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Manifesto contro la disoccupazione di massa

di Susanna Kuby
mercoledì 3 luglio 2013

Anche i politici ora parlano del lavoro – del lavoro che non c’è – come se la disoccupazione fosse una scoperta sorprendente o una novità indotta dalla ormai pluriennale crisi economica che devasta i tessuti produttivi nazionali in Europa. Il processo di deindustrializzazione strutturale è altresì in atto da decenni, anche in Italia. Sono ormai quasi 40 anni che l’avanzamento tecnico e scientifico ha portato a razionalizzazioni e ristrutturazioni produttive che escludono sempre più il lavoro vivo, mentre la produttività è aumentata in modo esponenziale ad esclusivo vantaggio del profitto e della rendita. La quota salariale complessiva si è abbassata a livelli postbellici e dappertutto aumenta il fenomeno dei “working poor”.

Neanche nelle brevi fasi di boom economico i posti di lavoro in Europa sono più aumentati, e i numeri vantati circa nuovi posti di lavoro in Germania negli ultimi anni riguardano più che altro lavori precari o a tempo parziale. Questi vengono resi “sostenibili” attraverso integrazioni salariali ai lavoratori in forma di sussidi statali secondo le norme della cosiddetta “riforma Hartz (1-4)”, che ha ristrutturato radicalmente il mercato di lavoro tedesco in un’ottica neoliberista negli anni 2002/04, ad opera della SPD di Gerhard Schroeder.

Si tratta di una riforma complessa, elaborata non in parlamento, ma da una commissione non pubblica di “esperti” sponsorizzati dalla Fondazione Bertelsmann (del più grande Konzern europeo di massmedia), e venne infine accettata dai sindacati che in Germania sono strutturati secondo settori produttivi e inseriti saldamente nelle logiche di concertazione sociale della “Sozialpartnerschaft”. La moderazione salariale e pensionistica e l’allentamento delle tutele nell’ambito della deregolarizzazione viene attutito dall’insieme dei sussidi Hartz 4, che stabilizzano di fatto la disoccupazione di massa, la sottoccupazione, la mancanza di prospettive reali e la seguente letargia politica per ormai ca. 6 milioni di tedeschi.

L’ideologia dominante continua però di negare il carattere strutturale del fenomeno e attribuisce la responsabilita al singolo individuo che deve sottostare a un rigido controllo burocratico, deve periodicamente “aggiornarsi” professionalmente e infine accettare ogni offerta di lavoro, del tipo “1€-Job”, ovvero con paga oraria di 1€ per lavori socialmente utili – pena la perdita del sussidio.

Di fronte a questo stato di cose si è persa quasi ogni traccia nella memoria di lavoratori e sindacati europei – tutti condizionati dall’ideologia di un’imminente nuova “crescita” – di una possibile e necessaria riduzione dell’orario di lavoro generalizzato. Questa s’impone invece storicamente a quasi cento anni di distanza dalla introduzione della giornata di lavoro di 8 ore. Nel 2011 si è costituita una iniziativa di economisti e sindacalisti alternativi, vari movimenti e gruppi di lavoro (Attac: Arbeit-Fair-teilen, Arbeitsgruppe Alternative Wirtschaftspolitik ecc.) che ha elaborato un dettagliato “Manifesto per il superamento della disoccupazione di massa” a cui ho accennato due anni fa (La questione del lavoro, il manifesto, 23/8/2011, p. 14). Nel frattempo l’iniziativa degli economisti Heinz-J. Bontrup e Mohssen Massarrat è sostenuta da un centinaio di personalità pubbliche e recenti congressi dei sindacati ver.di e IG Metall hanno messo in programma un nuovo inizio della discussione su una possibile riduzione dell’orario di lavoro.

Questa dovrà abbracciare anche una necessaria ristrutturazione di tutto il lavoro socialmente necessario e possibile all’inizio del terzo millennio nelle sue varie tipologie di lavoro manuale, intellettuale, di cura, sociale e volontario, come anche la distribuzione del lavoro stesso nel corso di mese, anno e vita intera di tutti. Ciò renderà possibile una tendenziale nuova “piena occupazione corta” (a salario/stipendio pieno) che è anche la premessa per l’attuazione di una estesa democrazia partecipata.

A fine maggio 2013 Tonino Perna ha rilanciato sul manifesto la tematica di una necessaria riduzione d’orario in Italia, seguito da riflessioni anche in merito a forme di reddito di cittadinanza di Giorgio Lunghini, Piero Bevilacqua ed altri. Mi sembra utile non mescolare nè contrapporre le due tematiche, tenendo presente che la “crisi” attuale è infine provocata dai cambiamenti nel modo di produzione, nel quale il lavoro rimane centrale. Quindi non si può non intervenire sulle sue condizioni – almeno in ambito europeo – e scindere la sopravvivenza di intere generazioni da esso.

Gli autori del “Manifesto” sopra citato partono dalla necessita di abbassare sensibilmente l’orario di lavoro per indicare che non si tratta di un intervento congiunturale, ma di un salto di paradigma, ovvero di una sostanziale riorganizzazione e redistribuzione del lavoro complessivo, retribuito e non. I loro calcoli partono da dati dell’economia tedesca riferiti al 2010. Allora il sostegno pubblico alla disoccupazione costa ai contribuenti già ben 58 milliardi € annui – che si potrebbero impiegare in modo più proficuo. Il calcolo degli economisti arriva in cinque anni attraverso una graduale diminuizione e diversa distribuzione delle ore lavorate in Germania a 30 ore settimanali e alla creazione di 4,7 milioni nuovi posti di lavoro.

Per la produzione dei beni necessari alla riproduzione oggi si impiega solo più ca. il 50% del tempo necessario mezzo secolo fa, nel 1960, quando si lavorava normalmente 48 ore settimanali. Oggi basterebbe dunque la metà del tempo, non tenuto conto del fatto che il numero dei lavoratori è aumentato (tendenzialmente si potrebbe già andare verso le 20 ore settimanali), ma tenuto conto di una serie di fattori contingenti si propone una diminuzione a 30 ore settimanali in ambito europeo. In una recente “lettera aperta” a tutte le istituzioni competenti tedesche, a nome di un centinaio di firmatari (alternative-wirtschaftspolitik.de) si chiede di farne la richiesta collettiva del prossimo 1 maggio 2014 in Europa. Quell’orario di lavoro basato su 30 ore settimanali a pieno salario/stipendio non sarebbe da considerarsi in modo statico nelle diverse realtà produttive, ma dovrebbe essere variabile secondo le esigenze nazionali, regionali e delle singole professioni e svariate situazioni aziendali o personali, comprendendo periodi di formazione professionale oltre al periodo di cura di figli e famigliari nella media di un anno.

E’ ovvio che – per arrivare a tanto – si tratta di rimettere in questione il rapporto centrale fra capitale e lavoro, la redistribuzione del profitto d’azienda fra rendita e salario, ma la disegualianza vigente porta alla dissoluzione dei nostri sistemi politici nati dalla seconda guerra mondiale. Nella logica neoliberalista attuale l’Europa sarà concorrenziale solo se scenderà agli standard delle economie asiatiche. Questo va spiegato ad alta voce e in tutti i modi possibili da una sinistra alternativa agli occupati e disoccupati giovani e vecchi qui ed altrove.



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