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L’Islanda il paese più femminista del pianeta

di Gabriella Catania
mercoledì 8 giugno 2016

L’Islanda è stata la prima nazione al mondo a eleggere come presidente una donna, Vigdís Finnbogadóttir, nel 1980. E ad avere un primo ministro apertamente omosessuale, Jóhanna Sigurðardóttir”- A dirlo a Donneuropa è una teenager islandese che si definisce “orgogliosa di appartenere a un paese così poco incline al pregiudizio”.

E in effetti, secondo il Global Gender Gap Index del World Economic Forum, quest’isoletta subartica di 300mila abitanti, e con un reddito pro capite pari a quello tedesco, è la nazione con il minor tasso mondiale di diseguaglianza di genere. Uomini e donne, qui, sono davvero uguali (o quasi). Lo dice esplicitamente anche la Costituzione, all’articolo 65: “Uomini e donne hanno uguali diritti da tutti i punti di vista”. Non a caso testate anglofone progressiste come The Guardian e The Nation hanno definito l’Islanda il luogo “più femminista del pianeta”.

Etichette a parte, parlando con le islandesi si ha la sensazione, alquanto piacevole, che il famigerato “soffitto di cristallo” possa essere rotto. Che la parità tra i sessi non sia solo uno dei grandi miraggi della nostra epoca. “Ho vissuto un po’ all’estero, Italia inclusa e, almeno rispetto ai paesi che ho visitato, posso dire che l’Islanda è in assoluto quello più a suo agio con le questioni di genere. – spiega Kristín Arnórsdóttir, 26 anni, studentessa di economia finanziaria – Sento di avere le stesse opportunità professionali degli uomini, e non devo lavorare più duramente di un maschio per avere ciò che voglio. Però qui in Islanda le donne non sono trattate in modo più ‘gentile’ solo perché sono donne. I nostri genitori si aspettano che riusciamo a farci strada nella vita tanto quanto i maschi, e se c’è da sbrigare del lavoro manuale (ad esempio muovere un oggetto pesante, o spalare neve) non saltiamo il turno solo perché siamo donne”.

I numeri sembrano dare ragione alla Arnórsdóttir. Alle elezioni parlamentari del 2009, per esempio, le donne erano circa il 40% dei candidati e anche degli eletti. Nel settore privato gli stipendi sono grossomodo gli stessi, anche se gli uomini continuano a guadagnare di più in alcuni settori, specie in quelli tradizionalmente maschili, come l’artigianato. All’università le donne se la cavano assai meglio degli uomini, e persino in discipline “da sesso forte” come ingegneria e affini, circa il 40% dei nuovi laureati sono donne. Il 15% delle famiglie sono costituite da madri single, e sono tantissimi i neopadri che alla nascita del pargolo si prendono un congedo dal lavoro.

“In Islanda l’idea fondamentale che gli uomini e le donne debbano avere gli stessi diritti, obblighi e possibilità in ogni ambito della vita è generalmente accettata dalla popolazione e di sicuro da tutti i partiti politici. Questo non vuol dire che non ci siano discriminazioni. Ma, se ne emergono, sono viste come un problema, una questione da affrontare e risolvere”, spiega Ingólfur V. Gíslason, 57 anni, professore associato di sociologia all’Università dell’Islanda.

“Come in altri paesi nordici, l’idea dell’uguaglianza di genere fu accettata presto in Islanda. Eppure non si fece granché per accrescere le opportunità delle donne fino al decennio rivoluzionario, tra gli anni Sessanta e Settanta. – continua Gíslason – L’entrata delle donne sposate e delle madri nel mercato del lavoro fu l’effetto principale di quel decennio. E questo comportò, necessariamente, la (lenta) accettazione di un incremento del welfare, ad esempio estendendo il sistema degli asili-nido”.

Ancora, ebbe un ruolo importante la nascita di “un forte movimento femminista culminato in un partito delle donne che, sebbene oggi non esista più, ebbe allora abbastanza successo. Negli ultimi decenni, poi, lo sforzo per aumentare le possibilità degli uomini di partecipare attivamente alla cura dei loro figli ha accelerato il cambiamento”.

Il partito femminista a cui Gíslason si riferisce si chiamava Kvennalistinn, Alleanza delle donne, e nel 1987 arrivò a controllare sei seggi su 63 nell’Alþingi, il venerando parlamento islandese. Il Kvennalistinn era un partito sui generis, che aveva come suo primo obiettivo la liberazione della donna. Tra i suoi cavalli di battaglia c’era la lotta contro le discriminazioni salariali, un welfare più attento ai bisogni femminili, il rifiuto di ogni forma di violenza. Nel 1998 il Kvennalistinn confluì ufficialmente nell’Alleanza socialdemocratica, rendendola ancora più femminista e sensibile ai diritti umani.

Sono battagliere le donne islandesi. Il 24 ottobre 1975 arrivarono addirittura a “scioperare”: niente lavoro in ufficio, niente scuola o università, niente lavatrice, niente fornelli; persino la prole dovette cavarsela da sola. Fu una giornata memorabile. 25mila donne di tutte le età e reddito si riunirono nella capitale Reykjavík per protestare contro la loro condizione di minorità, a casa e sul lavoro. Cinque anni dopo fu eletta presidente della repubblica Vigdís Finnbogadóttir, una madre divorziata poliglotta che riuscì non solo a battere i tre candidati maschi, ma poi anche a farsi rieleggere tre volte. “Ho sempre creduto appassionatamente nella capacità della solidarietà femminile di trasformare la società. – avrebbe commentato un quarto di secolo dopo, ormai ottantenne.

A parere della Arnórsdóttir, però, il trionfo dell’uguaglianza dei sessi in Islanda ha radici ancora più profonde. “Già all’epoca dei vichinghi talvolta c’erano delle donne al comando delle navi. Nell’ultimo millennio, a causa delle aspre caratteristiche di questa terra, le donne si sono davvero dovute dare da fare come gli uomini per mantenere la famiglia”.

Può sembrare strano che il paesaggio lunare islandese, con un suolo così fragile e la scarsa vegetazione, possa aver contribuito all’uguaglianza di genere, ma probabilmente è così. In fondo è noto che le piccole comunità con un’economia povera (o addirittura di sussistenza) tendono a essere più egualitarie, e anche più democratiche. Le dimensioni contano, alla fine: quando si è pochi e non ci sono grandi differenze di reddito o potere, è più probabile che la voce del singolo abbia un peso. Questo è particolarmente vero per l’Islanda che, sin dalla sua fondazione (alla metà del IX secolo, da parte di immigrati scandinavi), è sempre stata un “grande villaggio”.

Ed è vero che sin dal Medioevo le donne islandesi hanno goduto di uno status migliore di quelle italiane o francesi, che pure vivevano in terre molto più ricche e confortevoli. Basti pensare che la bellissima Saga di Njáll, risalente al XIII secolo, ma ambientata nell’Islanda del X secolo, si apre con il divorzio tra Unnr e Hrútr. Per spiegare le sue ragioni al padre, il saggio giurista Mörðr, Unnr parla chiaro, senza andare troppo per il sottile: “Mio marito è incapace di consumare il nostro matrimonio e di soddisfarmi, sebbene in ogni altro campo sia virile come il migliore degli uomini.”

“Nel mondo delle antiche saghe islandesi le donne sono figure di grande forza e influenza, capaci anche di atti di violenza. – sottolinea a Donneuropa Emilia Lodigiani, direttrice di Iperborea, casa editrice milanese specializzata in letteratura nordica – E anche gli storici ci dicono che le islandesi sono sempre state molto attive, piuttosto indipendenti, inserite nella struttura economica e sociale di un paese con pochissimi abitanti”.

Come scrive l’archeologo Jesse Byock nel suo saggio “La stirpe di Odino” (Mondadori), nello Stato libero islandese (dal X secolo alla fine del XIII) le donne nate libere “avevano responsabilità legali spesso paragonabili a quelle degli uomini ed esercitavano un certo controllo sulle proprie vite, anche in virtù del diritto alla proprietà indipendente dai maschi. Quando svolgevano il ruolo di capofamiglia, erano tenute a pagare la decima «come gli uomini» e, sempre come gli uomini, venivano bandite in seguito a ferimenti o uccisioni”.

La storia insegna a non sottovalutare le islandesi, insomma. Forse non è un caso se, durante la grave crisi economica scoppiata nel 2008, con il Pil che arrivava a calare di oltre il 6%, l’Islanda si affidò proprio a un primo ministro donna, Jóhanna Sigurðardóttir. E in effetti la leader socialdemocratica dimostrò tenacia, pragmatismo e grande capacità di mediazione, scongiurando il rischio che l’intera società islandese collassasse insieme alle sue banche.

Quando il mandato della Sigurðardóttir ebbe termine, nel maggio del 2013, il Pil dell’isola era tornato finalmente a crescere. Un risultato non da poco. Ma quanti altri paesi al mondo si sarebbero lasciati guidare, nel bel mezzo della peggior crisi economica della loro storia, da una donna lesbica, senza una laurea e con un passato da assistente di volo e sindacalista ? “Gli islandesi sono molto progressisti e aperti mentalmente, nel complesso. – osserva la Arnórsdóttir – Le distinzioni sociali o di genere non sono così forti qui, e se un gruppo denuncia una qualche ingiustizia, l’opinione pubblica può schierarsi abbastanza rapidamente a suo favore”.

L’egualitarismo, in Islanda, non riguarda infatti solo i rapporti tra i due sessi. “Lì tutti si danno del tu, le famiglie sono tutte imparentate tra loro in un modo o nell’altro, addirittura si usa ancora il patronimico anziché il cognome. In generale le relazioni sociali sono molto personali e dirette, e questo rafforza ovviamente il ruolo delle donne. – racconta la Lodigiani, che aggiunge – La prima volta che visitai l’Islanda fu in occasione del Reykjavik International Literary Festival. Insieme ad altri editori stranieri fui ospite della presidente Finnbogadóttir. E persino con lei il rapporto era spontaneo, informale. Era come incontrare un qualsiasi cittadino. In Islanda c’è scarsa ufficialità e molta semplicità”. Lo conferma la Arnórsdóttir: “Ho chiacchierato con il primo ministro due volte, e mi è parso molto versatile e con i piedi per terra. Lo stesso può dirsi per la maggior parte dei membri del parlamento”.

Ad alimentare l’egualitarismo islandese, però, è anche un forte senso di identità nazionale, e un profondo attaccamento alla propria cultura. Gli islandesi sono fieri, in particolare, della loro bella ma arcaica lingua, non molto diversa da quella delle amatissime saghe medievali (come se gli italiani si esprimessero ancora nel fiorentino di Dante). “È una nazione davvero colta. – riconosce la Lodigiani, e nel suo tono si può percepire una nota di ammirazione da umanista – Quasi tutti gli islandesi comprano almeno un libro l’anno, e oltre il 40% ne pubblica uno o più nella vita. I bestseller possono vendere anche trentamila copie: facendo le proporzioni, è come se in Italia se ne comprassero sei milioni”.

Una nazione molto acculturata, quindi. Che ama considerarsi una roccaforte di civiltà e diritti umani. Tanto da vietare la prostituzione (a essere puniti sono i clienti, però) e le lap-dance. Come ebbe modo di dichiarare a riguardo la Sigurðardóttir, allora primo ministro, “le nazioni nordiche sono capofila nell’uguaglianza di genere, e trattano le donne come pari cittadini, non come merce in vendita.”

Non tutti però sembrano apprezzare la via islandese alla parità di genere. Specie all’estero. Sostengono che l’isola sia diventata troppo femminista. Ma le donne islandesi intervistate da Donneuropa non sembrano affatto delle fanatiche. Anzi. Ne è un esempio la Arnórsdóttir, che dice: «”a vera uguaglianza di genere è quando la gente non pensa o non si aspetta da te certe cose solo perché appartieni a questo o quel sesso. Secondo me, dunque, bisogna seguire la via maestra dell’egualitarismo e dell’individualismo. In fondo tanti aspetti della società sono ingiusti anche nei confronti degli uomini”.

Probabilmente l’Islanda non sarà il faro di civiltà mondiale che i politici islandesi spacciano ai loro elettori. E di sicuro non è una comunità perfetta, o un’utopia femminista: l’essere umano è un “legno storto” ovunque, anche nei pressi del circolo polare artico. Ma questa isoletta alla periferia dell’Europa ha insegnato una cosa al mondo: una società che rispetta sul serio le donne, alla fine, è una società migliore per tutti. Uomini inclusi.


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