IFE Italia

Le mutazioni famigliari

Rachele Gonnelli intervista Paul Ginsborg
domenica 1 dicembre 2013

Tratto da l’Unità del 27.10.13

La storia del novecento ha tante declinazioni. c’è la storia diplomatica, politica, sociale, di genere, quella delle donne, e così via. ma la storia della famiglia finora è stata largamente tralasciata. Paul Ginsborg per spiegare il perché di questa dimenticanza «non so se si può parlare di dimenticanza o forse di una vera e propria cecità, perché diamo la famiglia per scontata» racconta la risposta avuta da una sociologa spagnola. «Mise le mani a rete sugli occhi e mi disse: vedi, siamo così vicini alla famiglia che non riusciamo a vedere attraverso la grata».

Ginsborg per la verità, a cui piace intervallare grandi affreschi storico-culturali a microstorie (Salviamo l’Italia è del 2010), ha da sempre messo al centro della sua indagine questo attore sociale. E del resto uno dei suoi primi lavori è stato L’Italia del tempo presente, dedicato ai rapporti tra famiglia, Stato e società in Italia negli anni 80 e primi 90 del secolo scorso. Ora si pone un obiettivo più ambizioso «probabilmente il mio più ambizioso», ammette che è mettere la grande Storia novecentesca, della prima metà del secolo, la più travagliata sia per gli individui sia per gli Stati-nazione, sotto la lente delle dinamiche familiari. Il libro uscirà tra circa un mese, sempre per Einaudi, e parlerà non solo dell’Italia principale campo di ricerca dello storico inglese trapiantato in Toscana ma anche di altre quattro nazioni nei momenti più tragici e epocali, di più profonda trasformazione: la Russia dei soviet, la Turchia di Ataturk, la Spagna della guerra civile, la Germania dell’avvento del nazismo. Non si tratta di una ricerca archivistica, ma piuttosto di un vasto lavoro basato su metodologie diverse, da quella comparata al diritto di famiglia, dalla letteratura alla pittura, dai diari alle corrispondenze epistolari. Concentrando l’attenzione anche sulle vicende di alcuni personaggi storici di secondo piano, da Alexandra Kollontaj a Joseph Goebbels, «scelti per quello che hanno scritto sulla famiglia o per storie familiari particolarmente affascinanti».

La famiglia come campo d’indagine. Perchè questa scelta?

«Mi sono dato il compito di rimettere, o meglio di mettere per la prima volta, tutte le tematiche della famiglia in rapporto con la Storia con la esse maiuscola, in modo da far emergere le caratteristiche di fondo delle grandi trasformazioni che hanno interessato gli Stati-nazione nella prima parte del ’900. Credo sia fondamentale riuscire a connettere la famiglia con la società civile e questa allo Stato. È ciò che si può chiamare la “catena d’oro”. Serve una famiglia che non si chiude agli interessi solo della famiglia in sé, in conflitto con le altre, serve poi una società civile che offra possibilità di esprimersi in associazioni e azioni collettive e serve uno Stato sensibile a queste domande sociali, non clientelari, per una redistribuzione della ricchezza, che è il problema principale del nostro tempo. Purtroppo la sinistra ha stentato molto a capire l’importanza di questa connettività, di questa catena d’oro. Il primo convegno sulla famiglia del Pci data 1964, tardissimo. Invece di riflettere sul ruolo e la funzione della famiglia per decenni si è delegato il tema ai democristiani di turno. La famiglia in Italia e in Europa troppo spesso è stata preda del familismo. La sua strategia rischia di fermarsi ai suoi consumi, alle sue vacanze, a priorità ristrette. Invece di connettersi alle associazioni della società civile, di occuparsi almeno in minima parte dei grandi temi brucianti del secondo ’900 come l’ambiente, l’equità e anche le responsabilità verso l’altra sponda del Mediterraneo, come si vede dalle tragedie dei migranti di questi giorni».

  Anche lei pensa che la famiglia sia l’istituto immanente, unica malta di una società frantumata?

«Dipende dal tempo che si prende in esame. La famiglia in Europa nella prima metà del ’900 era semplice, dominata da problemi di sopravvivenza, dovendo reggere a livelli di violenza statale e non senza precedenti come durante la Prima guerra mondiale, le guerre civili, le carestie. Aveva un livello di connettività più forte e esteso, penso alla famiglia mezzadrile o alla famiglia padana delle lotte bracciantili dei primi del secolo. Oggi è una famiglia long and thin, lunga, dove i figli restano per tanto nella casa dei genitori, e ristretta, dove trionfano strategie famigliari basete troppo spesso sul consumo e sulla passività. A volte penso che la condizione della famiglia italiana oggi sia persino drammatica. Perché c’è un esercito di disoccupati giovani e anche di disoccupati di mezz’età senza mezzi di sussistenza che sono sempre più dipendenti dalle famiglie. Sono impressionanti le cifre della diminuzione del risparmio familiare negli ultimi cinque anni. Significa che si stanno prosciugando la pensione e il tesoretto del nonno, le riserve messe da parte negli ultimi 40-50 anni, per sostenere figli e nipoti. Non so quanto ancora il sistema della famiglia italiana possa resistere. Finite queste risorse i figli e i nipoti potrebbero passare dalla passività alla rabbia. Come nella Germania degli anni ‘29-33 quando di fronte alla pressione di questa massa di disoccupati, quando le famiglie non ce la fecero più, la rabbia fu incanalata verso l’ebreo, il rom, l’omosessuale».

La famiglia è ritenuta responsabile nel male e nel bene di gran parte dei caratteri tipici degli italiani. Ma soprattutto del familismo patriarcale, da cui si dipana non solo l’arretratezza della condizione femminile ma anche il clientelismo e in un ultima istanza la mafia. Anche per lei è questo Giano bifronte?

«Sì, penso sia un’espressione corretta. È un luogo di forti passioni, grandi generosità fra generazioni e grandi egoismi. Con la restrizione del mercato del lavoro e l’approfondirsi della crisi che dura ormai dal 2008 gli elementi criticabili come il familismo e le clientele, che fanno riferimento a obiettivi strettamente a breve termine di una famiglia singola contro le altre, si vanno rafforzando».

Dal Risorgimento al fascismo agli anni Settanta, non è forse che a ogni vero mutamento sociale abbiamo assistito a una scomposizione e ricomposizione della famiglia?

«No. Nel Risorgimento come dice Tancredi nel Gattopardo tutto doveva cambiare per rimanere uguale. È anche vero che molte grandi figure risorgimentali avevano situazioni familiari insoddisfacenti o inesistenti, da Mazzini a D’Azeglio allo stesso Cavour. L’unico con una famiglia diciamo “normale” era Daniele Manin. Si dedicavano alla causa e non alla famiglia, questo è vero. Nel fascismo il quadro interpretativo è però totalmente differente, il regime è subordinato alla Chiesa cattolica che pretende e ottiene con il Concordato l’affermarsi del modello cattolico della famiglia in ogni angolo della penisola. Negli anni 60 e 70 del ’900 è ancora diverso. I giovani meridionali lasciano la casa per trovare impiego nelle grandi fabbriche fordiste del Nord e mutano priorità: dalla famiglia all’amicizia. Ma è una parentesi. Negli anni 80, quelli del postmoderno, tutte le fratture si ricompongono e di nuovo la famiglia torna al primo posto. Perché la trasformazione immaginata non si è realizzata. Il ’68 pur avendoci lasciato tracce bellissime, con le sue aspettative di trasformazione della società e anche dei legami interpersonali, è una sconfitta e una chimera, sia in Europa che negli Usa. E si torna indietro. Anche allora la sinistra, più o meno radicale, non riflette sulla famiglia. A partire dalle teorizzazioni di David Cooper sulla morte della famiglia c’è chi sperimenta nuove forme del vivere insieme, per una nuova connettività: le comuni. Ma sono esperimenti falliti in tutti i Paesi nel giro di 5-10 anni. Non ho simpatia politica e culturale per queste teorizzazioni. Ciò che è rimasto da quella battaglia generazionale è una maggiore libertà sessuale dei figli e un modello di famiglia rinegoziato».

Anche il berlusconismo riguarda la famiglia. Nel senso che la lascia più sola davanti alla tv?

«È complicato. Diciamo che il berlusconismo ha rafforzato il modello che veniva dagli Usa negli anni 80, per rafforzarlo lo ha interpretato potenziando il modello di famiglia basato sul familismo e sul clan. Vorrei dire che la famiglia non è più sola di prima ma ho paura che sia così»


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