IFE Italia

Quel riflesso patriarcale duro a morire anche a sinistra

di Michela Marzano
lunedì 21 luglio 2014

Ai figli , in Italia, si trasmette il cognome paterno. È una tradizione atavica che affonda le proprie radici nel diritto romanistico. È un’abitudine. Perché cambiare allora? Perché dare la possibilità ai genitori di decidere quale cognome trasmettere ai figli? Perché pretendere, così facendo, di allineare l’Italia alle posizioni della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, della Spagna e di tanti altri paesi europei dove già da anni i genitori possono scegliere se trasmettere ai figli il cognome paterno, quello materno, o entrambi?

Il 7 gennaio 2014, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha puntato il dito contro l’Italia e la concezione patriarcale della famiglia ancora in vigore nel nostro paese. Chiamata a pronunciarsi sul caso Cusan e Fazio c. Italia, la Cedu ha condannato l’Italia non solo per violazione del principio di uguaglianza, ma anche per non rispetto della vita privata e familiare delle persone. Negare a una coppia la possibilità di dare ai figli il cognome della madre, significa infatti discriminare le donne, trattando in maniera diversa padre e madre. Ma significa anche non prendere sul serio l’autodeterminazione dei genitori e delle famiglie.

All’epoca in cui tutti sembrano celebrare il trionfo dell’uguaglianza e l’importanza della libertà individuale, non appena si parla di paternità e di famiglia, in Italia, tutti si paralizzano. Tornano le vecchie abitudini e non ci si schioda dai pregiudizi. E anche quando arriva in Aula un testo votato all’unanimità in Commissione Giustizia — e che non fa altro che recepire le indicazioni della Cedu proponendo di modificare il Codice civile, al fine di permettere ai genitori di scegliere quale cognome trasmettere ai figli — si scatena il pandemonio. Non solo da parte di chi, difendendo l’ordine e la disciplina, non concepisce nemmeno la possibilità che si possa scegliere. Ma anche da parte di chi, definendosi di sinistra e progressista, è però convinto che trasmettendo il nome, i padri trasmettono ai figli anche la propria storia e i propri valori. Ecco allora che c’è chi si scandalizza citando Lévi-Strauss e l’ordine della parentela. Chi parla di confusione simbolica e di arbitrarietà. Chi invoca persino il "declino dell’impero paterno", rifacendosi con dotta ignoranza al pensiero di Jacques Lacan e alla sua teoria del nom du père ( letteralmente il "cognome del padre").

Che il cognome situi i figli all’interno di una storia familiare ben precisa, e che rinvii quindi alla genealogia e al senso di appartenenza ad una comunità, è un’evidenza. Nessuno può negare il valore fondante che la lingua, e a fortiori i nomi, hanno nel regolare i rapporti umani, dando forma ai propri pensieri e definendo e assegnando identità. Ma perché la scelta del cognome da trasmettere dovrebbe implicare l’annullamento simbolico dell’appartenenza di un figlio all’ordine della parentela? Perché la sola genealogia degna di considerazione dovrebbe essere quella paterna?

Quando Jacques Lacan parla del nom du père, non fa affatto un’apologia della tradizione e del patriarcato. Il celebre psicanalista ricorda solo l’importanza simbolica del ruolo genitoriale e il bisogno, per i figli, di avere nei genitori punti di riferimento chiari. Niente a che vedere con il presunto "isolamento sociale" cui sarebbero condannati i figli se non venisse loro trasmesso il cognome paterno. Niente a che vedere con ipotetiche "ferite identitarie". L’identità, cui il nome e il cognome sono direttamente collegati, non è mai monolitica. È sempre il frutto di molteplici identificazioni e mutamenti. Al padre, come alla madre. Alla genealogia paterna, come a quella materna. Alla storia delle proprie famiglie, e non solo alle radici patriarcali.


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