IFE Italia

L’universalismo non è un pranzo di gala

di Luciana Castellina
venerdì 30 gennaio 2015

Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo comparso su "Il Manifesto" del 13.01.2015. Per continuare a riflettere su diritti, laicità, fondamentalismi.

(...) E tut­ta­via inter­ro­garsi ancora è neces­sa­rio. Non sul ter­ro­ri­smo in sé, che è aber­rante e senza giustifica­zioni, ma su un pro­blema più gene­rale che ci deve pre­oc­cu­pare al di là dei gesti dispe­rati come quello di cui è stato vit­tima Char­lie Hebdo. Parlo dell’«universale sistema di valori»: siamo dav­vero sicuri che l’identificazione in quello che noi occi­den­tali defi­niamo uni­ver­sa­li­smo coin­volga tutta l’umanità, o non dob­biamo pren­dere atto che i valori della Rivo­lu­zione Fran­cese sono stati troppo logo­rati dalla sto­ria reale per poter rac­co­gliere un’adesione una­nime? Colo­nia­li­smo, guerra, dise­gua­glianze, esclu­sioni pesano e non potrebbe essere che così.

Non per que­sto, natu­ral­mente, si tratta di rinun­ciare all’ipotesi di costruire un «comune» reale, rifugian­dosi in un pigro relativismo.

L’universalismo è stato l’aspirazione sia delle rivo­lu­zioni bor­ghesi che di quelle pro­le­ta­rie dei secoli scorsi.

E però ha finito per essere, come era ine­vi­ta­bile, la pre­tesa di codi­fi­care come uni­ver­sale la cul­tura, l’etica, la visione del mondo, i com­por­ta­menti sociali dei vin­ci­tori. Nel con­creto: dell’occidente capi­ta­li­sta demo­cra­tico. Che non è cosa – inten­dia­moci – da but­tar via, basti pen­sare alle dit­ta­ture di ogni genere. Ma che non può certo pre­ten­dere di rap­pre­sen­tare il solo modello di moder­nità possibile, il solo che possa defi­nirsi civiltà. Non foss’altro per­ché a deter­mi­nare tale modello è stata solo una mino­ranza dell’umanità. Tut­tora lar­ga­mente esclusa, anche per­ché esclusa dal potere di infor­ma­zione, visto che il 90 per cento delle noti­zie su quanto accade sono in mano ai media occidentali.

Il pro­blema di defi­nire l’universalismo non era così impor­tante fin quando ognuno viveva a casa sua. Il colo­nia­li­smo, certo, aveva già creato non pochi pro­blemi, cer­cando di imporre con la forza la cul­tura della metro­poli, ma l’ usur­pa­zione era delo­ca­liz­zata. Oggi, per effetto della glo­ba­liz­za­zione, la diver­sità non è più dislo­cata geo­gra­fi­ca­mente, l’incontriamo all’angolo della strada, al supermarket, nella scuola dei nostri bam­bini, fra i vicini di casa. Per que­sto il tema è diven­tato così scot­tante e gestito da tutti, non solo dalla Legione Straniera.

E’ stato affron­tato in modi diversi nello stesso Occi­dente. La Fran­cia è stata più gene­rosa di altri paesi nell’accoglienza di coloro che erano por­ta­tori di diver­sità cul­tu­rali e reli­giose, per­ché ha aperto più degli altri le sue porte agli immi­grati. Ma a una con­di­zione: che accet­tas­sero di diven­tare fran­cesi fino in fondo, di essere inte­grati senza riserve nella Repub­blica. La vicenda del cha­dor dichia­rato ille­gale non è che un esempio.

Diverso l’approccio della Gran Bre­ta­gna, che ha con­cesso grande auto­no­mia nel pri­vato a chiun­que arri­vasse dall’Africa o dall’Asia, bastan­do­gli la disci­plina sul piano pub­blico. Non per libe­ra­lità, ma, come ebbe a dire con iro­nia il fon­da­tore dei post colo­nial stu­dies, Stuart Hull, per­ché razzisticamente con­vinti che tanto quei neri e quei gialli non sareb­bero mai stati capaci di diven­tare inglesi.

In epo­che più recenti i «buoni» hanno rico­no­sciuto il diritto alla diver­sità cul­tu­rale, e in pro­po­sito si è per­sino strap­pata, nel 2005, una Con­ven­zione dell’Unesco. In nome della quale si è pro­cla­mato il diritto per ogni comu­nità di pre­ser­vare la pro­pria cul­tura e di otte­nerne il rispetto. I nostri migliori sin­daci si sono ado­pe­rati a costruire moschee e cen­tri cul­tu­rali in cui ognuno potesse col­ti­vare per il pro­prio auto­con­sumo i pro­pri valori. (Mai però si sono impe­gnati a far sì che noi appren­des­simo almeno qual­che rudi­mento delle cul­ture di chi è venuto ad abi­tarci vicino!). Meglio che la prevarica­zione, o peg­gio l’oppressione e la per­se­cu­zione. Ma un mondo arlec­chino, con ognuno chiuso nel pro­prio ghetto, rap­pre­senta la rinun­cia all’universalismo. Le cul­ture non sono sementi che vanno con­ser­vate in nome della bio­di­ver­sità, se non cam­biano, non si inne­stano reci­pro­ca­mente, per­dono il dina­mi­smo indi­spen­sa­bile alla loro funzione antro­po­lo­gica. Un rela­ti­vi­smo estremo non è tol­le­ranza, è sordità.

Io non credo si debba rinun­ciare all’obiettivo di costruire un comune sistema di valori, sia pure conser­vando la ric­chezza delle diver­sità. E allora non ser­vono i ghetti, sia pure imma­gi­nati come pro­te­zione, così come li vive il chiu­sis­simo e rigi­dis­simo comu­ni­ta­ri­smo ame­ri­cano. Edward Said, il grande intel­let­tuale pale­sti­nese, diceva: «Le cul­ture dell’altro sono pre­ziose per noi, per dina­miz­zare le nostre società. Non si tratta di tol­le­rarle, facendo del mul­ti­cul­tu­ra­li­smo un fetic­cio, ma di assumerle come risorsa cri­tica di noi stessi».

Ecco, pro­prio que­sta frase di Said mi è venuta in mente in que­sta tra­gica occa­sione dell’eccidio di Parigi. Non voglio certo met­tere in discus­sione quanto in ter­mini di libertà indi­vi­duale abbiamo con­qui­stato con la rivo­lu­zione fran­cese, ma spin­gere a riflet­tere su aspetti della cul­tura araba e islamica – non ovvia­mente dell’Isis – che dovremmo assu­mere come utile cri­tica alla nostra cultura occi­den­tale. Penso alla cri­tica all’individualismo esa­spe­rato, ai diritti intesi come prerogativa asso­luta dell’individuo, innan­zi­tutto. E alla com­pe­ti­ti­vità anche bru­tale eletta a rango di regola essen­ziale, tanto è vero che que­sto prin­ci­pio è iscritto negli arti­coli fon­danti del Trat­tato dell’Unione Euro­pea, cui sem­pre più si sacri­fica ogni forma di soli­da­ri­smo, sì da aver gene­rato la più mostruosa disu­gua­glianza mai cono­sciuta nella storia.

Non c’è forse mate­ria per riflet­tere anche auto­cri­ti­ca­mente sul «moderno» che abbiamo creato, anziché riaf­fer­mare con fasti­diosa bal­danza la nostra supe­rio­rità, in nome di un canone occi­den­tale alta­mente fossilizzato?

La costru­zione di un uni­ver­sale comune, insomma, è obiet­tivo sto­rico da per­se­guire, ma nella consa­pe­vo­lezza che si tratta di un lungo e dif­fi­cile pro­cesso dia­lo­gico che potrà aver suc­cesso solo nella misura in cui tutti saranno stati posti in grado di con­tri­buire a defi­nirlo, per­ché dotati dello stesso potere di infor­ma­zione, di for­ma­zione, di conoscenze.

Attrez­zarsi a ren­dere que­sto pro­cesso pos­si­bile mi sem­bra il solo modo per evi­tare le osses­sioni prodotte dal con­tatto stretto fra cul­ture diverse che la glo­ba­liz­za­zione ha generato.

Non si tratta di un discorso teo­rico. Si tratta molto con­cre­ta­mente di ripen­sare alla cit­ta­di­nanza euro­pea, che non può più esser fon­data sulla comu­nità di san­gue ma non può nem­meno più esser fon­data sul solo legame col suolo. Le cul­ture sono infatti sem­pre più trans­na­zio­nali e il loro rapporto col ter­ri­to­rio è sem­pre più sog­getto a tem­po­ra­lità. Den­tro l’Europa stessa e per chi viene da fuori. Il «noi» e il «voi», e i con­fini che lo defi­ni­vano, sono ormai rimessi in discus­sione. Pren­dendo atto delle pro­por­zioni ormai assunte dai pro­cessi migra­tori, e di come que­sti esi­ges­sero una ridefinizione del para­digma di cit­ta­di­nanza, Jaques Attali, con­si­gliere di Mit­te­rand, diceva: «È il nomade il cit­ta­dino del futuro, non lo zap­pa­tore seden­ta­rio». E tenendo conto, per di più, che ogni cul­tura, in ogni parte del globo, è ormai attra­ver­sata da un immenso pro­cesso di rie­same, autodefinizione, autoa­na­lisi, in rela­zione al pre­sente e al pas­sato. Blin­dare l’immaginario den­tro con­fini sta­bi­liti appare sem­pre più eser­ci­zio degno di Salvini.

Non è facile, né ci si può accon­ten­tare del ten­ta­tivo uni­fi­ca­tore della potenza ege­mone, così come del super­fi­ciale «demo­cra­tico sguardo cosmo­po­lita» mitiz­zato da Ulrich Beck. La diver­sità cul­tu­rale non è un ter­mine indo­lore, non ci parla di «varietà» ma di con­trad­di­zioni dure; e di conflitti.

Per que­sto costruire un uni­ver­sa­li­smo vero non è un pranzo di gala. Anche solo per rag­giun­gere la defi­ni­zione che ne dava Fran­ce­sco De Mar­tino in «Fine del mondo»: «Quel fondo uni­ver­sal­mente umano in cui il pro­prio e l’alieno sono sop­pressi come due pos­si­bi­lità sto­ri­che di essere uomo».

Un opu­scolo che con­te­neva saggi e pro­po­ste su que­sto tema, redatto nel 2006 da Kevin Robins, un fun­zio­na­rio del Con­si­glio d’Europa (sem­pre assai più corag­gioso dell’Unione Euro­pea, anche perché l’organismo non ha poteri deli­be­ranti), con­clu­deva con scet­ti­ci­smo: «Tutto que­sto non sarà facile da parte di governi che suo­nano la tromba per esal­tare le virtù della glo­ba­liz­za­zione e della diver­sità, ma che poi blin­dano le fron­tiere dei loro paesi e raf­for­zano le misure di vigi­lanza con­tro l’ingresso dei migranti». (...)

La sicu­rezza con­tro il ter­ro­ri­smo va bene, ma se si pensa che saremo sicuri gra­zie a droni, truppe d’assalto e migranti che affo­gano nel Medi­ter­ra­neo, anzi­ché affi­darci alla poli­tica, non andremo lontano.


Home page | Contatti | Mappa del sito | | Statistiche delle visite | visite: 704474

Monitorare l'attività del sito it  Monitorare l'attività del sito MATERIALI DI APPROFONDIMENTO  Monitorare l'attività del sito 7.1 Genere,classe,razza,potere,democrazia,laicità   ?

Sito realizzato con SPIP 2.1.1 + AHUNTSIC

POLITICA DEI COOKIES

Immagini utilizzate nel sito, quando non autonomamente prodotte:

Artiste contemporanee :
Rosetta Acerbi "Amiche" per la rubrica "amiche di penna compagne di strada" dal suo sito
Renata Ferrari "Pensando da bimba" sito "www.artesimia5.it" per la rubrica "speranze e desideri"
Giovanna Garzoni "Fiori" per la Rubrica "L'Europa che vorremmo" sul sito artsblog
Tutti i diritti su tali immagini sono delle autrici sopra citate

Pittrici del passato:
Artemisia Gentileschi "La Musa della Storia" per la rubrica "A piccoli passi" da artinthepicture.com
Berthe Morisot "La culla" per la rubrica "Eccoci" sito reproarte.com
Mary Cassat "Donna in lettura in giardino" per la rubrica "Materiali di approfondimento" "Sito Salone degli artisti"

Creative Commons License