IFE Italia

La comunicazione digitale: la rovina del mondo o l’inizio di una nuova civiltà?

di Lea Melandri
mercoledì 29 luglio 2015

Fonte: La comunicazione digitale: la rovina del mondo o l’inizio di una nuova civiltà?, "Tysm". Published 27 luglio 2015. Last accessed 29 luglio 2015. http://tysm.org/la-comunicazione-di...

Le visioni apocalittiche hanno senza dubbio un merito: non si lasciano accecare dal dio del progresso e, dove altri appaiono storditi dai suoi effetti speciali, esse puntano pervicacemente lo sguardo sulle insidie che si porta dietro.

Che il reale stesse perdendo il suo ancoramento alla terra, ai corpi, alla tattilità, a tutto vantaggio dei fantasmi dell’immaginario, era già nelle analisi brillantemente argomentate di Guy Debord e Jean Baudrillard. Ma non è un caso che sia stata l’irruzione del medium digitale a spingere il discorso critico a profondità finora non toccate della vita psichica.

“Lo smartphone” -si legge nel libro di Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo 2015– si può considerare “la riedizione post-infantile dello stadio dello specchio: dischiude uno spazio narcisistico, una sfera dell’immaginario nella quale rinchiudermi.”

Di conseguenza:

“Non la moltitudine, ma la solitudine, contraddistingue la forma sociale odierna. La solidarietà scompare: la privatizzazione si estende fino all’anima. L’erosione del collettivo rende sempre più improbabile un agire comune”.

Al posto di una “folla” di anonimi, ma in grado di marciare insieme per un obiettivo, sembrano essere subentrati “sciami” di “singoli chiassosi”, incapaci di ricostruire uno spazio pubblico.

Soli davanti al display, consumatori e insieme produttori di informazione, pronti ad esporsi -abbandonato ogni pudore e contegno- in ciò che hanno di più intimo, agli individui non resterebbe che la perpetuazione dell’ “Uguale”, una socialità in cui non c’è più una controparte che ti venga incontro, ma solo condivisioni che si misurano sulla quantità dei “mi piace”.

Sarebbe dunque la fine della politica, che si è retta finora sulla separazione tra privato e pubblico, sulla distanza, come condizione essenziale per il “rispetto” dell’altro, la fine del tempo, ridotto a un eterno presente e svincolato dalla sua radice biologica: la nascita, l’invecchiamento, la morte?

A una prima lettura, per chi pratica i social network con qualche riserva, dubbi ricorrenti, è difficile non dare ragione a Byung-Chul Han e non lasciarsi sedurre dalla felice immagine dello “sciame digitale”, uno “sciame di spettri” che potrebbero portare il mondo alla rovina. Ma con qualche attenzione in più si può scoprire che dietro ogni argomentazione c’è un risvolto che sembra dire il contrario.

Prendiamo, per esempio, la descrizione che egli fa del narcisismo come esperienza infantile che riemerge inaspettata e sconvolgente per lo spazio pubblico, così come lo abbiamo conosciuto finora. Se, per un verso, si manifesta come “esibizione pornografica dell’intimità”, per l’altro sembra invece aprire la strada alla nascita di una singolarità dell’essere umano rimasta impigliata nell’unità a due dell’origine: l’indistinzione e poi la contiguità tra madre e figlio prima e subito dopo la nascita, la fusionalità nella relazione amorosa adulta.

Gli individui dell’era digitale infatti sono sì isolati, ma tutti alla ricerca di un loro “profilo”, anzi “lavorano senza posa all’ottimizzazione di sé”, ambiscono insistentemente all’attenzione. Le ideologie, che una volta costituivano l’orizzonte politico, si disgregano, ma come non giudicare positivo il fatto che al loro posto subentri una “infinità di opinioni e opzioni individuali”, la richiesta di “maggiore partecipazione e trasparenza”, sintomo della crisi che attraversa oggi la democrazia rappresentativa?

Il “Noi”, così come lo abbiamo ereditato da secoli di dominio maschile, ha conosciuto una serie infinita di esclusioni: fuori dalla sfera pubblica, dalle sue istituzioni, dalle sue forme organizzative, non sono rimaste solo le donne, ma tutto ciò che segnalava una diversità: gruppi sociali, popoli ed esperienze umane, come la sessualità, la maternità, considerate “non politiche”. Si è dovuto arrivare alla metà del secolo scorso per riconoscere la politicità della vita personale e uscire da contrappposizioni astratte: maschile/femminile, corpo/pensiero, individuo/collettivo, ecc.

Non dovremmo meravigliarci perciò se il bisogno di pensarsi come individualità concreta, restituita all’interezza del proprio essere, si manifesta come “ripresa” di un sé intento a ricostruire la propria immagine attraverso quello “specchio digitale”che, al medesimo tempo, lo isola e lo espone al mondo.

Il rischio che l’immagine prenda il sopravvento e che la libertà vada a coincidere paradossalmente con una “nuova schiavitù”, quale è la “costrizione a comunicare”, in effetti c’è.

Ma nessuna acquisizione nuova della coscienza, nessuno svelamento di un “rimosso” storico, può considerarsi indenne da limiti, ripiegamenti o sconfitte. Per questo l’attenzione alla strada che si sta percorrendo non è mai troppa, e gli “apocalittici” sono, da questo punto di vista, un prezioso indicatore di marcia.


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