IFE Italia

Voci di donne deportate

di Miuccia Gigante
domenica 26 gennaio 2014

Dal sito: www.deportati.it/voci_di_don...

27 gennaio 2014: giornata della Memoria.

Per non dimenticare.

Da alcun anni all’ANED stiamo svolgendo una ricerca sulla deportazione femminile, che si basa sulla raccolta delle testimonianze delle donne sopravvissute ai lager nazisti. Abbiamo rilevato, infatti, che nelle memorialistiche sulla deportazione, che pure annovera ricerche pregevolissime, manca una specifica e puntuale ricerca sulla deportazione femminile; alla quale si debbono riconoscere peculiarità particolarissime, che riguardano non solo le ragioni delle scelte di lotta delle donne, ma anche le ferite conseguenti alla loro separazione dalla fanúglia, dai figli, al loro impatto con la prormscuità dei lager, e che riguardano, infine ’ l’aggressione alla riservatezza, alla sensibilitá e alle necessità femminili, nel lavoro e nella vita del campo; e le difficoltà incontrate dalle superstiti, al momento del rientro, per il reinserimento nella famiglia e nella società. Tutto questo, sino ad oggi, non è mai stato oggetto di specifiche e puntuali ricerche. Una lacuna gravissima, dunque.

A tutt’oggi siamo riusciti a raccogliere 260 testimonianze. Ottenerle non è sempre stato facile. Alcune compagne hanno risposto inviandoci una dettagliata testimonianza, altre, facendo riferimento a qualcosa già scritto e pubblicato anni fa, altre ancora hanno dichiarato di non volere più ricordare questo periodo tanto tragicamente vissuto. Le compagne con le quali siamo riuscite ad avere un’intervista: l’operaia che ha partecipato agli scioperi del ’44, la gappista, la partigiana, la politica, l’ebrea, hanno tutte risposto con grande sincerità e ricchezza di particolari alle nostre domande, consapevoli che queste loro memone serviranno a far conoscere e comprendere meglio tutti gli aspetti di un periodo tragico della nostra storia. Gli storici sanno che le testimonianze "tardive" possono essere inquinate da dimenticanze, omissioni e deformazioni, volute e inconsce. L’interpretazione, sia pure soggettiva, svolge tuttavia una funzione fondamentale nel ricordare gli avvenimenti, perché tutti cercano di dare un significato a ogni situazione. Gli stessi storici ritengono però che la testimonianza orae arricchisca sempre il patrimonio inestimabile della storia scritta.

Dalle testimonianze finora raccolte emerge un importante aspetto della deportazione, soprattutto femminile, sovente sottovalutato: quello che potrebbe essere definito "il dramma del ritorno". L’incredulità e l’indifferenza di chi non ha conosciuto i Lager si evidenziano in una totale mancanza di interesse per la tragica esperienza della donna; ciò ha condotto molte deportate ad un graduale isolamento e ad un dannoso ripiegamento su se stesse, mentre diverse patologie s’impadroniscono e turbano ancora oggi il loro stato fisico e psichico. Ad esempio, un’anziana deportata ebrea è tormentata da musiche e suoni che aveva udito nel lager e che improvvisamente le rimbombano nelle orecchie, come se ancora oggi si trovasse rinchiusa ad Auschwitz. Oltre a quella appena ricordata, sono moltissime le compagne che hanno parlato di ricorrenti dolorosi ricordi che continuano a turbare, da quarantotto anni, le loro menti, sino a degenerare in vere e proprie psicosi, trascinandole in frequenti crisi depressive. Di altre sappiamo che trascorrono periodi più o meno lunghi in ospedali e luoghi di soggiomo climatico, per forme di tubercolosi, gravi disturbi cardiaci, forme acute di insufficienze respiratorie e affette da arterioselerosi precoce che degenera in stati depressivi e di rifiuto della vita. E per alcune donne non è mai cessata la sofferenza indicibile (che infatti non riescono a dire se non con enorme pena) di essere state violentate; quindi doppiamente annullate, nella dignità e nella libertà.

Dalle testimonianze raccolte si manifesta una specificità della deportazione femminile che coinvolse anche donne che in quel tempo erano prive di qualsiasi consapevolezza politica. E il caso ad esempio di Loredana, operaia alla Caproni, deportata perché, essendo a casa influenzata, durante gli scioperi del ’44, fu accusata di avervi partecipato; arrestata nella propria abitazìone dai militi della MUTI, dopo un rapido interrogatorio, le comunicano che sarà inviata al lavoro obbliaatorio in Germania e finirà ad Auschwitz; oppure si può ricordare il caso di Enrichetta, che fu deportata a Rawensbrück solo perché si presenta ai nazisti per far liberare il padre, accusato di aiutare i partigiani. E al suo ritorno dal campo fu rifiutata dalla famiglia. In generale si può dire che coloro che, nell’ambito della famiglia, hanno potuto parlare della loro esperienza, sono quelle che meglio si sono inserite nella vita sociale. Resta difficile dire in quale misura l’esperienza del lager abbia influito sulle deportate e sul loro rapporto con la società. La raccolta di notizie di tutto quel vissuto, che è stato il lager, deve essere seguita dalla conoscenza del l’atteggiamento che ogni donna deportata ha avuto, in seguito, nell’inserimento nella vita comune e nell’affrontare lo svolgersi delle vicende quotidiane. Molte donne parteciparono alla Resistenza assicurando il collegamento fra i centri abitati e le formazioni partigiane, portando armi e viveri, curando feriti, aiutando gli ebrei a nascondersi. La partigiana Sandra venne arrestata il 12 settembre 1944 in piazza Argentina a Milano perché portava ordini, armi, e teneva i collegamenti fra i gruppi gappisti e il loro comando. Dopo lunghi interrogatori, durante i quali veniva ripetutamente picchiata, dalla casa del Fascio di Monza fu mandata al campo di Bolzano. Di questo periodo ricorda il duro lavoro e una fame spaventosa. Bice viene arrestata nel giugno 1944 poiché la sua casa era diventata un ritrovo dove, con le sorelle partigiane, si organizzavano riunioni clandestine con giovani antifascisti di vari orientamenti politici; compresi due sacerdoti. Dal carcere di Mantova fu trasferita alla Fortezza di Verona per essere fucilata, ma poi fu deportata ad Auschwitz.

Nel 1943 iniziarono le deportazioni di intere farniglie di ebrei: i vecchi, i bambini e gli infermi venivano, all’arrivo al campo, subito inviati alle camere a gas. Nella memoria di Loredana sono ancora vive le scene di disperazione all’arrivo dei convogli a Birkenau, quando le famiglie ebree venivano divise, le mogli dai mariti, i figli dai genitori anziani, e i bimbi venivano mandati alle camere a oas con le loro madri. Clara Pirani Cardosi, ebrea italiana coniugata in matrimonio misto, nel maggio del 1944 fu arrestata nella sua abitazione dalla Questura italiana, trasferita a San Vittore, poi al campo di Fossoli e da qui, nell’agosto del ’44, con l’ultimo convoglio di 300 ebrei misti, giunse ad Auschwitz. La stragrande maggioranza delle donne deportate, ebree e non ebree, fossero esse state partecipi della lotta politica o no, è accomunata dall’aver provato traurni laceranti per gli orrori che conobbero fin dall’arrivo nei campi, tanto che ancora oggi, in molte, rimane l’incapacità di darsi ragione di ciò che pure hanno vissuto. Ciò che ha accomunato tutte le donne che abbiamo intervistato, fossero esse deportate politiche, ebree o zingare, era il sentimento di solidarietà verso le loro compagne di sventura, tra le quali non esisteva discriminazione per differenze di relìgione, tradizioni, lingue, costumi, educazione. Questa stessa so- lidarietà ha permesso a molte di loro di fare ritorno nelle proprie case. Tutte vissero tragicamente la perdita dell’identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le brutalità degli aguzzini, vedersi un numero tatuato sul braccio, vedersi rasate a zero. Non erano più donne, non erano più individui. Nei campi si visse tragicamente anche l’esperienza della maternità: è il caso delle donne che si videro separate dai loro figli, come fu per tutte le donne ebree. E’ il caso anche di quella donna che perdette marito e due figli durante la lotta partigiana e infine, deportata anch’essa, dovette lasciare l’unico figlio che le era rimasto. Ed è anche il caso di quella donna che partorii ad Auschwitz e riuscì a nascondere la sua bambina grazie alla solidarietà delle compagne; e quante invece si videro strappare i loro piccoli appena nati. Anche la condizione delle figlie fu brutalizzata nei lager. La diciassettenne ebrea Agata lasciò sua madre all’ingresso di Auschwitz e quando chiese di lei, la Kapò le indicò con disprezzo il fumo di un ca"no urlandole: "Ecco, tua madre è là". E rilevante constatare come in tutte le testimonianze non ci sia assolutamente odio, ma solo volontà e speranza che certe esperienze non debbano più ripetersi. Tutte desiderano la Pace, anche se tutte, e sottolineo tutte, si pongono e ci pongono una sofferta domanda: è questo il mondo, è questa la società che speravano di costruire, coloro che sono sopravvissute ai Lager?


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