Lo statuto del beni comuni
di PAOLO CACCIARI
Alla grande tematica dei beni comuni ci si può avvicinare da tanti, diversi punti di vista: fenomenologico e scientifico, attraverso l’ecologia; utilitaristico, attraverso l’economia; funzionale e finalistico, attraverso la sociologia e la filosofia; ideologico, attraversando tutti gli “ismi” di tutti i tempi. Oggi, grazie al lavoro di un gruppo di giuristi che hanno lavorato con Rodotà nella commissione incaricata dall’ultimo governo Prodi di modificare la parte del codice civile relativa alla proprietà pubblica, tra cui Alberto Lucarelli, professore di Diritto pubblico all’Università Federico II di Napoli e alla Sorbonne a Parigi, possiamo dire che il concetto di beni comuni ha acquisto anche un fondamentale spessore giuridico. Una leva importantissima nelle mani di quanti – movimenti, forze politiche e sindacali, amministratori pubblici – si stanno battendo contro il saccheggio delle risorse naturali, la depredazione dei servizi di pubblica utilità, la privatizzazione dei beni pubblici e devono ora – soprattutto dopo lo stupefacente risultato dei referendum sull’acqua e sull’energia pulita del giugno dello scorso anno - passare ad una fase propositiva, di concreta e praticabile proposta politica. Siamo in presenza del tentativo di tracciare una nuova teoria giuridica (non ancora presente nel nostro ordinamento) relativa ai beni comuni.
Da questo punto di vista, meritoria è l’iniziativa della casa editrice Dissensi che ha raccolto in un unico volume cinque saggi e svariati articoli di Lucarelli ( il volume è indicato alla fine dell’articolo, n.d.r.) corredati da una vasta documentazione (tra cui le prime delibere del Comune di Napoli sulla ripubblicizzazione dei servizi acquedottistici e sulla democrazia partecipativa). La sensazione è che finalmente si sia aperta una breccia nel muro della dottrina accademica che fa da baluardo al potere incontrastato degli interessi economici dominanti. Esattamente come avvenne in altri campi, ad esempio, quando un gruppo di fisici contestarono il nucleare. O come quando gli psichiatri misero in dubbio il paradigma della segregazione. O da quando alcuni economisti eretici hanno cominciato a smascherare il mito truffaldino della crescita economica infinita. Un corto circuito liberatore che accade quando i saperi esperti, specialistici si contaminano con le ragioni dei saperi esperienziali, diffusi, “popolari”. Lo stesso percorso di vita del nostro amico autore (attivo nei movimenti per l’acqua e da ultimo assessore ai beni comuni e alla partecipazione nella sua città) ci suggerisce che il sottotiolo del libro potrebbe essere letto anche al contrario: dalle buone azioni alla buona teoria. Le innovazioni teoriche prendono forma nel corpo dei processi sociali.
Senza mai uscire dallo specifico disciplinare, rimanendo sul filo del diritto (naturale e sociale, pubblico e comunitario), Lucarelli decostruisce e sradica nientemeno che il concetto e l’istituto della proprietà quando essa si riferisce ad alcune categorie con funzioni particolari, ma comunissime, di beni e servizi. Quelle “fisiologicamente non orientate al mercato” che la relazione finale della Commissione Rodotà ha catalogato in tre aree: i “beni comuni”, appunto, (tra gli altri: i fiumi, le sorgenti, i laghi e le acque in generale, l’aria, i parchi e le riserve ambientali, le foreste, i lidi e le coste, la fauna selvatica e la flora tutelata, i beni culturali e archeologici), i “beni sovrani” (cioè quei beni strumentali all’erogazione di “servizi pubblici essenziali” di interesse economico generale, così come riconosciti anche alla Carta dei diritti fondamentali della Comunità europea) e i “beni sociali” (tra gli altri: le case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti ad ospedali, all’istruzione, le reti locali di servizio pubblico).
Fermandoci ai beni comuni, essi “sono beni che, al di là della proprietà, dell’appartenenza, che è tendenzialmente dello Stato, o comunque delle istituzioni pubbliche, assolvono, per vocazione naturale ed economica, all’interesse sociale, servendo immediatamente non l’amministrazione pubblica, ma la stessa collettività in persona dei suoi componenti” (p.38).
Con una stringente e convincente semplicità, Lucarelli dimostra l’incompatibilità non solo della proprietà privata, ma anche di qualsiasi tipo di gestione business oriented (messa in atto anche degli enti pubblici attraverso le infinite variabili societarie commerciali) di beni e servizi indispensabili all’effettivo soddisfacimento di diritti fondamentali delle persone e delle comunità, della sopravvivenza e della dignità degli individui e della coesione sociale. Il risultato è stato la mancata attuazione dei principi e lo stravolgimento pratico di svariati articoli della Costituzione italiana. Si tratta quindi di invertire il processo involutivo che ha portato nel corso dei secoli all’evaporazione dell’idea delle res communes omnium (e dell’esistenza stessa di res extra commercium) e alla cessione della sovranità politica a favore dei soggetti privati che agiscono nell’economia di mercato. Un percorso, quindi, che superi l’egoismo proprietario, “la concezione individualistica del diritto romano” (p.48), che recuperi l’idea di pubblico e la dimensione del “comune”, che per Lucarelli si tratta di un ordinamento in cui “la titolarità dei beni comuni vada ricondotta in capo alla collettività e la cui disciplina dovrebbe fondarsi su principi fondamentali che rimandano sostanzialmente all’idea di una loro indisponibilità di fondo, proprio in quanto costituenti il bagaglio fondamentale e inamovibile per il soddisfacimento dei bisogni primari di qualsiasi persona” (p.59).
La riflessione di Lucarelli mi pare vada oltre le stesse conclusioni della Commissione Rodotà. L’autore – in questo totalmente immerso nella nuova funzione di assessore alla partecipazione in una megalopoli come Napoli – pensa che si debba “partire dall’individuazione di una cornice di principi e della natura del diritto, piuttosto che partire dall’individuazione del bene – processo tra l’altro estremamente complesso – per identificare il bene comune” (p.37). D’accordo qui con Ugo Mattei (l’altro giurista in servizio permanente effettivo dei movimenti e dei comitati per i beni comuni) il quale ricorda come i beni comuni mal si prestino ad una tassonomia, quasi si trattasse di una nuova categoria merceologica, mentre essi vengono determinati da un processo di riconoscimento e rivendicazione sociale. Un processo dal basso, esplicitamente conflittuale che abbisogna di una soggettività a partire da quella “Rete dei comuni per i beni comuni” che l’autore, assieme al suo sindaco De Magistris e a molti amministratori locali, stanno tentando di mettere in piedi guardando all’Europa, ad una possibile Carta europea dei beni comuni.
La dimensione politica dei commons è inscritta nella loro stessa natura. Tipo di bene e forma di gestione formano un tutt’uno inseparabile. La titolarità collettiva, universalistica (“il soggetto titolare del diritto di fruire dei beni comuni è l’umanità nel suo senso intero, concepita come un insieme di individui uguali”, p. 43) e sociale ha bisogno di una declinazione politica, di una “soggettivazione”, di “regole certe” e di una “responsabilità delle istituzioni pubbliche”, ma, attenzione, “non in quanto proprietari del bene, ma in quanto tutori degli interessi generali e dei valori etico-sociali, riconducibili alla protezione del bene stesso e quindi in quanto soggetti responsabili verso le generazioni future” (p.37), non quindi in quanto proprietari, dominus, sovrani. Al fondo vi è qui un’idea di autodeterminazione e di autogoverno dei cittadini, portatori di interessi diffusi, ma non localistici né corporativi (homo civicus in contrapposizione a homo economicus) che secondo l’autore si potrebbe coniugare con un government democratico, forte e unitario. Per Lucarelli si tratta così di superare non solo la “tensione dicotomica stato/società; beni pubblici/beni privati; servizi pubblici/concorrenza; interessi pubblici/interessi privati”, ma anche e contestualmente, quella separazione che si è venuta determinando tra “democrazia della rappresentanza e democrazia della partecipazione”. L’autore immagina un “diritto pubblico partecipato”, una “democrazia di prossimità”; sembra così sposare un’ idea radicale di democrazia effettiva e sostanziale, ma allo stesso tempo temere “microsistemi di governance territoriali (…), anche felici in alcune isole territoriali, ma che nel loro complesso mettono a rischio il principio di eguaglianza, attraverso una accelerata frammentazione della tutela dei diritti”, “modelli neocorporativi e neo-feudali”, che possono essere sottesi da una equivoca sussidiarietà e da un costituzionalismo multilivello.
Una considerazione per chiudere e rilanciare. Le nuove elaborazioni in punta di diritto sui beni comuni ci ricollegano alle rivoluzioni culturali in corso in America latina, in particolare alle nuove costituzioni dell’Ecuador di Rafael Correa e della Bolivia d Evo Morales che in un discorso alle Nazioni Unite, in occasione del Mother Earth Day ha affermato: “Se il XX secolo è stato l’era dei diritti umani, il XXI dovrebbe essere il secolo dedicato alla natura e a tutti gli esseri viventi (…). So che questo compito non sarà facile. Molte persone, specie gli avvocati, affermano che solo noi esseri umani abbiamo diritti”. Ecco, ci sono cose come la rilevanza morale dei beni comuni, la incommensurabilità dei beni naturali e culturali con i parametri dell’economia, l’intangibilità di Pacha Mama e la dignità di ogni essere vivente, che molti – e non solo avvocati – stentano a capire. Ecco, i beni comuni sono davvero un nuovo paradigma giuridico e filosofico, economico e sociale, scientifico e politico che ci permette di ricomporre una visione d’insieme del carattere intrinsecamente unitario dell’essere umano e delle relazioni esistenti tra gli individui e il vivente tutto.
Alberto Lucarelli, con contributi di Luigi De Magistris e Alex Zanotelli, Beni Comuni. Dalla teoria all’azione politica, Dissensi, 2011, pp 415, euro 18.
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