IFE Italia

La religione e l’IO maschile

di Lea Melandri
lunedì 1 giugno 2015

fonte: www.minimaetmoralia.it.

Pubblichiamo con il consenso dell’autrice, compagna di strada.

Immagine: dipinto di Tamara De Lempicka

Non mi sono mai occupata di laicità e di religione. O, quanto meno, non in modo specifico. Mi sono battuta, e continuerò a farlo, contro l’invadenza della Chiesa su scelte che devono essere lasciate alla libertà del singolo – come il testamento biologico, l’aborto, le unioni civili, ecc. –, ma non ho mai avuto simpatia per il laicismo, la laicità che diventa feticcio, “rifiuto pregiudiziale” della religione.

Posto in modo così schematico e oppositivo, il binomio laicità/religione mi è sembrato uno dei tanti dualismi che hanno finora impedito di vedere i legami che ci sono sempre stati tra un’esperienza e l’altra. Quando ho letto il libro di Stefano Levi Della Torre, Laicità, grazie a Dio (Einaudi 2012), l’impostazione che ha dato al problema – un “confronto”, “un corpo a corpo” con la religione, in cui possono convivere la passione per la ricchezza di simboli, gesti, immagini, interrogativi essenziali dell’umano, richiami all’esperienza personale e il pensiero critico –, mi sono resa conto all’improvviso che “io c’entravo”.

Anzi, ho capito che c’entravo molto, forse troppo per il peso che ha avuto la religione – cristiana, cattolica nella mia formazione, potrei fino al momento in cui, venticinquenne, ho lasciato il paese e ho incontrato a Milano il movimento antiautoritario e il femminismo: l’uscita dalla dimensione privata per una straordinaria avventura collettiva, l’idea che si potesse ripensare la storia, la politica, a partire da tutto ciò che avevano cancellato e consegnato alla religione.

Così, oltre a ragionare sul libro di Stefano – in vista dell’incontro con lui, che avrei fatto al Festival delle Letterature di Mantova – ho cominciato a rileggere alcuni dei miei scritti del passato, sicura che vi avrei trovato tracce di questa “contaminazione”. Ho pensato perciò che il modo migliore di dialogare da parte mia fosse quello di fare incursioni dentro il testo, fermarmi su alcuni punti e portare lì il contributo della mia riflessione, trovando di volta in volta condivisioni o divergenze.

Mi sono accorta subito che le concordanze erano in realtà molto di più che le divergenze. Innanzi tutto, il riconoscimento che la religione è un prezioso “archivio della memoria” degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. Per questo – scrive Stefano – la religione “è una cosa seria e non può essere lasciata alla mercé dei clericali”.

Persino il fondamentalismo, se da un lato è importante criticarlo, dall’altro va raccolta la domanda che indirettamente ci pone: “Quali sono i fondamenti, i presupposti sottesi ai nostri codici giuridici, atei, di pensiero, che noi lasciamo invecchiare sotto la polvere delle abitudini?”. È quello che Stefano fa quando dice che riflettere sulla religione è riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso, come si è rappresentato la propria nascita, l’uscita dall’animalità. La religione narra il mistero dell’universo, ma lo satura di rappresentazioni, di simboli. Lo esorcizza. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.

Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto – opera di una comunità di soli uomini – la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel “principio maschile” che – come scrive Bachofen ne Il matriarcato – “nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile”, salvo prendere poi il primo posto, come principio spirituale, trascendente le leggi della materialità, quando da figlio l’uomo “diviene lo sposo, il fecondatore della madre, il padre stesso”. Nel momento in cui si costruisce, sull’asse di una “vita superiore”, una generazione al maschile, la donna scompare nel suo essere reale, nella sua diversità. Dovrà rinascere tramite il figlio, divenutole marito, padre, madre. Sta all’uomo “rifarla, rinnovarla, crearla”, scioglierla dal suo nulla, che le impedisce di essere, prenderla nelle sue braccia “come un piccolo tenero bimbo” (Michelet, L’amore).

Da ciò si deduce che la “consanguineità” tra pensiero laico e religioso è molto più di una “contaminazione”; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato, complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico, materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.

In Otto Weininger è chiaro che la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, il Creatore, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è strettamente imparentata con la trascendenza che si è attribuito l’Io maschile. La “divinità”, per Kant, per Platone, è “l’idea morale e ciò che essa esige dall’umanità”. L’anima è qualcosa di diverso dal corpo, dai suoi appetiti. “…gli uomini sono figli di Dio in quanto esseri spirituali, così come sono figli di uomini in carne e ossa in quanto creature terrene (…) questo vale solo per i maschi. Dio infatti non ha figlie. Il figlio può risorgere e acquistare la libertà solo salendo al padre, ridiventando tutt’uno col padre.” (O. Weininger, Sesso e carattere) Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità. Per essere “redentrice” dell’uomo deve “essere uccisa e riportata in vita”. L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità.

Per Weininger la religione è: “libero atto dell’uomo del porre un ente perfetto, il sommo bene (…) Dio è la finalità dell’uomo, la religione è la volontà dell’uomo di diventare Dio. La religione è la libera posizione del regno della libertà, dell’assoluto, è la ricreazione dell’universo (…) la religione, in ultima analisi, si identifica con la morale (…) lo sforzo di attingere l’assoluto ovvero Dio come idea del buono e del vero”.

Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero – “come a formare un sipario su cui si rappresentano domande e bisogni insopprimibili” – saturandolo di risposte e spiegazioni, parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è solo mediazione simbolica, contenitore.

Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. In questo senso la “continuità con l’infanzia”, che Freud nel saggio, L’avvenire di un’illusione, aveva visto solo sotto il profilo del bisogno di “paterna” protezione, è una lettura riduttiva. La religione parla esplicitamente, più di tutte le altre acquisizioni della cultura, dell’ “atto fondativo” della civiltà stessa, di quella libertà da vincoli materiali che ha permesso alla ragione di pensarsi “auosufficiente” e destinata a disporre della madre, della terra come risorsa inesauribile. Qualcosa di questa trascendenza c’è anche nella contrapposizione tra il cittadino, astratto, scorporato, detentore dei diritti e la persona, l’essere umano nella sua interezza.

La religione potrebbe essere vista dunque come l’espressione massima, idealizzata dell’Io maschile, il fulcro dell’androcentrismo, una lettura sessuata che nel libro compare per accenni ma che non sembra essere colta per il peso che ha, come struttura portante sia della religione che della cultura in generale, inscritte entrambe nel dualismo originario. Le ‘sublimazioni’ della religione vanno dunque oltre le astrattezze della storia: sembrano tese a destituire o sostituire, trasferendole sul piano trascendentale, spirituale, la natura, i corpi, la nascita, la morte, il rapporto tra i sessi.

La rivalsa che si prendono oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile. Stefano Levi la mette in relazione con la “rivalsa identitiaria maschile”: conformismo confessionale, di comunità, di etnia, guerra di genere per la proprietà delle donne. Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito – non rimosso –, teatralizzato e spettacolarizzato. Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo.

La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le identità del maschile e del femminile nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione, come una sorta di “unione mistica”. Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.


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