alcuni che, pur residenti nel territorio, non godono a pieno titolo dei diritti di appartenenza al corpo politico e al progetto di cittadinanza: le donne e tutti coloro che a causa di un significativo criterio identitario, non rispondono ai requisiti in base ai quali il popolo riconosce se stesso: provengono da altri territori, appartengono ad altre etnie. Anch’essi non partecipano alla elaborazione delle regole che presiedono alla convivenza: sono soggetti eteronormati, estraniati dalla ricerca del bene comune, deresponsabilizzati. Occorre, allora, individuare misure capaci di favorire l’accesso allargato allo spazio pubblico, dare a ciascun soggetto libertà e responsabilità nel mondo, là dove ognuno diviene visibile e udibile (H. Arendt “ Il diritto di avere diritti ”).

Il compito prioritario della democrazia partecipata, potrebbe essere quello di mettere in comunicazione esperienze diversificate per fondare una cittadinanza plurisoggettiva e cosmopolita, destinata a creare un apparato di regole universali che possano filtrare le differenze senza opprimerle nell’unicità, favorendo il gioco e lo scambio per la modificazione reciproca Un sistema politico democratico dovrebbe curare che le persone non partecipino solo come votanti, ma come agenti delle proprie esperienze, ragioni e desideri, come responsabili di decisioni collettive condivise. La democratizzazione delle istituzioni richiede procedure di allargamento delle sedi di discussione e dei livelli decisionali circa i mezzi e i fini che la società si propone, suppone la riorganizzazione delle regole che riguardano il processo decisionale per estenderle a tutti, sia in termini di produzione che in termini di (convinta) osservanza.

Ognuno vede che oggi non è così.

La situazione attuale si segnala, anche (o soprattutto) in conseguenza del peccato originale di cui abbiamo detto, per una esclusione sempre più ampia dai diritti di cittadinanza: il piano inclinato della negazione coinvolge, dopo le donne e lo straniero, tutti quanti.

Prova ne è la legge elettorale giustamente definita “porcellum” che nega a tutti i cittadini il diritto costituzionale di scegliere liberamente i propri rappresentanti in Parlamento. Che è anticostituzionale e dovrebbe da gran tempo essere modificata, ma, pur figurando in vari programmi elettorali e di governo, resta inesorabilmente collocata nelle retrovie delle azioni “riformatrici”.

Il principio discende dall’art. 1 c. 2 della Costituzione (“la sovranità appartiene al popolo”) che lo precisa all’art. 48 (“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto…..Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile…” ) Inoltre deputati e senatori sono eletti per suffragio universale e diretto (art. 56 e 58Costituzione). Il principio costituzionale di rappresentanza diretta significa che l’esercizio del diritto di voto non può essere delegato né ceduto ad altri.

Il sistema introdotto dall’attuale legge elettorale ha sottratto ai cittadini la possibilità di esprimere la propria preferenza per un candidato: la lista bloccata e l’ordine di elencazione rimette la scelta e la possibilità di conseguire la carica, di fatto, alle segreterie dei Partiti. Con conseguenze gravissime: la sudditanza dei nominati/eletti verso i selezionatori ha sostituito la responsabilità politica verso i cittadini, con esiti purtroppo devastanti, come è ben noto. La rappresentanza è sostituita dalla rappresentazione della politica spettacolo: una “classe dirigente” più abituata ai talk show televisivi che ai conflitti parlamentari, più all’uso del pulsante che alla elaborazione legislativa, più alla fiducia acritica che al confronto di idee.

Lo spazio pubblico è occupato da una classe politica maschile in via esclusiva, un’esclusiva che mortifica competenza, intelligenza delle relazioni, differenza, critica dell’esistente, ciò che nega il merito e ci conduce al peggio. La polis a sesso unico ha avuto come esito prevedibile l’occupazione delle istituzioni (non più rappresentative) ad opera di apparati a leader unico, quindi la gestione a uno o a pochi delle esistenze di milioni di individui, soggetti a decisioni altrui, prese senza la loro, ormai superflua, partecipazione. Ci troviamo in un autentico ginepraio - dal quale non sarà facile trovare vie di uscita – una situazione che non è stata promossa dalle donne, ma si è realizzata anche grazie a indubbie complicità femminili. In questa situazione, non deve essere consentito a costoro di modificare l’ordinamento giuridico che ci ricomprende tutti.

A mio parere, un passo significativo va compiuto verso la democrazia partecipata dei due sessi, una democrazia che attui la pretesa di auto rappresentanza di tutti i soggetti, che elimini la marginalità delle donne nella sfera pubblica e le renda co-produttrici delle regole che governano il vivere associato. Oggi più che mai è necessario coltivare il patriottismo costituzionale che significa battersi per l’effettività dei suoi principi che prevedono la possibilità concreta di sviluppo delle capacità umane di tutti i soggetti, di qualunque sesso o razza, avendo come modello l’idea di una vita degna. Farò alcuni esempi che mi sembrano interessanti per la modifica/attuazione progressiva della Costituzione.

La regolamentazione dell’istituto famigliare degli articoli 29 e 31 della Costituzione richiederebbe una profonda ristrutturazione poichè le previsioni ivi contenute sono fortemente imitatrici dell’autodeterminazione femminile, quindi incompatibili con i valori dei primi tre articoli della Carta.

Il concetto di famiglia che manifestano interferisce pesantemente in termini negativi con la concezione di partecipazione attiva femminile alla cittadinanza.

La previsione esplicita è che l’eguaglianza morale e giuridica fra i soggetti possa essere limitata in favore dell’unità famigliare. Espressione che allude alla priorità decisionale conferita al marito, che esita nell’unicità del soggetto titolato ad essere in comunicazione con la sfera politico sociale.

La responsabilità dell’uomo nella sfera pubblica riguarda, quindi, secondo queste regole, lui stesso come cittadino in prima persona e, in più, sempre lui come rappresentante della sua cellula famigliare. Ciò toglie soggettività ai membri di questa istituzione e in particolare alla donna, per tutto il tempo dell’appartenenza.

L’ideologia della famiglia conferisce alla cittadinanza tratteggiata nella Costituzione una dimensione sessuata maschile che sarebbe improprio mettere in ombra.

Qui appare in trasparenza la costituzione materiale di stampo patriarcale che nega l’eguaglianza proclamata come universale nei precedenti art. 2 e 3 della stessa Carta.

La natura di patto prevalentemente improntato a una socialità esclusivamente maschile

Si evidenzia anche nel sistema degli artt. 36 e 37 della Costituzione, che rispondono alla stessa logica familistica e certificano lo scandalo, tuttora esistente, della divisione sessista del lavoro di cura e per il mercato, cui consegue la ineguaglianza fra i generi sul piano della giustizia sociale. Anche questi articoli necessitano di revisione che attui i valori fondamentali.

Inoltre, l’art. 13 della Costituzione, alla luce dell’esperienza storica, dovrebbe contenere l’affermazione esplicita che la libertà personale va intesa come inviolabilità del corpo e dell’autodeterminazione riproduttiva femminile, contro ogni tentativo di attribuzione di personalità o capacità giuridica all’embrione fin dal concepimento. (L. 40/2003). Ciò che mi pare strettamente connesso alla radicale ristrutturazione dell’art. 29, già menzionato.

Anche l’art. 32 che tutela la salute come bene primario del singolo e interesse fondamentale della collettività, dovrebbe esplicitare una funzione da baluardo per la libera autodeterminazione riproduttiva.

L’art. 35 dovrebbe contenere la previsione di tutela per il lavoro produttivo e per quello di riproduzione sociale in tutte le sue forme.

L’art. 36 dovrebbe tralasciare qualsiasi riferimento al sostentamento della famiglia e prendere piuttosto in considerazione, le persone economicamente dipendenti dalla lavoratrice o dal lavoratore.

L’art. 37 dovrebbe tralasciare ogni riferimento alla funzione famigliare della donna lavoratrice e menzionare, invece, misure di effettività per la partecipazione al lavoro dei due soggetti sessuati.

La Costituzione del 1948 domanda interventi di attuazione e miglioramento progressista in termini di allargamento della partecipazione alla res publica. Il contrario del restringimento nel governo oligarchico che si tenta di approntare. Il compito di contrastare la deriva autoritaria e anticostituzionale in atto spetta, secondo me, a tutte le forze progressiste e ai movimenti, in particolare, a quello femminista.

Penso che le femministe debbano assumersi la responsabilità di partecipare, di rimettere in moto un processo democratico allargato praticando conflittualità contro l’assetto presente, decostruendo il diritto nominale di partecipazione in favore di una effettività capace di indurre nelle regole dell’ordinamento il segno di valore di ogni differente essere umano.

Concludendo, è necessario agire conflitti fra loro coordinati capaci di scuotere la cornice obbligante nella quale ci troviamo, contrastarla collettivamente ponendo riparo al danno sociale che consegue alla dispersione nell’individualismo, dare risposte adeguate anche e prioritariamente ai gravi problemi di ingiustizia sociale che stanno affossando ogni parvenza di democrazia partecipata e inclusiva.


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