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L’età dell’ansia

di Anita Fallani
mercoledì 9 febbraio 2022

È molto utile capire i fenomeni attraverso la semantica che viene utilizzata per descriverli. La pandemia è diventata una guerra, le impennate di contagi sono ondate e gli aiuti statali ai cittadini sono bonus. Questa parola evoca i volantini distribuiti per strada con cui ricevere in omaggio un prodotto, uno strumento per attirare nuovi possibili fedeli clienti. Così le azioni del governo per aiutare la comunità non hanno niente di strutturale, assomigliano piuttosto a offerte una tantum che rispondono alle esigenze più disparate con strumenti di sostegno disorganizzati: bonus vacanze, bonus terme, bonus zanzariere e rubinetti ma niente bonus psicologo.

È infatti stata bocciata la manovra che doveva introdurre un aiuto (che definirei simbolico) di circa 150 euro, incrementabile fino ai 1.600 euro per i redditi più bassi. La politica non ha di fatto capito la necessità imminente di rispondere a un disagio che interessa tutti e tutte e di cui ha grande colpa il sistema stesso.

È stato ripetuto molte volte quanto la pandemia abbia fatto esplodere il malessere psicologico (ne fa un’ottima fotografia soprattutto nella fascia dei giovanissimi il Telefono azzurro) ma si tratta di esplosione appunto, non di nascita. Sentimenti quali ansia, depressione, angoscia e instabilità vivevano in noi ben prima che si potesse solo ipotizzare un isolamento globale e una limitazione così forte delle libertà personali. È infatti interessante capire come i disturbi dell’umore siano da tempo normalizzati e privatizzati.

La normalità è un concetto, o meglio dire un parametro, con cui ci confrontiamo quotidianamente nel giudicare gli avvenimenti. Questa parola però vive nei nostri discorsi in due forme: la prima in termini statistici e la seconda in termini morali. È infatti normale, ovvero statisticamente frequente, compiere azioni quali mangiare o dormire, ma questo termine ha poi invaso anche l’aspetto culturale delle nostre pratiche. Giudichiamo infatti deviate alcune pratiche che si oppongono alla nostra sfera di valori come per esempio l’omicidio. Rispetto alla salute mentale è avvenuto esattamente l’opposto di quello che auspicabilmente doveva avvenire: è statisticamente frequente la presenza di sintomatologie di ansia e depressione ma è ancora stigmatizzato andare dallo psicologo. Le due facce della medaglia ci aiutano di fatto a capire quello che sta accadendo. Da una parte abbiamo permesso che si diffondesse questo malessere e dall’altra non abbiamo fatto assolutamente niente per capirne le cause strutturali. Se si fa ancora molta fatica a riconoscere la figura dello psicologo come quella adeguata ad aiutarci è perché abbiamo permesso che questo problema si privatizzasse.

Una società capace di prendersi cura dei suoi membri (ed è interessante, come sottolinea Jennifer Guerra nel Manifesto della Cura, come questo termine sia subito sparito dalla semantica legislativa per essere sostituito con ristoro) non permetterebbe che arrivino ambulanze negli istituti scolastici per attacchi di panico. La consulta provinciale degli studenti della provincia di Belluno ha pubblicato un dossier che fotografa la generalizzata presenza di stress e tensione tra i ragazzi, il 14,2% di questi afferma di isolarsi sempre, il 9% ha pensieri autolesionistici e il 16,2% prova spesso pensieri di morte. Nelle scuole pubbliche di secondo grado, luogo in cui più si è palesato il bisogno di aiuto da parte dei giovani, sono presenti degli psicologi ma sono quantitativamente insufficienti al numero di studenti per cui il massimo sostegno erogabile al mese è di circa dieci minuti ad alunno. Quando il welfare statale non risponde a un bisogno, quell’esigenza non rimane irrisolta ma qualcun altro si legittima a rispondere ed è, ovviamente, il privato. Se quindi la possibilità di un sostegno è stata rilegata al business privato va da sé che la possibilità di accedervi è esclusiva delle persone con la disponibilità economica di spendere circa 2/300 euro al mese. Inoltre il principio del bonus incarna in termini economici meglio di tutti l’idea di privato. Dopo la bocciatura della manovra è partita una petizione su Change.org per reintrodurre questo aiuto guidata dal Partito democratico. Così il Pd diffonde l’idea che lo stato debba delegare il singolo nella risoluzione del problema fornendo soldi a un libero professionista qualsiasi per aiutarlo. Quello che lo stato dovrebbe invece fare è interrompere questa politica dei bonus e dare risposte risolutive: occorre uno psicologo di base gratuito per tutte e tutti non un bonus psicologo.

È doveroso però leggere il termine privato nella sua pluralità di accezioni. Quando diciamo che la cura si è privatizzata non ci riferiamo solo all’economia ma anche alla singolarità dell’individuo. C’è quindi una dimensione più profonda in cui si manifesta la declinazione del termine privato ed è quella in cui l’aiuto che ci viene fornito relega al singolo tutte le dinamiche di causa-effetto che hanno prodotto quel malessere. Se le motivazioni del malessere vengono sempre rilegate alla «proprietà privata interiore» è chiaro che l’attenzione viene sempre riposta al singolo e mai a come il contesto influisce sul singolo. Illuminanti in questo senso sono le parole di Mark Fisher:

Ritengo che il crescente problema dello stress (e dell’angoscia) nelle società capitaliste vada reinquadrato; anziché scaricare sugli individui la risoluzione dei loro problemi psicologici – vale a dire, anziché accettare la generalizzata privatizzazione dello stress che ha preso piede negli ultimi trent’anni – quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La ‘piaga della malattia mentale’ che affligge le società capitaliste lascia intendere che, anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l’impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto.

Il collettivo britannico Plan C nel suo manifesto We are all very anxious espone come ogni fase del capitalismo si contraddistingua con uno stato d’animo prevalente e quello contemporaneo sarebbe proprio l’ansia. Nel suo manifesto si dice che «oggi il segreto pubblico è che ognuno di noi è ansioso». Le motivazioni di una generalizzata ansia sono da trovarsi nella precarietà che distingue le nostre vite: «L’attuale disturbo dominante dell’ansia è anche noto come precarietà. La precarietà è un tipo di insicurezza che trasforma le persone in oggetti usa e getta per imporre il controllo. La precarietà differisce dalla miseria in quanto le esigenze della vita non sono semplicemente mancanti. Sono disponibili, ma concesse in modo condizionato». Crediamo quindi di non essere poveri davvero quando in realtà siamo sottoposti a un ricatto continuo che ci rende persone senza gli strumenti per compiere scelte di vita libere. Eppure, quando la sofferenza mentale si manifesta contiene in sé una carica sovversiva proprio perché la sua presenza rende nota una stortura del mondo in cui viviamo. La narrazione vigente non fornisce però alle persone gli strumenti per fare un’analisi di contesto ma preferisce lavorare sull’identificazione. La profilazione di magliette, cappellini, cover del telefono con scritto Che ansia! sono esplose nel merchandising: la grande produzione ha intercettato un problema diffuso e ha scelto di utilizzarlo in modo che le persone che soffrono si sentano capite e siano così portate all’acquisto. Spesso chi accusa questo tipo di malessere fa molta fatica a spiegare cosa provi (proprio il tema dell’incapacità espressiva della sofferenza è uno dei tratti che chiarisce che il soggetto soffre di un disturbo dell’umore) e per questo veder brillare una grafica carina su un prodotto mostra un sentimento che fino ad oggi la persona avvertiva solamente e che adesso riconosce in un prodotto. Frasi come c’ho l’ansia o mai ‘na gioia sono diventate dei veri intercalari nei nostri discorsi e hanno avuto l’effetto di normalizzare l’ansia ovvero di anestetizzare la carica polemica e politica che contengono. L’ansia è stata risemantizzata, è divenuta una parola positiva e funzionale perché serve a produrre, è diventato uno stato d’animo con una sua posa quasi estetica visto come le grandi marche l’hanno resa indossabile. Proprio di questa operazione di «utilizzo dell’ansia» parla il collettivo britannico affermando che: «L’ansia è personalizzata in diversi modi: dai discorsi della nuova Destra che incolpano i poveri per la povertà, alle terapie contemporanee che trattano l’ansia come uno squilibrio neurologico o uno stile di pensiero disfunzionale. Cento varietà di discorsi di ‘gestione’ – gestione del tempo, gestione della rabbia, gestione dei genitori, self-branding, gaimification – offrono ai soggetti ansiosi un’illusione di controllo in cambio di una sempre maggiore conformità al modello capitalistico della soggettività». Parole come ansia e depressione fanno parte del nostro linguaggio quotidiano, la loro presenza così massiccia ha smesso di fare effetto e finisce per indicare uno stile di vita.

Non ci deve stupire che il sistema lucri sulla sofferenza delle persone che lui stesso ha causato vendendo shopper ansiogene. Non ci deve stupire neanche che sia la fascia d’età tra i 14 e i 30 anni a soffrire di più di disturbi dell’umore: l’istruzione scolastica, affermano sia Fisher che il Collettivo Plan C, diffonde la cultura della produttività, dell’efficienza e della versatilità in maniera egemonica e incontrastata meglio di chiunque altro. Là dentro è possibile vedere gli effetti del «realismo capitalista» meglio che altrove. Quello di cui abbiamo bisogno, invece, è smettere di normalizzare e privatizzare la salute mentale. Non basterà un bonus a rispondere a un problema crescente perché non basta solo un sostegno occasionale. Ma soprattutto occorre una società della cura in cui l’avvento di un malessere psicologico come l’ansia o la depressione sia letto come occasione per accogliere una sacca di resistenza che la nostra biologia ha prodotto davanti a un mondo che costringe a ritmi dannosi per la salute. Siamo tutti molto ansiosi e accorgersi che il sintomo è diffuso ci permette di agire collettivamente. Proporre una narrazione diversa a queste alterazioni dell’umore significa resistere alla desensibilizzazione in atto e restituire alla sofferenza e al trauma la sua carica politica.



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