IFE Italia

Per una storia delle storie del femminismo.5

di Lidia Cirillo
domenica 19 aprile 2015

Quinta ed ultima puntata.

Fonte http://www.communianet.org/gender/u...

E’ stata necessaria la crisi perché qualcuna tentasse di nuovo un idenitikit del nemico. A dire il vero la stessa nozione di nemico aveva finito col tempo col perdere significato. In Italia in modo particolare si è infilato nella vulgata femminista un concetto proveniente da destra, il vittimismo, che risponde a suo modo ai temi dell’oppressione, dello sfruttamento e del dominio propri invece dei soggetti di liberazione e delle sinistre d’antan. Ma è noto che perdere la carta d’identità dell’avversario è molto pericoloso. Quando la disperazione e la rabbia si elevano oltre il livello di guardia, l’invisibilità del nemico autentico consente, a chi ha i mezzi per farlo, di additare nemici fasulli e capri espiatori.

Un vecchio e nuovo identikit del nemico

Nancy Fraser, femminista statunitense e docente di scienze politiche e sociali, ha pubblicato qualche anno fa un articolo sul The Guardian che qui da noi ha suscitato un tantino di discussione, subito spenta da una serie di autoassoluzioni. Di Fraser sono stati pubblicati in Italia anche un libro “Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista” e un’intervista a Repubblica del 31 marzo 2015. Nell’articolo, nel libro e nell’intervista vengono ripetute con diverse ampiezza e articolazioni più o meno le stesse idee. Il femminismo è diventato ancella del neoliberismo, si è fatto mainstream, dimenticando la prospettiva di un’emancipazione solidale che aveva guidato i suoi primi passi. Per la capacità del capitalismo di piegare ogni cambiamento alle esigenze del profitto, le aspirazioni femministe hanno subito una torsione che le ha rese sue complici. La critica alla famiglia monoreddito si è trasformata in idealizzazione dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro; il giusto rifiuto dell’economicismo in rinuncia alla lotta politica e sociale; la critica al paternalismo dello Stato sociale in celebrazione del privato. Per le donne – conclude Fraser nell’intervista a Repubblica – il passaggio dal modello fordista o keynesiano a quello neoliberista ha significato solo il passaggio da un modello di svantaggio a un altro modello di svantaggio. L’accusa al femminismo di essere stato sedotto dalle sirene neoliberiste si trova anche in un testo, “Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista”, in cui sono raccolti saggi scritti da Silvia Federici in periodi diversi, che vengono riproposti come attuali e che quindi devono essere considerati articolazioni dello stesso discorso. Anche Federici è stata docente e militante femminista negli Stati Uniti ed è autrice di numerosi saggi. Come Fraser, ma senza l’illusione di poter vincolare il capitalismo a finalità di giustizia che traspare nella conclusione dell’articolo del The Guardian, Federici critica l’abbandono dei temi della giustizia economica e della solidarietà. Come Fraser sostiene che il bilancio degli ultimi decenni non autorizza l’ottimismo diffuso negli ambienti femministi sugli effetti emancipatori della femminilizzazione del lavoro, che per le donne si è tradotta prima di tutto in aumento di sfruttamento e di fatica. E come Fraser ricorda che la “discriminazione di genere” non è solo un fatto culturale, ma ha radici materiali nell’organizzazione capitalistica del lavoro. La schiavitù – precisa – non è mai stata un atto mentale, che la coscienza in sé abbia il potere di dissolvere.

Ma che cosa significa ripetere oggi che il nemico è il capitalismo, quando tutte a suo tempo abbiamo risposto che i rapporti di potere fondati sul genere precedono la sua nascita e il suo sviluppo? Un’altra docente, molto più giovane ma costretta anch’essa a emigrare negli Stati Uniti, risponde in una serie di “Riflessioni Degeneri” pubblicate da communianet.org in cinque puntate. Cinzia Arruzza riprende il tema delle intersezioni per presentare la unitary theory con cui il femminismo accademico statunitense cerca di rimettere insieme i frammenti del conflitto sociale, indicando una direzione verso cui convergere tutti e quindi un nemico uguale per tutti. Che non si tratti solo di un’operazione letteraria e che qualcosa a livello sociale covi nel seno dell’imperialismo più forte, lo dimostra l’emergere di Occupy, malgrado il suo carattere effimero che Nancy Fraser nell’intervista a Repubblica attribuisce alla sensibilità neoanarchica di quel movimento. Nelle Riflessioni Arruzza mostra i limiti di un pensiero frammentato che fotografa le diverse relazioni di potere, senza coglierne l’unità intrinseca. Critica le teorie che non mettono a fuoco l’immagine del nemico: l’idea di un modo di produzione patriarcale interrelato con il capitalismo ma autonomo; quella che vede nel patriarcato un sistema ideologico indipendente, un processo di produzione di significati e interpretazioni del mondo; la tesi di un “capitalismo indifferente” che non avrebbe davvero bisogno di riprodurre le disuguaglianze di genere, di cui si limiterebbe a fare un uso strumentale. Si chiede poi se esista un principio organizzatore del rapporto tra i diversi sistemi di dominio e propone appunto una teoria unitaria che senza incertezze risponde alla domanda “Chi è il nemico?”. E’ la dinamica di accumulazione capitalistica che continuamente produce, riproduce, trasforma, mantiene gli altri rapporti di potere. Quelli fondati sul genere e sull’orientamento sessuale quindi sono momenti concreti di quell’insieme articolato, complesso e contraddittorio che è la società capitalista. Momenti certo dotati di caratteristiche proprie e specifiche e che vanno analizzati con strumenti specifici, ma che mantengono un rapporto interno con il processo di riproduzione della società secondo la logica dell’accumulazione capitalistica. Ma non si corre così il rischio di ricadere nell’economicismo, nella cecità di fronte al genere, nella delega al conflitto di classe di un altro conflitto, che è altra cosa e si realizza attraverso logiche diverse? Cinzia Arruzza risponde che il rischio non si corre, se si ripensa il capitalismo e si smette di considerarlo un insieme di meccanismi puramente economici per vederlo invece come un ordine sociale, contenente al suo interno rapporti di sfruttamento ma anche di dominio e alienazione.

Perché non ci convinsero

Lasciamo per un momento le Riflessioni Degeneri e torniamo al libro di Silvia Federici, in cui si trova a mio avviso una spiegazione delle ragioni per cui il femminismo marxista, quello che negli anni Settanta già individuava nel capitalismo il nemico, è risultato alla fine poco convincente. Alcuni anni fa in un numero della nuova serie dei Quaderni Viola, “Lavorare stanca”, si accennava all’esigenza di recuperare la parte migliore del lavoro delle femministe legate all’operaismo e che negli anni Settanta lanciarono la campagna del Salario al lavoro domestico. I meriti di quella specifica storia del femminismo consistono nell’aver ricordato che a un certo stadio di sviluppo ogni rapporto sociale è sussunto dal capitale e soprattutto di avere sottolineato lo spessore e l’importanza del lavoro di riproduzione come condizione della produzione di plusvalore. La proposta di salario al lavoro domestico concretizza invece i limiti dell’impostazione e degli argomenti di cui è la logica conseguenza. Non si tratta ovviamente di negare l’esigenza di forme di salarializzazione. Sono state di volta in volta rivendicate, senza che qualcuna avesse qualcosa da obiettare, le assicurazioni gratuite sugli incidenti in casa, la pensione anticipata, i congedi di maternità pagati in gran parte o per intero, i sussidi per il primo periodo di vita dei bambini, gli anni sabbatici salariati a donne e uomini per esigenze familiari ecc. Ciò che non convince e non convinse a suo tempo nemmeno le femministe più disponibili a pensare in termini di conflitto di classe, è la logica d’insieme della proposta. Non ha convinto l’idea, che Federici ripropone, della casalinga come soggetto centrale della lotta femminista, dimenticando che l’isolamento di ciascuna nella propria casa non è certo la condizione migliore dell’agire politico. Federici ricorda in proposito l’isolamento di alcune forme di lavoro femminile, ma se l’isolamento è una difficoltà, allora quella delle casalinghe deve essere considerata la posizione in cui più delle altre organizzarsi per dar vita a una lotta è difficile. Che il lavoro per il mercato non sia tout court l’emancipazione è un’idea del tutto condivisibile, ma che quel lavoro abbia facilitato le relazioni da cui nascono i soggetti collettivi e le lotte sociali è la semplice prova dei fatti. Non convince un’altra idea che si trova nello stesso testo, cioè che il salario sia una specie di tappa intermedia obbligata e funzionale a un successivo rifiuto. Federici infatti non usa gli argomenti di una certa cultura di destra, per la quale i sussidi hanno l’obiettivo di favorire la scelta delle donne di restare a casa ad assolvere i compiti per cui hanno una naturale propensione. L’obiettivo del salario al lavoro domestico sembra invece quello opposto. Si tratterebbe di realizzare attraverso la lotta per la salarializzazione l’obiettivo del riconoscimento della riproduzione come lavoro per il capitale, per suscitare poi una reazione collettiva di rifiuto.

Gli argomenti per contraddire entrambe le premesse della proposta politica sono articolati efficacemente dall’autrice stessa, che in uno dei saggi “Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione” spiega come e perché le donne negli Stati Uniti si sono comunque date alla fuga. La “rivolta contro il lavoro domestico”, come Federici intitola un paragrafo, negli anni Settanta ha prodotto con l’ingresso massiccio di donne nel mercato del lavoro anche alcuni significativi fenomeni che ne sono evidentemente le conseguenze. Per un certo periodo è stato protetto il welfare e rivalutato il lavoro domestico; sono arrivati alcuni dei riconoscimenti attesi, per esempio talvolta il lavoro domestico è stato incluso nel calcolo del Pil e della sua esistenza si è tenuto conto in cause di divorzio e in piani pensionistici; si è realizzato una specie di sciopero della maternità, a cui le donne sembrano disposte a rinunciare pur di non perdere il posto nel mercato del lavoro; gli uomini sembrano più propensi alla condivisione ed è venuta meno l’idea che il marito possa imporre prestazioni sessuali alla moglie; più facilmente sono denunciate le violenze domestiche. Dall’angolo di visuale italiano le considerazioni dell’autrice potrebbero apparire fin troppo ottimistiche, anche perché l’articolo è stato scritto in anni precedenti gli effetti del neoliberismo sulle capacità del lavoro salariato maschile e femminile di difendere con efficacia le proprie ragioni. Federici spiega la contraddizione tra la sua proposta e le modalità con cui la fuga è avvenuta con la distinzione tra strategia politica e necessità. Insomma quel che è accaduto non è il prodotto di una strategia politica, le donne sono fuggite da casa perché non hanno avuto alternative e si sono così ritrovate con un doppio lavoro, invece che con il pagamento di quello che già facevano. Ora la questione è che le strategie politiche che intervengono nei conflitti di genere non hanno le stesse caratteristiche di quelle di classe e si realizzano con modalità almeno in parte diverse. Il rifiuto del lavoro domestico è stato in gran parte l’effetto dei movimenti femministi cominciati negli Stati Uniti già negli anni Sessanta e quindi conseguenza di un fenomeno politico, a suo modo di una strategia politica. La commercializzazione del lavoro di riproduzione ha creato nuovi posti di lavoro per le donne, ma è stata anche la conseguenza di un desiderio di fuga che non è stato motivato solo dall’esigenza di un salario. Decisivo è stato il modo diverso con cui le donne hanno guardato a se stesse ed è per questo che la domanda “Che cosa è una donna?” è fondamentale e precede l’altra. Inoltre non esiste un progetto politico femminista che possa spingere le donne dall’interno all’esterno, esistono però (e sono state decisive) lotte capaci di rendere più agevole il lavoro delle donne per il mercato e possibile l’organizzazione sindacale e politica. C’è una lunga storia di lotte e rivendicazioni femminili che qui non è possibile raccontare, ma di cui più di una volta i Quaderni Viola hanno ricordato gli episodi più significativi. Vale la pena di citare soltanto un episodio relativamente recente e importante per durata, livelli di mobilitazione e qualità dei discorsi che l’hanno accompagnata. La lotta delle infermiere in Francia negli anni Ottanta contestò esplicitamente e con un’eco nell’opinione pubblica lo stereotipo della cura come naturale vocazione delle donne, in nome del lungo lavoro di qualificazione e con la conseguente richiesta di adeguati aumenti salariali. Ne furono protagoniste non a caso donne occupate e organizzate a partire dai posti di lavoro. Procedendo a ritroso, si vedrà come nel tempo la presenza di donne nella sfera pubblica ha consentito di elaborare rivendicazioni, talvolta anche realizzate, che delineano una più complessa e differenziata strategia politica.

Queste considerazioni nulla tolgono alle lotte di coloro che il capitale non organizza, soprattutto in una fase come l’attuale in cui si sforza più di disorganizzare che di organizzare. In un contesto di disoccupazione e precarietà programmata, di impotenza e complicità dell’organizzazione sindacale non si può più pensare di affidare ai soli salariati la lotta per i senza salario. Ammesso, ma non concesso, che la delega fosse la migliore delle scelte. uttavia quando ci si colloca su questo terreno, si verificano a breve termine le difficoltà che la dispersione e l’isolamento producono. Come sono stati costretti ad ammettere anche coloro che avevano considerato il lavoro giovanile precario l’articolazione potenzialmente più conflittuale dell’attuale composizione di classe. Bisogna intendersi sulle ragioni per cui la logica del salario al lavoro domestico include la lotta femminista in un orizzonte economicista. L’economicismo non consiste nella rivendicazione di danaro in sé perché ha ragione Federici, quando fa notare che il salario è un’importante posta in gioco politica dei rapporti di classe. L’economicismo è piuttosto negli argomenti con i quali viene costruito il ragionamento che porta poi all’inevitabile conclusione della centralità strategica della casalinga e del salario come tappa intermedia obbligata, solo dalla quale potrà poi derivare un autentico rifiuto.

Non solo sfruttamento

Sarà bene a questo punto tornare alle Riflessioni Degeneri. La unitary theory – spiega Cinzia Arruzza – costringe a ripensare il capitalismo per comprendere come agiscano nel suo contesto le relazioni patriarcali, quando il patriarcato come modo di produzione e sistema autonomo non esiste più. Dire che il capitalismo non è solo sfruttamento, ma anche dominio e alienazione significa prendere atto che esistono fenomeni funzionali alle logiche dell’accumulazione capitalistica e che tuttavia non si analizzano con le categorie dell’economia politica. Prima di tutto per riproduzione bisogna intendere non solo il lavoro fisico, mentale ed emotivo necessario alla riproduzione della produzione: educare i bambini, curare ammalati e anziani, preparare il cibo, pulire la casa e tutto ciò che di solito tocca alle donne. Il concetto va esteso alla riproduzione delle condizioni della produzione, cioè alle istituzioni e alle modalità che rendono possibile l’estorsione di pluslavoro: istruzione, industria culturale, Chiese, polizia, eserciti, sistema sanitario, discorsi di genere ecc. Le istituzioni della riproduzione sociale contribuiscono in modo determinante alla formazione di soggettività e vanno analizzate in tutto o in parte con strumenti diversi da quelli che si utilizzano per analizzare ciò che ricade immediatamente nell’ambito del mercato formale del lavoro.

Il capitalismo è il nemico, d’accordo. Ma gli uomini? Tutti assolti con l’eccezione dei possessori di capitali e di coloro che nelle istituzioni ne gestiscono gli affari? Nessuna assoluzione – risponde Arruzza – perché dalle relazioni patriarcali incentivate, riprodotte e influenzate dal contesto dei rapporti di classe gli uomini traggono privilegi e vantaggi, ai quali (bisogna aggiungere) sembrano poco disponibili a rinunciare.

La base materiale del corpo

Le Riflessioni Degeneri per spessore delle conoscenze, rigore intellettuale e chiarezza nell’esposizione rappresentano uno dei più utili contributi al dibattito recente e non mi resta che consigliarne la lettura. Si può provare tuttavia ad aggiungere un pezzetto di ragionamento con qualche eventuale sottolineatura diversa. Nella seconda delle Riflessioni Arruzza critica la tesi che il patriarcato sia un sistema ideologico indipendente, un processo di produzione di significati e interpretazioni del mondo. Se si accetta questa idea – osserva – si fa propria una nozione feticista e antistorica della cultura e dell’ideologia, che rompe il loro legame con le condizioni sociali.

Ora il problema è che, se è vero che il capitalismo produce, riproduce, trasforma, mantiene (ma io direi che talvolta anche incrina) i rapporti di potere fondati sul genere, è vera anche un’altra cosa. E’ vero cioè che insieme alle espressioni molteplici e diverse, secondo i diversi contesti sociali, sono presenti anche costanti. Per esempio la violenza, il monopolio maschile della tradizione simbolica, la marginalizzazione dai posti di comando, l’abitudine maschile a considerarsi superiori alle donne, la tendenza femminile a vivere in funzione dei bisogni di figli e compagni ecc. E in quanto costanti, indipendenti da uno specifico contesto sociale. L’indispensabile base materiale andrebbe quindi collocata altrove. Ma dove?

Come Arruzza giustamente scrive, le espressioni concrete delle relazioni patriarcali non possono essere considerate residuali, ma se non sono un residuo ideologico, che cosa consente alle costanti di riprodursi? Qualcuna risponde che una delle basi materiali è il corpo. E non perché il corpo sia in sé la causa della posizione subalterna delle donne, come sembra pensare Simone de Beauvoir, ma per un’altra ragione. Una condizione di svantaggio o una semplice differenza di ruoli si sono trasformate in rapporti di potere a un certo punto della vicenda umana. Quando, come e perché è difficile dirlo. Tra le diverse domande che il femminismo si è posto e a cui ha cercato di rispondere ce ne sarebbe una in particolare: “Quando, come e perché è accaduto?”. Vale a dire che, se si combatte contro l’idea dell’inferiorità delle donne, allora bisogna rispondere agli interrogativi sul quando, come e perché siano state inferiorizzate. Un lungo e contraddittorio dibattito in proposito si è sviluppato nel tempo, creando una vera e propria antropologia femminista, su cui si aprirebbe un capitolo troppo lungo di questo già lungo canovaccio. L’inferiorizzazione avvenuta nell’organizzazione sociale di un tempo, che varia moltissimo secondo le scuole di pensiero, ha potuto poi riprodursi non solo perché è stata riprodotta dalle società di classe, ma anche perché il desiderio sessuale e il fantasma della filiazione hanno erotizzato insieme al maschio eterosessuale inevitabilmente anche la dominazione di cui era portatore. L’erotizzazione si è riprodotta attraverso l’inconscio e si è aggiunta al monopolio maschile della tradizione simbolica, creando una Donna fortemente condizionata dai bisogni, dalle norme e dagli angoli di visuale maschili. Non solo infatti gli uomini hanno costruito modelli di donna normativi, ma le donne si sono sforzate di essere “come tu mi vuoi”. Naturalmente nel desiderio femminile di essere “prese” ci sono forti componenti sociali, ma anche componenti legate alla sessualità e alla riproduzione biologica. Non è un caso che le lesbiche abbiano avuto un ruolo importante nel femminismo, diciamo così per intenderci e con un termine improprio, di “avanguardie”. Ma non può essere condivisa l’idea che per gli esseri di sesso femminile non ci sia altra libertà che il lesbismo. Questo ragionamento sottovaluta il maschile cristallizzato che si incontra in ogni articolazione delle società in cui viviamo, al di là dei rapporti affettivi e sessuali. E anche rovescia i nessi di causa ed effetto e fa di nuovo del corpo la sede dell’inferiorizzazione, che invece si riproduce attraverso il corpo ma non ne trae origine. Come sono state le relazioni sociali a creare la subalternità, sono relazioni sociali diverse ad avere il potere di mutarla, anche perché non è vero che l’inconscio è immutabile. Infine le responsabilità del capitalismo vanno bene messe a fuoco. In un articolo per Contretemps Antoine Artous commenta il saggio di Silvia Federici sulla caccia alle streghe, tradotto in francese con il titolo “Caliban et la sorcière. Femmes, corps et accumulation primitive”. L’autrice descrive la riorganizzazione dello statuto delle donne nella fase della nascita e dello sviluppo del capitalismo come un processo di asservimento e reclusione per produrre e riprodurre forza lavoro. L’appropriazione del corpo femminile sarebbe stata a suo tempo una delle condizioni dell’accumulazione primitiva, del costituirsi cioè del modo di produzione capitalistico in senso proprio, come le enclosures per i contadini. E la caccia alle streghe la repressione della resistenza delle donne all’instaurazione dei nuovi rapporti sociali. Artous dà del fenomeno una più credibile interpretazione. La caccia alle streghe – afferma – non può essere considerata un residuo dell’oscurantismo medioevale, ma nemmeno un dispositivo di potere funzionale alla nascita e allo sviluppo del capitalismo per questioni di scansione temporale e di collocazione geografica. Essa è stata piuttosto l’effetto di una crisi generalizzata nel periodo di decomposizione del feudalesimo e dei suoi specifici legami sociali sullo sfondo delle guerre di religione, della guerra dei trenta anni, delle epidemie di peste e delle carestie. E’ in questo contesto che si riattiva l’arcaica paura maschile del corpo femminile attraverso la mediazione delle Chiese e la ricostituzione degli Etats royaux. Questa interpretazione non è solo più credibile, ma è quello che offre qualche concreto elemento di confronto con epoche più recenti. Confronto fatto continuamente da Federici ma nella logica del diverso assunto. L’accostamento ha un senso evidente nelle aree del mondo caratterizzate fino a ieri da economie di sussistenza, ma ce l’ha anche nei paesi a capitalismo senile dove neoliberismo, mondializzazione e finanziarizzazione hanno indebolito o dissolto le comunità del lavoro salariato che tra il XIX e il XX secolo si erano organizzate in diverse forme e attraverso diverse istituzioni. E’ in questi contesti, su cui per altro si è abbattuta la crisi, che prendono corpo le arcaiche paure, i capri espiatori e le streghe da mettere al rogo. C’è un’inquietante analogia tra gli incendi di campi dei Rom, che si ripetono da anni nei quartieri più degradati di Napoli, e i roghi su cui bruciavano i corpi delle streghe. E non solo per le fiamme, ma anche per altro. Prima di tutto per la disumanizzazione: “A nuie ce dispiace sul’ p’ ‘e zoccole” si intitola un romanzo-cronaca di Marco Nieli, in cui si racconta di uno degli incendi. “A noi ci dispiace solo per i topi di fogna”, dicono gli incendiari (fascisti e malavitosi) per i quali evidentemente la vita di un Rom vale meno di quello di una “zoccola”. In secondo luogo per il sostegno di una popolazione locale un tempo accogliente e incline alla solidarietà. Anche questi ragionamenti hanno a che fare con l’identità del nemico.

Giustamente nella più lucida cultura della sinistra si è combattuta l’idea liberale che le mostruosità generate dal capitalismo siano parentesi, congiunturali regressioni, resti di un passato precapitalistico e di uno sviluppo ancora non compiuto della democrazia. Di quei fenomeni si è sottolineata piuttosto la modernità, il loro essere costruzioni del dominio capitalistico e della sua esigenza di continuare a riprodursi in più difficili contesti delle relazioni sociali. Questa corretta convinzione non deve far dimenticare la capacità del capitalismo di mobilitare gli arcaismi che si riproducono nella pancia della società. Sia perché, quando gli servono, li sostiene e li rafforza con il danaro, i mezzi di comunicazione e le istituzioni statali. Sia perché essi emergono indipendentemente da ogni esigenza capitalistica di dominio, come reazione non spontanea (c’è quasi sempre un agitatore politico che racconta e mobilita) ma più facile perché legata all’esperienza e alla modalità della ripetizione, fondamentale nella costruzione del senso comune popolare.

Voglio dire che c’è anche un inconscio maschile che resiste, nelle forme tra loro più diverse, alle parziali e reversibili dinamiche di emancipazione che pure per propri interessi talvolta il capitalismo mette in moto. La violenza contro le donne, per esempio, è oggi relegata a fenomeno criminale e non perché essa non resti una modalità del conflitto di genere, ma perché si manifesta e si realizza in tutt’altri modi. Per esempio con i conflitti armati in cui la libertà delle donne sia una delle poste in gioco. Nella sua forma primitiva, di violenza di singoli uomini su singole donne, non è funzionale a nulla che abbia a che fare con l’accumulazione capitalistica. Oppure ha a che fare troppo indirettamente perché vi si possa vedere una tecnica di potere del modo di produzione dominante. Eppure la violenza va ben oltre gli omicidi e gli episodi di stalking e sussiste nella vita femminile, in ogni vita femminile e in ogni età, come implicita minaccia che condiziona comportamenti e abitudini.

Allora chi è il nemico?

La storia del femminismo, le sue pratiche, i suoi movimenti e i suoi discorsi dimostrano che le donne hanno un duplice nemico e che le loro strategie di sopravvivenza si sono alternativamente dirette contro l’uno o contro l’altro con rapidi mutamenti di alleanze, secondo le necessità. Movimenti trasversali che coprivano un arco politico dalle liberali, alle bolsceviche, alle anarchiche e mostravano un implicito o esplicito antagonismo nei confronti degli uomini hanno convissuto con lotte e teorie in cui prevaleva l’alleanza con la parte maschile di organizzazioni e culture anticapitalistiche. Dire che i nemici sono due, il capitalismo e gli uomini è certo sbagliato, se non altro perché si accostano due dati disomogenei: il capitalismo è un sistema a cui andrebbe accostato un altro sistema. Il primo “significante padrone” come direbbe Lacan; il secondo non autonomo, ma non privo di elementi di autonomia, cioè di elementi che hanno basi materiali diverse dalle condizioni sociali. Tuttavia la politica ha a che fare inevitabilmente con il senso comune, per il quale i sistemi sono pure astrazioni. E così come nell’immaginazione politica operaia il sistema diventava il “sciur padrùn dallo belli braghi bianchi”, in quella femminista il sistema di sesso/genere ha preso spesso il corpo maschile. La mutazione in un caso e nell’altro non è stata priva di un’ immediata efficacia.


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