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Ma quale razionalità! Sono le emozioni a condizionare la politica.

di Carlo Bordoni
sabato 20 settembre 2014

«Va’ dove ti porta il cuore», esortava Susanna Tamaro negli anni Novanta, anticipando una tendenza destinata a rafforzarsi nella società contemporanea. Non solo nella vita privata, ma anche in quella pubblica: al mercato delle emozioni si decidono gli esiti delle elezioni e la fortuna delle coalizioni governative, come dimostra lo psicologo Drew Westen (La mente politica , il Saggiatore, 2008), mentre Martha Nussbaum rincara la dose nel suo saggio più ambizioso, Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia , pubblicato di recente dal Mulino.

Rabbia, disgusto, empatia e compassione regolano il comportamento pubblico e indirizzano le scelte politiche dei governi. La filosofa americana sfata così la convinzione che le democrazie liberali siano fondate su principi razionali, cui spetta il merito di rendere l’individuo consapevole dei suoi diritti e responsabile delle scelte comuni dello Stato in cui vive. Uno stravolgimento non da poco, quello della Nussbaum, che incide sull’antica opposizione tra socialismo e capitalismo, tra est e ovest, sorta negli anni immediatamente successivi al Secondo conflitto mondiale. Karl Popper, nello scambio epistolare con Carnap, di cui scrive Dario Antiseri, si rivela preoccupato per la componente emotiva del socialismo, per la sua anima «utopica e messianica», dove le scelte politiche, più dirette dalla passione che dalla ragione, rischiano di cadere nel totalitarismo. Quel totalitarismo di sinistra che, proprio in quegli stessi anni, è apertamente denunciato dai membri della Scuola di Francoforte, al momento di rientrare in Germania dopo l’esilio americano, tanto da mettere in crisi la compattezza del credo marxista che fino ad allora aveva guardato in una sola direzione, verso l’irrazionalismo nazifascista che aveva trascinato il mondo in guerra.

In un’opera destinata a far discutere, la Dialettica dell’illuminismo (1947), Adorno e Horkheimer, infatti, pongono le basi per il superamento del conflitto tra socialismo e capitalismo, che aveva costretto Popper a prendere le distanze dal socialismo e a propendere per una società aperta, sostituendolo con quello meno occasionale (ma più sociologicamente rilevante) tra capitalismo e democrazia, su cui si innesta un vivace dibattito politico destinato a durare fino a oggi. Con significative ripercussioni in campo economico: come ricorda Wolfgang Streeck, lo Stato moderno, per sua stessa funzione, garantiva un equilibrio tra i due fronti, concedendo una discreta libertà alla democrazia e, insieme, contenendo gli interessi aggressivi del capitalismo. Un equilibrio destabilizzato dal crollo del modello keynesiano dell’intervento pubblico nell’economia e dalla sua progressiva sostituzione col neoliberismo di von Hayek, che lo stesso Popper sembra privilegiare.

Ma il pensiero di Adorno sulla sostanziale equivalenza tra totalitarismi di destra e di sinistra — presto confermato da Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (1951) — oltre a mettere in dubbio, per la prima volta dopo Nietzsche, la legittimità di una fede assoluta nella ragione (l’anima illuminista della modernità), permette di scoprire quanto di razionale si nasconda al fondo di ogni totalitarismo. Società in cui si esaltano l’emozionalità e i sentimenti, sfruttando la disponibilità delle masse a farsi incanalare «là dove le porta il cuore», sono in realtà rette da possenti strutture razionali, il cui fine è l’oppressione dell’individuo e uno stringente controllo sociale. Le espressioni più tragiche dei totalitarismi, dal nazismo tedesco al comunismo sovietico, non sono che gli apici di un razionalismo cinico e disumano. Solo la razionalità può portare il male alle sue conseguenze estreme, e i campi di sterminio, così come le «purghe» staliniane, sono la dimostrazione di una folle lucidità, perpetrata non certo per passione, ma in funzione di un progetto organizzato scientemente.

Non è un caso che Max Weber, il massimo sociologo della modernità, avesse indicato in epoca non sospetta (i primi del Novecento) il «potere carismatico» quale forma più attuale per risolvere i problemi creati da un’eccessiva burocratizzazione della società industrializzata, rispetto ad altre forme di potere, tradizionali (sacrali o ereditarie) e razionali (elettive e democratiche). Weber riconosce con largo anticipo ciò che avrebbe generato la crescita tumultuosa di una società di massa, cioè di una società composta di un numero crescente di persone che hanno nuovi bisogni, maggiore istruzione e dunque maggiori esigenze rispetto al passato. Che si pongono di fronte allo Stato non come sudditi obbedienti (secondo i dettami di Hobbes), ma come cittadini possessori di diritti. Oltre a Weber, molti altri si dedicano alla comprensione dei movimenti collettivi (da Pareto a Le Bon, da Sorel a Ortega y Gasset), ma è soprattutto a Elias Canetti, col suo Massa e potere (1960) che si deve l’analisi più accurata di questa concentrazione assolutamente casuale di persone che stanno assieme senza conoscersi, senza toccarsi, senza la consapevolezza della propria volontà, ma forti del numero, pronte a esplodere all’improvviso con una «scarica» (Entladung ) violenta e incontrollabile che solo il buon capo carismatico, facendo leva sulle emozioni, sa eccitare, guidare e far approdare opportunamente contro il nemico di turno. Questi è anche l’unico in grado di contenerne la forza eversiva, ma la sua azione è pur sempre retta da una lucida coscienza razionale: la succube irrazionalità delle masse gestita dalla ragion di Stato del suo leader.

È così che si infrange il pregiudizio che accompagna da sempre le democrazie liberali e le ritiene, a torto, governate dalla ragione: in forza di questo riconoscimento della loro natura passionale, esse appaiono ora più umane, più sensibili alle emozioni collettive, agli umori dell’opinione pubblica, ma anche più fragili e soggette a cadere nell’errore. Forse per questo più portate a soffrire di dolorosi periodi di crisi come quello che stiamo attraversando.



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