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Il virus è un prodotto del Capitalocene

di Chiara Iacovone e Alberto Valz Gris *
lunedì 7 settembre 2020

La crisi pandemica che tutto il mondo sta vivendo in questo momento solleva molte questioni. Prima fra tutte la condizione della sanità (pubblica o privata) nei vari paesi, le misure di contenimento, il peso politico dello Stato sui cittadini e chiaramente le conseguenze economiche di questo lockdown globale. La lente con cui si sta analizzando questa crisi internazionale si concentra principalmente sulle condizioni presenti e quelle future, un’attenzione che rischia di tralasciare importanti riflessioni sull’origine di questa crisi.

Le radici della propagazione del virus, seppur non ancora univocamente validate dalla comunità scientifica internazionale, vanno ricercate in un processo chiamato spillover, ossia il passaggio di agenti patogeni dagli animali all’uomo. L’ormai classico libro omonimo di David Quammen uscito nel 2012 racconta diversi episodi di zoonosi che hanno dato origine alle più gravi epidemie contemporanee: dall’Ebola trasmessa dagli scimpanzé in Congo alla Nipah passata da pipistrelli a maiali in Malesia. Nel caso del Sars-CoV2 il salto da specie animale a specie umana sembra essere avvenuto tramite pipistrelli, con molte probabilità al mercato alimentare di Wuhan. Uno studio della Zhejiang University di Hangzhou ha però individuato due ceppi dello stesso virus che potrebbero aver dato origine a diverse fonti del contagio, per cui tuttora non è possibile una chiara mappatura dei primi contatti.

Uno degli ultimi report del Millennium Ecosystem Assessment ha dedicato una sezione al cambiamento degli ecosistemi in relazione alle malattie infettive. Descrive come le azioni antropiche abbiano facilitato i processi di spillover, correlando il Colera alla variabilità del cambiamento climatico, la Bse agli allevamenti intensivi, la Malaria alla deforestazione e ai progetti idrici e la Nipah alla distruzione di ecosistemi e all’agricoltura industrializzata. Queste significative trasformazioni ambientali e urbane hanno portato inevitabilmente a un cambiamento repentino degli habitat di molte specie animali e vegetali: ad esempio la deforestazione ha portato a migrazioni massicce e l’emergenza climatica ha sovvertito ecosistemi consolidati da secoli, modificandone il funzionamento e permettendo una maggiore connettività tra le specie. Un report del Wwf uscito pochi giorni fa mette in evidenza esattamente questo effetto boomerang nella distruzione degli ecosistemi, lanciando un appello volto alla salvaguardia dell’ambiente e rivendicando l’importanza delle foreste come antivirus naturale. Come afferma Kate Jones, cattedra di ecologia e biodiversità alla Ucl, gli ecosistemi più semplici causano un effetto di amplificazione: «Distruggi un paesaggio e le specie che rimarranno saranno quelle che infettano gli esseri umani.

L’emergenza pandemica in cui ci troviamo ora dunque è da leggersi in maniera dialettica rispetto a decenni di trasformazioni antropiche volte allo sfruttamento e all’estrazione di valore dal territorio. I driver di questa crisi devono essere riconosciuti come conseguenza dei processi di urbanizzazione e industrializzazione, che soprattutto nelle regioni asiatiche sono stati più forti e repentini.

Ci troviamo quindi a chiederci se epidemie come il Sars-CoV2 siano effettivamente dei fattori esogeni al modo di produzione capitalista o piuttosto una sua contraddizione endogena. Attraverso le lenti della geografia economica, questi fenomeni appaiono piuttosto come elementi strutturali della dimensione insediativa del capitalismo. Tra i vari quadri concettuali emersi in anni recenti per tentare di cogliere origini, dimensioni e dunque strategie da apporre alla presente crisi ecologica, quello di Capitalocene ci sembra particolarmente adatto per leggere la crisi epidemica che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi.

Questo termine nasce con l’obiettivo esplicito di opporsi alla nozione di Antropocene, mettendo in discussione la natura stessa della crisi climatica che stiamo attraversando e individuandone il centro non in un indifferenziato concetto di genere umano ma ancorandolo alla lunga storia dell’evoluzione del capitalismo. Le tracce antropiche più significative e dannose per il pianeta sono, secondo questo punto di vista, da rintracciarsi nei processi consolidati di sfruttamento delle risorse di stampo capitalistico.

Per questo ci sembra oggi più che mai urgente mettere in luce questa prospettiva, in un momento in cui il discorso sull’emergenza climatica rischia di depoliticizzarsi mantenendo come riferimento centrale il concetto di Antropocene. Alla radice del crescente consenso sulle cause primarie dell’emergenza climatica troviamo infatti una generalizzata idea di azione antropica, che posiziona il genere umano in quanto insieme uniforme alla radice della degradazione ambientale del pianeta. Le soluzioni che naturalmente emergono da questa descrizione si concentrano su riforme migliorative di ambizione modesta, come ad esempio il carbon trading e la riduzione marginale delle emissioni di gas serra. Come rileva Andreas Malm in una delle prime trattazioni sull’argomento, la narrazione dell’Antropocene è ostile all’azione. Se da un lato questa descrizione naturalizza, oscurandole, le diseguaglianze, l’alienazione e la violenza, dall’altro impedisce di mettere in discussione la matrice fondamentale della crisi in atto, e cioè il modo di produzione capitalista.

Come afferma Jason W. Moore nell’introduzione a Antropocene o capitalocene. Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria (Ombre Corte, 2017)

l’Antropocene alla moda pone una serie di questioni importanti: qual è la natura della crisi ecologica nel XXI secolo?; quando comincia questa crisi?; quali forze l’hanno scatenata? […] L’Antropocene alla moda non è che l’ultimo di una lunga serie di concetti ambientali la cui funzione è quella di negare la disuguaglianza e la violenza multi-specie del capitalismo e di suggerire che dei problemi creati dal capitale sono in realtà responsabili tutti gli esseri umani. La politica dell’Antropocene […] s’impegna con risolutezza a cancellare il capitalismo e la capitalogenesi dalla crisi planetaria.

Quali sono quindi le geografie materiali del capitalocene? In quali forme insediative dovremmo rintracciare la forza geologica del capitalismo? Un’altra grande narrazione dell’ultimo decennio è quella che racconta della cosiddetta «era urbana», una formula impiegata da svariate istituzioni internazionali per descrivere una nuova fase insediativa globale, per cui a partire dal 2008, più della metà della popolazione mondiale vivrebbe in città. A partire dalla critica a questa visione si è costruita all’interno degli studi urbani critici una ricca genealogia di studi che mira a ricostruire la dimensione urbana del pianeta al di là della città come matrice primaria dell’insediamento umano del ventunesimo secolo. Autori come Neil Brenner e Christian Schmid hanno sostenuto in una serie di pubblicazioni che la dimensione insediativa del capitalismo contemporaneo sia da ricercarsi non esclusivamente nelle grandi agglomerazioni urbane formatesi negli ultimi decenni ma piuttosto, come nell’ipotesi formulata da Henri Lefebvre alla fine degli anni Sessanta, in un tessuto urbano planetario che avvolge il globo nella sua interezza.

La grammatica sociale e spaziale che emerge dagli studi che si inseriscono in questo solco non è, come vorrebbe la tesi dell’era urbana, un mondo fatto di città, ma bensì un insieme al tempo stesso unitario e schizofrenico fatto di infrastrutture connesse, di aeroporti, centri urbani, zone logistiche, monocolture agricole, miniere, foreste industriali, allevamenti intensivi e zone suburbane.

Superare infatti la città come matrice e unità di misura di un pianeta urbano significa porre l’accento sulle relazioni metaboliche che esistono tra le diverse forme insediative: flussi che scambiano persone, informazioni, materie prime, merci. Come ha scritto Stefan Ouma, in un commento al bellissimo libro di Anna Tsing sulle geografie del fungo matsutake (The Mushroom at the End of the World, Princeton University Press, 2015): se le merci sono i globuli rossi del capitalismo globale, allora le filiere della produzione che ne garantiscono la circolazione sono le sue vene. Zone logistiche, monocolture agricole, miniere, foreste industriali e allevamenti intensivi sono gli elementi spaziali che tengono in vita le relazioni metaboliche proprie del modo di produzione capitalista, un sistema fondato sull’appropriazione tanto della natura non-umana quanto di quella umana.

Le relazioni tra le geografie del capitale e la diffusione del Sars-CoV2 cominciano ad apparire attraverso le lenti del Capitalocene e delle infrastrutture globali. Se dunque lasciamo cadere la lente fallace dell’Antropocene, assumendo il capitale come agente fondamentale di trasformazione degli ecosistemi (umani e non-umani) e osservando le geografie che segnano la riproduzione del capitalismo, ci accorgiamo che patologie come il Covid-19 non sono affatto agenti esterni al sistema, ma contraddizioni endogene. Ci troviamo quindi in quello che potremmo chiamare, usando un termine impiegato da Timothy Morton in Dark Ecology (Columbia University Press, 2018), uno strange loop. La propagazione del Sars-CoV2 infatti ha portato a un progressivo blocco totale degli Stati colpiti in termini di chiusura dei confini, diminuzione delle libertà individuali e drastiche frenate in ambito economico. Il lockdown che via via si sta facendo globale ha portato a un arresto della macchina capitalistica e, strano loop, alla netta diminuzione degli agenti inquinanti in atmosfera. Un report della Bocconi ha infatti evidenziato una visibile riduzione di polveri sottili (PM10 e PM2.5) e ossidi di azoto (NOx) nelle aree urbane di Wuhan e Milano, e anche le immagini satellitari della Nasa mostrano lo stesso fenomeno nelle regioni dell’Hubei e della pianura padana, determinato da una pressoché totale riduzione del traffico veicolare, gran parte di quello aereo e talvolta dell’attività industriale.

Il paradosso di questa condizione risiede precisamente in questo strange loop nel quale l’inquinamento atmosferico vede dopo anni un lieve miglioramento causato da una condizione di crisi indotta da un virus, figlio esso stesso di decenni di sfruttamento capitalistico delle risorse planetarie. Riconoscere l’endogeneità di sistema della situazione in cui ci troviamo, quindi, è un passaggio fondamentale che deve essere riconosciuto e legittimato politicamente per disporre degli strumenti interpretativi necessari ad affrontare l’altra crisi che verrà, quella economica. Il crollo delle borse in tutto il mondo porterà con molte probabilità allo scoppio di un’altra grande crisi di recessione. Siamo di fronte alla nascita di una nuova crisi endogena di sistema; lo scriveva Marx, le crisi sono insite al sistema e anzi il capitalismo si rigenera attraverso le sue stesse crisi, ampliando il proprio mercato attraverso la liberalizzazione di nuovi segmenti dell’economia tramite quel movimento di distruzione creativa popolarizzato da Joseph Schumpeter.

Gabriele Crescente ha sostenuto sulle pagine di Internazionale che la recessione economica che seguirà al coronavirus «potrebbe non essere una buona notizia per il clima», secondo la tesi per cui si avrà una drastica contrazione dei finanziamenti alle tecnologie green, a oggi la strategia attraverso cui il sistema tenta una rapidissima riduzione delle emissioni di gas serra in atmosfera. Vero, in ogni fase post-crisi governi e imprese si sono storicamente affidati alle energie fossili: le più affidabili e a buon mercato, ma anche le più inquinanti. Oltre a ciò, in un recente video pubblicato da The Intercept, Naomi Klein ci mette in guardia sui possibili risvolti di nuove liberalizzazioni portate da una nuova crisi economica. Nel suo intervento suggerisce come la Shock Doctrine possa essere sovvertita e usata per puntare verso una radicale e consapevole trasformazione del sistema. Il rapido miglioramento dell’aria che respiriamo prodotto da una contrazione forzata dell’attività economica e i video che ritraggono i delfini nel porto di Cagliari ci offrono un’occasione imperdibile per ripensare i contenuti delle varie proposte di green deal, superando la centralità delle cosiddette tecnologie «pulite» e di un approccio tecnocratico all’emergenza climatica.

Un passo fondamentale in questa direzione, però, è pretendere la piena legittimazione del carattere endogeno al sistema capitalistico della pandemia in corso. Il virus, diversamente da come molti hanno sostenuto nelle ultime settimane, non siamo noi.



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