IFE Italia

La sospensione del presente

di Serena Mammani e Marina Pinto
sabato 13 febbraio 2021

Fonte: https://comune-info.net/la-sospensi...

Immagine: dipinto di Lisandro Rota

Siamo stati cresciuti dai nostri vecchi sulla paura delle loro battaglie non vinte, con messaggi schizofrenici come: “devi farcela da solo”, “non lasciare mai nessuno indietro”, “c’è il concorso, non pensare a nessuno, vediti il tuo e pigliati il posto”, “condividi le informazioni, aiuta sempre il più debole”. Così tanto schizofrenici, che alla fine psiche e corpo in noi non hanno mai trovato un punto d’incontro. Ma ancora non ci è chiaro come sia possibile che proprio noi dobbiamo essere i forti e, che attorno a noi ci siano solo deboli da aiutare. Così rimaniamo appesi a ciondolare tra la regina-indipendenza e il re-bisognoso, alternandone i momenti ma vergognandoci un po’ quando ci accorgiamo di esser regina e non re.

Eppure ci abbiamo provato a non finire come Edipo, cercando spasmodicamente nel corso della nostra vita un senso di appartenenza e di identificazione con qualcosa che non fosse né il re né la regina, ma forse quella sedia che insieme provavano a occupare. Forse l’obiettivo era troppo arduo per noi cresciuti a pane e massime come “devi bastare a te stesso”, così alla fine ci siamo davvero convinti che l’obiettivo da raggiungere è potercela fare da soli. Ciò con cui ci troviamo a fare i conti è una pretesa eccessiva e ingombrante, l’imperativo sociale che ci viene rivolto è di porci come agente primo, come padroni incontrastati del nostro destino. È attraverso l’illusione che sia possibile fare “Io”, attraverso un’effimera ma al contempo intensa identificazione con la prova economica della nostra performance, che il capitalismo neoliberale ci spinge alla rottura dei legami, ci convince che alla cooperazione dobbiamo sempre preferire la competizione, ma non dimenticandoci mai di aiutare il più debole, il più bisognoso, in una logica fintamente cattolica in grado però di garantirci sonni tranquilli.

Non dobbiamo dimenticarci, però, che è perché esistono i subalterni che possono esistere i più fortunati: l’organizzazione del nostro stato sociale ha creato un programma di politiche sociali che mirassero all’assistenza, consapevoli che il riconoscere il bisognoso e il non indipendente avrebbe attaccato loro uno stigma del quale non si sarebbero mai liberati. Nell’era del neoliberismo l’autonomia individuale e la dignità personale si fondano sull’affermazione della propria autosufficienza, e non, come direbbe Richard Sennett, “sulla relazionalità” o sulla necessità della dipendenza. Le politiche assistenziali oggi non considerano i beneficiari come soggetti a pieno titolo e meritevoli di dignità, ma solo come oggetto di compassione e carità, persino di disconoscimento, tanto che il loro chiedere aiuto passa, quotidianamente, attraverso riti di degradazione che misconoscono il valore intrinseco delle persone. Alimentando il senso di autoumiliazione dei destinatari del welfare, che si auto-percepiscono come soggetti non degni di rispetto, in assenza di stima e amor proprio e soprattutto di un sentire collettivo che alimenti l’appartenenza, ciò che si ottiene è “un “rispetto a somma zero” dove ognuno acquisisce stima di sé solo attraverso la negazione e il disconoscimento dell’altro.

Le radici sociali della depressione

Ma questo quadro ha anche una sua cornice: il culto della performance e dell’iper-competitività che ci hanno spinto sempre più verso la rottura di legami e delle relazioni sociali, costringendoci ad un isolamento forzato con la conseguente patologia depressiva di fronte ad una perenne insoddisfazione quando risultiamo “non-essere-più-in-grado-di-poter-fare”. Questo obbligo a performare ci provoca continui “infarti psichici”. Infatti, quando ci sentiamo non più in grado di poter fare ciò che ci viene richiesto e che riteniamo di dover portare a termine, entriamo in guerra con noi stessi e sperimentiamo la depressione.

Che lo spettacolo abbia inizio! Protagonista “depressione” e sua sorella maggiore “prestazione” scendono dal palco e invadono il pubblico, ma non c’è preoccupazione per questo perché dietro le quinte “il capitalismo neoliberale” silenziosamente aveva già posizionato tra il pubblico vari attori complici Xanax, En, Depakin, Haldon, Valium: lo psicofarmaco, maestro indiscusso della nuova cultura medica e psicopatologia, della clinica ripartiva dei deficit individuali. Il problema quindi sei solo tu, tu che non hai retto alla prestazione, il problema sei tu che non ti uniformi a quello che questo mondo chiede: debole! Inferiore! Ridicolo!

Tra i medicinali più pericolosi e allo stesso tempo tra i più usati oggi, senza bisogno di ricetta e senza che ci vengano spiegati i suoi effetti collaterali, assumiamo per sopravvivere pillole di iperattività, le uniche in grado di difenderci dalla sempre più frenetica corsa alla performance. Corriamo avanti e indietro per la stessa strada, giriamo sempre intorno allo stesso palazzo, non conta più dove ci piacerebbe andare, dove vorremmo andare, l’importante è non fermarsi. A tutto questo segue una ridefinizione dei valori, un “individualizzazione” in chiave “dissolutiva” delle forme di vita precostituite che abbiamo rigettato, o meglio siamo stati costretti a rigettare, non senza difficoltà. Questi siamo noi, in bilico tra autonomia e anomia (Durkheim, 1969), abbiamo dovuto riformulare il nostro agire, abbiamo dovuto

“per non fallire, essere in grado di fare piani a breve scadenza, adattarci alle circostanze, organizzare e improvvisare, delineare obiettivi, riconoscere gli ostacoli come tali, saper incassare le sconfitte e provare a ricominciare” (Beck, 2000, p. 8).

Solo una strada infinita ci hanno indicato per raggiungere il benessere psicofisico: rimuovere l’idea del possibile fallimento dall’orizzonte esperienziale, aiutare i deboli ma non diventarlo mai.

Il tempo, all’improvviso, il tempo

D’improvviso però, forse in modo catartico, forse come un messaggio che questo mondo allo sfacelo ci ha voluto lanciare, ecco che arriva il Covid. Quasi come se volesse salvarci dalla tristezza delle nostre attuali vite, irrompe nelle nostre case e sospende quel presente che avevamo già smesso di vivere perché troppo proiettati nella costruzione di un futuro invisibile.

Per un mese sembrava davvero che quasi tutto si fosse fermato e di qui lo spaesamento, la confusione, le giornate senza lavoro, senza università. Il tempo, all’improvviso, il tempo.

Per i più fortunati, tempo per abitare l’uscio di casa, chiusi dentro ma con uno sguardo verso l’esterno. Tempo per raccogliere i pezzi di sé che si erano smarriti nel mondo pre-Covid. Tempo, passato dietro le tapparelle, dietro le tendine, che, leggermente spostate, facevano intravedere la luce delle dimore, permettendo a tutti con auto protezione di affacciarsi verso l’altro. Tempo per riacquistare la consapevolezza di essere soggetti degni di guardare fuori, di essere parte di un qualcosa di più grande, individui unici ma parte integrante di una comunità, uno inscindibilmente connesso all’altro. Tempo per capire che i subalterni sono la condizione per l’esistenza dei più fortunati. Tempo per vederli i meno fortunati, per guardare finalmente oltre il proprio naso, per vedere che lì fuori, in quel limbo temporale che è stato il lockdown, era caduto il velo istituzionale dell’offuscamento delle marginalità. La chiusura dei servizi, la sospensione di tutti i lavori di aiuto, avevano mostrato finalmente il vero prezzo delle nostre fortune. Un tempo anche per sentire le proprie fragilità e connettersi con quelle degli altri, seppur diverse, per sentirsi come dei naviganti sulla stessa barca in balia delle onde. Un tempo in cui è emerso un desiderio istintivo di contatto con gli altri, che si è inizialmente riversato nei nuovi riti sociali di riscoperta delle finestre, dei balconi, dei luoghi semi-privati, delle soglie come spazi di relazione.

Lo stesso tempo è stato però affollato dall’ascolto compulsivo di telegiornali, dallo scroll della homepage di Facebook, dei quotidiani, per cercare di capire, nella speranza che qualcuno riuscisse a restituirci dei contenuti alfabetizzati, pre-digeriti (Bion, 1962), per aiutarci a cercare dei luoghi dentro di noi dove collocare quello che fuori di noi stava accadendo. Invece, siamo stati vittime e fautori di conati di vomito e indigestioni di ogni tipo. I nostri pensieri sono mediati dalla mente e sentiti sul corpo. La parola ha quindi il potere di comunicare il pensato, distanzia, crea uno spazio tra ciò che è accaduto e la persona che ne sta parlando, perché posiziona ciò di cui si parla, che in realtà è ciò che si sente, un po’ più là. Nominare le cose è quel funzionale processo che ci consente di creare una connessione tra emozioni e pensiero, dare un nome al sentire e fare sì che quel sentire sia condiviso, attraverso l’unico mezzo che abbiamo, la parola appunto. E così la parola che aiuta a fare i conti con le cose che avvengono, a dargli un ordine, a costruire delle narrazioni in grado di organizzare l’esperienza, che altrimenti resterebbe solo ancorata ai sensi, la parola che è quello che ci permette di far capire ad altri la nostra mente, è diventata un’arma violenta che ha accresciuto processi di confusione, di diffidenza, di isolamento.

Abbiamo rallentato?

Parallelamente a ciò, chi di dovere si è subito messo all’opera per capire come in realtà niente dovesse fermarsi. E mentre qualcuno davvero non si è mai fermato, e non solo i medici e infermieri, ma anche i dipendenti dei supermercati, così come i corrieri che non hanno mai smesso di cercare indirizzi e citofoni per le consegne, qualcuno ha avuto l’illusione di star rallentando, mentre pian piano già iniziavano a nascere nuove forme di sfruttamento, ancora più invasive, ancora più subdole, con il grosso rischio oggi che ci restino appiccicate addosso per sempre. Ci siamo ritrovati attaccati allo schermo dei nostri computer per giornate intere, ci siamo lentamente adagiati a non dover correre in ufficio o all’università a prima mattina, senza renderci conto che di lì a poco saremmo finiti a lavorare a tutte le ore del giorno, a non avere un confine, che in molti casi già non esisteva, tra il lavoro e la vita. Siamo finiti a lavorare nel weekend, dopo cena, a fare riunioni mentre cucinavamo il pranzo o preparavamo l’impasto della pizza per il venerdì sera. Le giornate sono trascorse in uno spasmodico fare perenne, in autocompiacimento quando riuscivamo a fare addirittura più di una cosa contemporaneamente, in un accrescimento dei livelli di soddisfazione e autostima quando siamo stati iper-produttivi, quando abbiamo performato come forse mai avevamo fatto prima. Così dopo i primi tempi in cui ci siamo autocompiaciuti dei nostri livelli di attenzione, di produzione, sono arrivati i giorni del burn-out, dello stress, dell’esaurimento delle energie a disposizione, e con essi sentimenti di avvilimento, dei “perché oggi non ci riesco?”.

Questa domanda non riceverà mai risposte, perché il problema risiede nella domanda stessa: non dovremmo chiederci perché oggi non ci riesco, ma: “perché ieri ci sono riuscito?”. Perché nonostante avessimo assaporato il tempo, la prossimità, il comune, siamo tornati immediatamente a riorganizzare le nostre quotidianità in funzione di uno stile di vita che ha prodotto la malattia stessa che stiamo vivendo? La domanda che dovremmo porci è un’altra: come è possibile che in un tempo in cui avevamo imparato che la risposta risiede nel comune, quel comune attorno al quale l’esperienza umana tende a formarsi e articolarsi, attorno al quale viene condotto il tentativo di gestire le dimensioni condivise della vita, dove i significati dell’esistenza sono delineati, assorbiti e negoziati (Bauman, 2011), noi, invece, siamo regrediti al privato delle nostre frenetiche vite e, ancor peggio, all’interno delle private mura delle nostre abitazioni, dove ci siamo lasciati invadere dai bisogni performanti del lavoro?

Così dopo il rumoroso silenzio dei primi lockdown, dopo aver abitato le nostre domande, a volte assaporato le ansie e vissuto le paure, pur di non sentire quell’immobilismo, pur di non lasciarci trasportare dall’incertezza e dall’ignoto, abbiamo spalancato le porte di casa, perché stare sull’uscio era davvero troppo faticoso, e abbiamo finalmente riempito quell’assordante vuoto che come un macigno premeva sulla nostra anima, abbiamo ricominciato a correre.

Farci carico della debolezza

Il nostro compito oggi? investire sugli spazi di antropogenesi, arte, amore, cura, desiderio, per esempio, che sono al contempo i luoghi privilegiati dello sfruttamento e gli spazi di sottrazione e resistenza.

Forse è il momento di aprire una strada per capovolgere il binomio debole-forte, riscoprendoci necessariamente connessi all’Altro e assumendo i legami non come limite ma come ciò che conferisce libertà al nostro essere. L’autonomia deve riprodursi a partire dalla percezione dell’altro, un altro diverso da sé, nell’interdipendenza e non nella dipendenza (Winnicott, 1975). Gli individui consapevoli dell’interdipendenza vengono formati, come direbbe Pennacchi (2008), dallo stesso corpus di norme e di valori strutturato e condiviso che dà stabilità ai legami sociali.

“L’apprendimento dell’essere con l’altro – per cui l’esperienza intersoggettiva è precondizione della formazione di legami sociali ma anche prodotto di quei legami (Turnaturi, 1994) – è apprendimento morale squisitamente democratico” (Pennacchi, 2008, p. 10).

Siamo una molteplicità contraddittoria che esiste in un gioco di velato e svelato e dobbiamo imparare a fare nostra questa verità e farci, quindi, carico della debolezza, senza sentirla come conseguenza di un potere che si impone e che ci vuole deboli, ma condividendola, come già una potenza in atto. In un momento in cui le maglie sembrano essersi sfilate, è necessario ritessere relazioni, immaginare nuovi luoghi e nuovi modi per incontrarsi, costruire nuove abitudini e nuove routine, insomma, consolidare nuovi riti che ci permettano di uscire dalla solitudine in cui ci sentiamo, ora più di prima, intrappolati.

Bibliografia

BECK, U. (2000). I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione. Bologna: Il Mulino. BAUMAN, Z. (2011). Modernità liquida. Bari: Laterza & Figli Spa. BENASAYAG M., SCHMIT G. (2013), L’epoca delle passioni tristi, Milano: Feltrinelli. BION W. (1962). Apprendere dall’esperienza, Roma: Astrolabio Ubaldini. DEJOURS C. (2015). Souffrirautravail n’est pas une fatalité, Bayard Paris. DEMETRIO D. (2014). Silenzio, Padova: EMP. DE SAINT-EXUPÉRY A. (1949). Il piccolo principe, Milano: Bompiani. DURKHEIM, E. (1969). Il suicidio. torino: Utet. EHRENBERG, A. (2010). La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Torino: Einaudi. KAËS, R. (2012). Il malessere, Roma: Borla. MUSOLINO, M. (2014). L’invenzione di nuovi luoghi dell’abitare. Animazione sociale (285), 15-24. PENNACCHI, L. (2008). La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista. Donzelli RAMPAZI, M. (2014). Tracce di futuro nel quotidiano abitare dei giovani. Animazione Sociale (287), 13-20. WINNICOTT, D. (1975). L’enfant et sa famille. Payot Paris. SENNETT, R. (2004). Il rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali. Bologna: Il Mulino. Serena Mammani e Marina Pinto


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