Il corpo dell’artista. Frida Khalo, storia di una rivoluzionaria.
Flavia Matitti è saggista, giornalista e insegnante di Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze
dal quotidiano "L’Unità" del 16/03/2014
immagine da sito http://collettivoantisessista.blogs...
«Quasi bella, aveva lievi difetti che ne aumentavano il magnetismo. le sopracciglia formavano una linea continua che le attraversava la fronte e la bocca sensuale era sormontata dall’ombra dei baffi. Chi l’ha conosciuta bene sostiene che l’intelligenza e lo humour di Frida le brillavano negli occhi e che erano proprio gli occhi a rivelarne lo stato d’animo: divoranti, capaci di incantare, oppure scettici e in grado di annientare. Quando rideva era con carcajadas, uno scroscio di risa profondo e contagioso che poteva nascere sia dal divertimento sia come riconoscimento fatalistico dell’assurdità del dolore».
Così la critica d’arte americana Hayden Herrera, nella sua celebre biografia (1983), descrive l’aspetto e il carattere della pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), diventata nel corso di questi ultimi decenni una delle figure più popolari e amate a livello mondiale.
Artista, militante comunista, anticonformista, donna indomita e vitale, a dispetto di un’esistenza segnata dal dolore, Frida non incarna solo l’anima del Messico, ma è un mito che ha catturato l’immaginario collettivo. È un’icona del movimento femminista fin dagli anni 70 e una bandiera per le lesbiche perché, bisessuale dichiarata, non faceva mistero delle sue relazioni amorose, tra l’altro con la fotografa Tina Modotti e forse con Georgia O’Keeffe. È adorata dalle star dello spettacolo, prima fra tutte Madonna, ma anche da Jennifer Lopez e Salma Hayek, quest’ultima nel 2002 ha interpretato Frida nell’omonimo film di Julie Taymor. È la musa ispiratrice di numerosi stilisti di moda, da Jean Paul Gaultier e Christian Lacroix, che le hanno reso omaggio con la collezione primavera-estate 1998 a Ricardo Tisci per Givenchy nell’autunno-inverno 2010.
Esiste, insomma, una vera e propria «fridamania», fatta di libri, mostre, cataloghi, film, gadget. Del resto l’artista stessa non è del tutto estranea al fenomeno, anzi è stata proprio lei la prima a prestare attenzione alla costruzione della propria immagine con una capacità e un intuito davvero moderni. Terza figlia di Wilhelm Kahlo, un fotografo ebreo d’origine ungaro-tedesca e Matilde Calderon, Frida era nata a Coyoacán, un sobborgo di Città del Messico, il 6 luglio 1907. Sosteneva però di essere nata nel 1910 e questo non per la solita civetteria femminile di togliersi qualche anno, ma per passione politica. Voleva, infatti, far coincidere la propria nascita con lo scoppio della rivoluzione messicana.
L’INCONTRO CON LA MALATTIA
Nella sua vita conosce molto presto la malattia e la sofferenza fisica. Ha appena sei anni quando si ammala di poliomielite, guarisce ma la gamba destra resta meno sviluppata. Poi a diciotto anni, il 17 settembre 1925, un terribile incidente la manda quasi all’altro mondo. L’autobus sul quale viaggiava viene travolto da un tram. Nello scontro un corrimano di metallo le trapassa il corpo e Frida riporta lesioni gravissime alla spina dorsale e fratture in tutto il corpo. Negli anni a venire, come conseguenza dell’incidente, sarà costretta a indossare un busto ortopedico, non riuscirà a portare a termine le gravidanze (al 1930 risale il suo primo aborto) e subirà almeno trentadue interventi chirurgici, per lo più alla colonna vertebrale e al piede destro, prima di morire, il 13 luglio 1954, all’età di quarantasette anni, nella sua casa natale, la Casa Azul, a Coyoacán, che dal 1958 è divenuta un museo (www.museofridakahlo.org).
Tuttavia nell’immediato, grazie alle energie della giovinezza e a una forza d’animo incrollabile, la disgrazia non assume l’aspetto di una tragedia e Frida reagisce. Costretta a letto per mesi, inizia a dedicarsi alla pittura e da questo momento l’arte diventerà per lei un modo di liberarsi dal dolore. Inizia dipingendo il proprio volto, che studia riflesso in uno specchio appeso sopra il letto. L’autoritratto resterà anche in seguito uno dei suoi soggetti preferiti. Anni più tardi, dopo aver esposto per la prima volta al pubblico nel 1938, a New York, nell’importante galleria Julien Levy, scrive all’amico Carlos Chavez: «Dato che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati d’animo e le reazioni profonde che man mano la vita suscitava in me, ho spesso oggettivato tutto questo in autoritratti, che erano quanto di più sincero e reale potessi fare per esprimere quel che sentivo dentro e fuori di me».
E anche sotto questo aspetto Frida è stata una pioniera, perché ha inaugurato un filone autobiografico molto battuto dalle donne artiste, a partire da Louise Bourgeois fino a Nan Goldin e Tracey Emin, che consiste nell’attingere al proprio vissuto, raccontando ossessivamente la propria vita e i propri traumi. Nel 1928 Frida conosce Diego Rivera (1886-1957), che ha il doppio dei suoi anni ed è un pittore già molto noto. Desidera un suo parere e gli sottopone i suoi dipinti. Nell’agosto 1929 i due celebrano il loro matrimonio, che la madre di Frida descrive come «tra un elefante e una colomba» perché Diego è un omone alto e corpulento, mentre lei è esile e minuta. Sarà un amore intenso e duraturo ma turbolento, fatto di reciproci tradimenti, separazioni e un breve divorzio. Tra i suoi amanti Frida avrà uomini assai diversi, come lo scultore Isamu Noguchi e Leon Trotsky, ospite con la moglie dei Rivera in Messico. A unire Frida e Diego, comunque, oltre alla pittura è la passione politica. La rivoluzione aveva significato per i messicani la riscoperta orgogliosa delle proprie radici culturali, base dell’identità nazionale.
Così Frida, come una divinità preispanica, porta vistosi gioielli tintinnanti e indossa abiti tradizionali delle regioni messicane. Attraverso il proprio abbigliamento «etnico» costruisce la sua personalità e suscita scalpore. Quando è a New York nell’ottobre 1937 una sua foto scattata da Toni Frissell viene pubblicata sulla prestigiosa rivista Vogue. A Parigi quando André Breton organizza la sua personale intitolata Mexique, nel marzo del 1939, la stilista Elsa Schiaparelli crea il vestito Madame Rivera in suo onore. Nonostante il successo della mostra, visitata tra gli altri da Mirò, Kandinsky, Picasso, Duchamp e Tanguy, i rapporti con Breton, non sono facili. Lui la definisce «una bomba avvolta in nastri di seta», lei lo considera un «vecchio scarafaggio». Lui la vuole arruolare nelle fila dei surrealisti, mentre lei obietta di non dipingere i suoi sogni, come fanno i «merdoni» del Surrealismo, ma la sua realtà, rivendicando una volta di più le radici messicane della sua ispirazione. E in effetti nei suoi dipinti si ritrova l’anima profonda del Messico. In un quadro di triste attualità, ispirato a un fatto di cronaca nera, denuncia il femminicidio, riportando nel titolo Unos cuantos piquetitos (1935), le parole dell’assassino che al processo aveva detto di aver dato alla donna morta accoltellata «solo qualche piccola punzecchiatura».
Con il passare degli anni, però, la salute peggiora. Nel 1953, sotto la minaccia di cancrena, le viene amputata la gamba destra. Eppure il suo ultimo dipinto, eseguito otto giorni prima di morire, è un estremo omaggio reso alla vita. Ritrae dei cocomeri che si stagliano, verdi e rossi, su un cielo azzurro e sulla polpa succosa e sensuale di una delle fette è scritto Viva la Vida. Un inno alla vita che nell’ultima pagina del suo diario acquista invece la forma di un addio definitivo: «Spero che l’uscita sia gioiosa e spero di non tornare mai indietro».
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