IFE Italia

Per una storia delle storie del femminismo - 4

di Lidia Cirillo
venerdì 3 aprile 2015

Pubblichiamo con il consenso dell’autrice.

Fonte: www.communianet.org

Una seconda domanda attraversa la storia delle storie del femminismo: “Chi è il nemico?”. Nella ricerca del potere che ha costruito la Donna oggi si incontra spesso Foucault, il quale risponde che il potere è dappertutto. La risposta è poco utile alla risoluzione del problema perché ciò che è dappertutto non è in nessun luogo e ciò da cui si è avvolte non si può colpire. Nella prima parte del suo lavoro Foucault usa talvolta un linguaggio in cui si avverte ancora la presenza della sua breve sosta nel partito comunista francese e la pallida immagine di un nemico ancora compare. Più tardi poi, quando si dedica all’analisi delle tecniche e dei dispositivi di potere, quel linguaggio scompare. Per la suggestione di altri discorsi e filosofie pensa a una rete di poteri stratificati e intersecati, espressione di una serie di posizioni in qualche modo dominanti. Anche quella di Foucault è una posizione dominante, di docente al Collège de France e di protagonista di un discorso filosofico, in cui si riflettono personali interessi e una specifica “volontà di potere”. Ma mentre Foucault elabora le sue teorie, che anticipano il tema dell’intersezionalità, il femminismo è da più di un secolo alla ricerca del suo Palazzo d’Inverno. E ha verificato e detto la difficoltà di procurarsene l’indirizzo e la pluralità dei poteri con cui la sua ricerca è stata costretta a fare in conti.

La complessa trama delle intersezioni

Si può tentare adesso di individuare le continuità e le rotture tra la prima e la seconda ondata femminista anche per quel che riguarda la domanda: “Chi è il nemico?”. Ma su questo tema sarà bene cominciare da fenomeni più recenti, che non costringono a lunghe ricostruzioni storiche. Più o meno verso la fine degli anni Ottanta nasce negli Stati Uniti il concetto di “intersezionalità”, che si riferisce al modo in cui i soggetti sono posizionati simultaneamente nella società e nelle gerarchie di potere. Anche questo nuovo orizzonte teorico è aperto da conflitti, da movimenti e da lotte presenti nella società statunitense, in modo particolare dalla presenza sulla scena politica di lesbiche, gay e trans e di donne e uomini afro-americani o africani-americani, come oggi si preferisce dire. E anche in questo caso vale l’affermazione hegeliana che la nottola di Minerva vola sempre al crepuscolo e cioè che la filosofia arriva quando la realtà è ormai bella e fatta. Le espressioni migliori del femminismo accademico hanno accolto e rielaborato i suggerimenti venuti dagli anni Sessanta e Settanta e in modo meno evidente anche nei decenni successivi con logiche più occasionali e frammentarie. Guardata dalla parte delle “vittime” la società nord-americana appare un insieme di relazioni di potere sovrapposte e intersecate, che si determinano e interagiscono reciprocamente. Le condizioni di esistenza delle donne reali appaiono quindi condizionate anche dalla classe e dalla razza, intesa come ordine gerarchico naturalizzato. Più tardi anche l’età, la nazionalità, l’appartenenza o meno a ex territori colonizzati si aggiungono come criteri di localizzazione dell’oppressione e della diseguaglianza. Viene criticata nel corso del dibattito l’idea ingenua che le molteplici oppressioni semplicemente si sommino e si insiste invece sulla capacità di ciascuna di agire sulle altre. Si rifiuta l’idea di una gerarchia, cioè della possibilità di decidere in astratto e a prescindere dalle vite reali quale sia la principale e quali le secondarie. Si dice che le priorità sono diverse, secondo le singole donne, secondo i contesti e le dinamiche specifiche dei conflitti sociali. La questione che complica il dibattito è appunto che non si tratta semplicemente di prendere atto che esistono altri rapporti di potere, ma di comprendere come ciascuno in un particolare contesto modifichi gli altri. Bisogna ammettere che non è facile leggere la trama complessa di società come quelle occidentali. L’intersezionalità infatti emigra anche in Europa e non solo perché discorsi e teorie femministe sono trans-nazionali, ma anche perché una dinamica di frammentazione dei conflitti investe lo stesso vecchio continente con la decomposizione del movimento operaio del Novecento. Per esempio l’idea che le nostre società siano caratterizzate da forme di gerontocrazia deve essere considerata vera e falsa contemporaneamente. Dall’ambiguità delle verifiche empiriche non si esce, se non subentrano altre griglie interpretative, per esempio quella della classe. Ne risulta che è vero che nella parte più alta della scala sociale domina la logica della gerontocrazia, perché chi ha il potere ha anche il potere di tenerselo ben stretto, finché morte non li separi. Ma è anche vero che se l’osservazione scende ai gradini inferiori della gerarchia sociale, le cose cambiano radicalmente. Il vecchio maschio ha una qualità di forza lavoro più usurata da vendere e con un valore minore nelle dinamiche concorrenziali con quella giovane. E se oggi è più evidente la logica opposta, se cioè tra le vecchie e le nuove generazioni sono le prime a mantenere un minimo di protezione e diritti, è per una semplice ragione. Perché nel corso del XX secolo la forza lavoro ha goduto nella società europea di un potere legato alla sua capacità di organizzarsi e lottare, di cui oggi le giovani generazioni sono prive. Quando si esce dalle residue reti di protezione conquistate in un passato, che diventa sempre più remoto, allora le relazioni di potere tornano a manifestarsi allo stato puro e un vecchio che abbia perso il posto di lavoro di rado riuscirà a trovarne un altro. Per le donne vecchie il discorso ancora cambia non solo perché nella ricerca di un’occupazione l’emarginazione avviene prima, ma anche perché di nuovo qualcosa (il genere) tende ad accomunarle al di là della classe e della razza. Il loro corpo viene cancellato come oggetto di desiderio molto prima di quanto sia cancellato quello maschile. L’asimmetria del rapporto tra età e sessualità tra donne e uomini è una delle espressioni più resistenti della collocazione subalterna delle donne nella vicenda della civiltà umana. Qualche altro esempio ancora. Sempre negli Stati Uniti i rapporti di potere fondati sulla razza hanno conosciuto un tipo di intersezione con quelli di classe assolutamente funzionale agli interessi delle formazioni sociali egemoni. Hanno cioè prodotto una gerarchizzazione razzista del lavoro salariato, che (tra l’altro) ha gravemente ostacolato la nascita di partiti operai di massa sul modello europeo. Se invece si prova a intersecare razza e genere, altri effetti diventano visibili. Angela Davis, africana americana impegnata nel conflitto di classe, nei primi anni Ottanta ha raccontato come nel periodo della schiavitù il corpo delle donne venisse trattato in modo assai diverso da quello delle donne bianche. E questa constatazione non vale solo per il periodo della schiavitù, perché quel periodo lascia alla società americana l’uovo di serpente di un razzismo radicato ormai nell’inconscio. “Negli anni in cui il movimento femminista bianco negli Stati Uniti (e nel resto dell’Occidente) lottava per il diritto all’aborto, le donne e le femministe africane-americane lottavano per il diritto a mettere al mondo bambine/i contro la politica di sterilizzazione volta a impedire la nascita di nuovi indesiderati di ‘razze inferiori’. Il campo dei diritti riproduttivi non è il solo nel quale i diversi posizionamenti delle donne dal punto di vista razziale, e di classe, ha dato vita a diverse strategie di lotta. Uno degli slogan principali del femminismo occidentale negli anni Sessanta e Settanta recitava ‘il personale è politico’ in contrapposizione all’idea liberale che separava la sfera pubblica appannaggio degli uomini e governata da relazioni di tipo politico ed economico, da quella privata appannaggio delle donne relegate alla cura. Con questo slogan si svelarono nella sfera pubblica e politica i rapporti di potere che costringevano le donne nella sfera privata. Sostiene Aida Hurtado: Le donne di colore non hanno goduto del privilegio economico che la distinzione pubblico/privato sottende. Piuttosto, la coscienza politica delle donne di colore deriva dalla consapevolezza che il pubblico è personalmente politico. I programmi e le politiche di welfare hanno ostacolato la vita familiare, i programmi di sterilizzazione hanno limitato i diritti riproduttivi [….] Non esiste una cosa paragonabile alla sfera privata per la gente di colore, eccetto quella che essa cerca di creare e proteggere in un ambiente ostile. Schematizzando, quindi, se alcune donne (bianche) hanno lottato e lottano ancora oggi affinché i loro vissuti e le loro rivendicazioni escano fuori dalla sfera domestica privata e invadano quella pubblica, altre donne (nere) nello stesso momento hanno lottato e lottano per sottrarre la propria sfera privata e domestica alle ingerenze e al controllo del potere pubblico. Il femminismo bianco middle class contestando la relegazione delle donne nella sfera privata ha rivendicato l’entrata nel mondo del lavoro come uno dei canali fondamentali di accesso alla sfera pubblica e di conquista di autonomia economica. Ma pensando alle condizioni di vita e di lavoro delle donne africane-americane dalla schiavitù in poi, il lavoro assume una valenza tutt’altro che liberatoria anzi è massacro e violenza” (B.D.V. La Straniera, n. 2 della nuova serie dei Quaderni Viola). Questo discorso ne ricorda altri in tempi diversi e con diverse protagoniste ma con una logica simile. Anche nella prima ondata femminista le intellettuali che parlavano in nome delle operaie, cioè per loro suggerimenti, avevano ricordato che le cose erano diverse per le donne delle classi sfruttate. Mentre le “femministe borghesi” avvertivano il matrimonio, la famiglia e la casa come prigioni, le operaie aspiravano a nozze di cui non si potevano permettere il costo, a una casa con le tendine che non fosse un loculo per vivi, a un po’ di tempo libero da dedicare a prole e compagni e magari un tantino anche a se stesse.

Sulle tracce del nemico

La difficoltà di trovare il nemico attraverso la trama dell’intersezione non si risolve con l’allegra conclusione che cercare un avversario è vittimismo e che bisogna camminare e fare senza curarsene. La via facilior è disseminata di buche e di trappole, nelle quali inevitabilmente si finisce per cascare se l’identità del nemico, e quindi le sue tecniche e i suoi dispositivi di potere, non sono sufficientemente conosciuti. Può invece aiutare prendere atto che la logica contraddittoria delle intersezioni si era già rivelata nella prima ondata femminista e nel lungo periodo di latenza del femminismo. Alla vigilia della prima guerra mondiale i movimenti di donne conoscevano una straordinaria ascesa: giganteschi cortei, grandi organizzazioni a cui aderiscono milioni di donne, sindacati e partiti costretti a mettere all’ordine del giorno la “questione femminile”. Questa dinamica virtuosa è spezzata dal conflitto e da un fenomeno chiamato “nazionalfemminismo”. La maggioranza delle donne politicamente attive “in quanto donne” si allinea alle ragioni delle proprie classi dominanti, l’alleanza tra donne si scioglie perché le donne del nemico sono anch’esse un nemico. E’ l’union sacrée, che vede allinearsi anche la maggioranza del movimento operaio, che clamorosamente contraddice quanto detto e giurato fino alla vigilia a proposito del militarismo e dei conflitti armati tra Stati. Ma la guerra non gioverà alla causa femminista. E’ vero che essa costituisce un’occasione senza precedenti di emancipazione, perché le donne sono chiamate a sostituire gli uomini impegnati al fronte. Ora la questione non è tanto che le donne, finita la guerra, saranno rispedite a casa. L’esperienza sarà stata comunque essenziale e cambierà non poco il loro modo di percepirsi e di essere percepite. La questione è che proprio la guerra scatena forze politiche che ripropongono le vecchie forme delle relazioni di potere fondate sul sesso e sul genere. In alcuni paesi dopo il conflitto il nazionalfemminismo otterrà l’accesso ai diritti politici, in cambio della fedeltà alle proprie classi dominanti. Nello stesso tempo il femminismo nel suo complesso entrerà in un lungo tunnel da cui uscirà solo alla metà degli anni Sessanta. L’acuirsi dei conflitti di classe a partire dal 1917, i fascismi europei, lo stalinismo, la preparazione e il massacro del secondo conflitto mondiale, la ricostruzione dell’Europa (difficile per vinti e vincitori ) portano praticamente alla sua scomparsa. Si capirà la ragione per cui negli anni Sessanta il separatismo diventerà una necessità vitale. Il tornare in vita del femminismo sarà possibile solo segnando di nuovo il confine dimenticato tra il “noi” e il “loro”, quello che separa donne e uomini, cioè corpi femminili da corpi maschili senza altre distinzioni. Più tardi, come si è visto, le lesbiche, le donne nere e in qualche caso anche operaie sindacalizzate interverranno a ricordare che dire “donne” non basta, perché il rischio è che angoli di visuali e interessi delle più forti vengano proposti come quelli di tutte. La storia del XX secolo ha offerto istruttivi esempi dell’importante nucleo di verità contenuto nella teoria delle intersezioni. E inevitabilmente dei suoi limiti. L’illusione che il conflitto di genere sia una questione di donne e di uomini talvolta ha duramente battuto il muso contro la realtà. Questo avviene per esempio, quando la Bund Deutscher Frauenbund, la maggiore organizzazione femminile e a suo modo femminista tedesca, salta sotto l’impatto della violenza nazista. I suoi frammenti in gran parte scompaiono per l’impossibilità di restare politicamente attivi. Quel che ancora continua a muoversi finisce nelle direzioni opposte dell’adesione al nazionalsocialismo e della clandestinità che gli resiste. Tuttavia una sconosciuta vicenda di qualche anno prima racconta che è possibile pensare a un’unità di genere dotata di una forte carica progressiva. Potrà sorprendere il fatto che nei primissimi anni della rivoluzione russa Clara Zetkin, che aveva più volte ed energicamente inveito contro il “femminismo borghese”, riuscì a convincere Lenin a fare della Russia sovietica la promotrice di un grande meeting internazionale femminista senza altre specificazioni. Anzi con la specificazione che l’incontro sarebbe stato aperto a tutte, a “pacifiste inglesi dall’atteggiamento di ladies, devote cristiane che godono della benedizione del pontefice o che giurano soltanto su Lutero…”. Dopo la morte di Lenin, Stalin cancellerà ogni forma di auto-organizzazione delle donne, malgrado gli inutili appelli di Zetkin alla quarta conferenza delle donne, che sarà irrevocabilmente l’ultima. Cade così anche il progetto di convocare femministe di ogni luogo e posizione, dietro il quale c’era evidentemente la convinzione che fosse possibile e auspicabile un movimento trasversale di donne. Sia pure solo per mettere il bastone tra le ruote all’avversario.

L’enigma non è ancora sciolto

Fin qui l’enigma dell’identità del nemico non è sciolto. Si può certo giustamente dire che bisogna trovare il modo di far convergere la lotta al sessismo, al razzismo e al classismo (ma il termine, nato evidentemente per assonanza, è improprio) e ai sistemi e alle istituzioni che li costituiscono e li perpetuano. Ma l’aspirazione non basta: la prova dei fatti continuamente rimanda a una frammentarietà che spontaneamente non converge e avrebbe bisogno per convergere prima di tutto di una segnaletica stradale che indicasse almeno la direzione comune verso cui incamminarsi. Se ne parlerà meglio in un prossimo articolo con l’aiuto delle Riflessioni Degeneri di Cinzia Arruzza, pubblicate dal sito di Communia e di un recente libro di Silvia Federici, “Il punto zero della rivoluzione”.


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