Incontro con le donne musulmane. Per non parlare di laicità solo in astratto
Intervento presentato durante la tavola rotonda del Convegno "Soggettività e laicità. Le donne protagoniste dello spazio pubblico" Università di Milano Bicocca, giovedì 17 novembre 2011
Testo pubblicato con il consenso dell’autrice
Grazie alle sollecitazioni e all’attiva collaborazione delle compagne di IFE ho ripreso una ricerca iniziata oltre 15 anni fa, in occasione della mia tesi di laurea che aveva come focus la femminilità e la maternità delle donne musulmane. Oggi torno ad occuparmene perchè come IFE abbiamo avvertito l’esigenza di incontrare a Bergamo la realtà di alcune donne, sia arabe che italiane convertite all’Islam, sui temi della laicità e del protagonismo femminile.
I fenomeni leghisti hanno senz’altro radicalizzato le appartenenze e l’orgoglio di queste appartenenze. La questione della laicità, come valore universale per l’affermazione dell’autonomia decisionale e come trasformazione della relazione tra donne e uomini, la sentiamo urgente perché sono aumentati da un lato gli integralismi religiosi, dall’altro l’intolleranza, anzi, le intolleranze, il razzismo e la continua violenza alle donne.
C’è un disorientamento generale che viviamo come donne e come cittadine: abbiamo reazioni islamofobiche che alimentano diffidenze e paure (pensiamo alle posizioni della Lega); ma ci sono soprattutto reazioni opposte e discontinue (v. il movimento delle donne Se non ora quando) perché la cultura laica stà rispondendo con uno spaesamento di incertezza e insicurezza.
Come IFE abbiamo quindi deciso di iniziare un dialogo con alcune donne musulmane come apertura verso l’individuazione di uno spazio possibile di incontro, scambio e/o scontro. Credo infatti che oggi sia sbagliato e impossibile un patto di non-interferenza tra gruppi diversi e che sia comunque un diritto quello di porci domande a vicenda, anche taglienti, a volte pubbliche perché noi donne, oltre che lottare per la parità, dobbiamo incessantemente difendere le nostre conquiste e i diritti acquisiti a livello sociale, nel lavoro, rispetto al corpo e all’autodeterminazione.
Ho incontrato donne immigrate da bambine in Italia, alcune nate qui, alcune con il velo, alcune senza velo, alcune che hanno chiesto la cittadinanza italiana, … tutte comunque musulmane.
L’interesse per questi incontri è nato quindi da un bisogno (il mio, il nostro) di riflettere sulla realtà della condizione delle donne in Italia e dei nostri diritti, dell’urgenza di esserci nella sfera pubblica perché ciò che sta accadendo ormai da tempo riguarda non solo la sfera sociale, ma anche quella soggettiva (diritto al lavoro, diritto a un sistema pubblico di protezione sociale e sanitaria, libera scelta di orientamento sessuale...).
Sentivamo la necessità di capire se e come riallacciare un discorso politico e una pratica di soggettività e sentivamo impellente occuparci di alterità e farci i conti, in una situazione storica e sociale dove per noi donne, in Italia, è tornata a essere critica, anche e ancora, l’alterità tra maschile e femminile.
Non è stato facile contattare queste donne e avere la loro disponibilità ad un incontro, forse per pregiudizi e stereotipi reciproci. La sensazione iniziale è stata che non avessero interesse o bisogno di incontrarci su questi temi e se, nel divenire dello scambio, hanno espresso chiaramente le loro posizioni con passione e determinazione, non hanno peraltro approfondito e indagato il mio sguardo, come se mi vivessero così diversa da essere anche distante da loro ( forse anche perché mi sono dichiarata femminista?).
In questo senso credo oggi difficile che possa nascere una progettualità orizzontale con le donne musulmane, credo che i tempi saranno lunghi e anche sofferti.
Nello scambio con loro, l’appartenenza di genere l’ho sentita rispetto al comune riconoscimento di una possibile lotta contro il sistema di potere patriarcale ancora dominante, ma per loro non è un’appartenenza prioritaria e più forte della loro appartenenza religiosa (e non la sposta affatto).
Quello che mi è parso di constatare infatti è che per loro la religione islamica non è espressione di una cultura patriarcale, sessista, misogina e oppressiva verso le donne: questa cultura per loro non ha a che fare con la religione e attiene al sistema di potere maschile che si serve e strumentalizza il Corano per tenere assoggettata la donna.
A tal proposito una giovane donna musulmana, di origine marocchina, laureata, emigrata in Italia quando aveva 11 anni, conclude la sua tesi di laurea scrivendo “sono giunta alla consapevolezza che, solo attraverso la conoscenza approfondita della religione islamica, la donna musulmana può affermarsi nella società araba, poiché solo conoscere i fondamenti dei propri diritti permette di realizzare la necessaria scissione tra religione e tradizione”. (io avrei scritto, tra religione e Stato!)
Infatti la sua lotta è contro il sistema patriarcale e maschilista che permea la società e la cultura, ma senza mai mettere in discussione la fede musulmana e le sue fonti, anzi, riaffermando i diritti che, in quanto donne, l’islam garantisce loro (in questo percorso scopre il movimento femminista marocchino che si propone la conquista dei diritti, ma senza rinnegare la religione): come dire che quel sistema sessista, quelle pratiche misogine e oppressive non trovano giustificazione anche nella religione. (Un’altra donna afferma se si segue il Corano, i diritti delle donne ci guadagnano perché noi siamo favorite ed è l’uomo che sbaglia e che ci limita).
Ho comunque sentito tutta la sua fatica nel percorso, che interpreto di emancipazione, dalle ragnatele sociali e culturali in cui si muove quando scrive, nell’Introduzione alla sua tesi: “vivevo sulla mia pelle le profonde divisioni di ruoli che segnano il rapporto tra maschi e femmine. La spiegazione arrivava sempre semplicistica e spietata dall’esterno, dai dogmi religiosi e politici degli adulti che dovevo assumere senza discussione” e, ancora, il tema del diritto delle donne di vivere pienamente il proprio corpo e la propria sessualità, rimane un problema estremamente difficile da affrontare nella società marocchina, ancora pervasa da un patriarcato oscurantista.
Emanciparsi, per le donne musulmane, sembrerebbe significare l’adesione autentica all’Islam (Islàm in arabo significa “sottomissione” e “obbedienza” a Dio) che di per sé scardina il modello di dominio dell’uomo sull’uomo con tutte le sue ideologie. Mettere in discussione e/o allontanarsi dall’Islam, significherebbe quindi rompere con la propria cultura e con il proprio sistema di valori, essenziali nella formazione dell’identità e dell’appartenenza alla propria comunità, forse correndo anche il rischio di rompere legami affettivi sentiti come importanti e irrinunciabili (alla propria famiglia, alla propria comunità…).
L’Islàm infatti è un codice di vita basato sul Corano, sull’insegnamento orale del profeta (hadìth) e sulla Sunna (pratica di vita) del Profeta e quindi tocca tutti gli aspetti dell’esistenza, pubblici e privati, significandoli e regolamentandoli.
L’incontro con le donne musulmane ci ha interrogate rispetto all’identità di genere e al nostro professarci femministe; ci siamo chieste come si possa rinunciare a frammenti di identità se non si trovano modelli di donna alternativi, forti e autentici a cui far riferimento e cui riconoscersi (alternativi rispetto a quelli tradizionali o veicolati dai mass media). Una donna italiana convertita dice preferisco parlare con una donna di rifondazione comunista perchè entrambe non siamo così funzionali al sistema e comunque dobbiamo ripensarci come donne perché i nostri figli sono in difficoltà…
Dal confronto con loro sono emerse alcune domande/questioni che rimangono aperte:
Qual è il modello credibile e autorevole (in termini di dignità, coscienza, partecipazione, autodeterminazione) della donna laica in Italia?
Su quali obiettivi ci possiamo incontrare con le donne musulmane?
Solo nelle situazioni di emergenza (v. lotte per la pace, contro la guerra, …) quando c’è una causa comune e temi mondiali, riusciamo ad avvicinarci?
- Come rispettare le differenze culturali e rendere possibile la convivenza di valori e pratiche differenti senza che questo implichi una tolleranza passiva e senza chiudere gli occhi di fronte a pratiche che ledono i diritti delle donne che per noi sono diritti umani fondamentali?
Quale spazio noi donne laiche siamo disposte a dare a queste alterità ?
L’islam la cui legislazione regola rigidamente la condizione femminile in tutti gli ambiti della vita (familiari, sociali, nella sfera pubblica) e’ compatibile con la democrazia?
La Religione è l’unica risposta per la costruzione di un’alternativa di società, alla supremazia del consumismo, alla crisi di valori e alla modernità corrotta? (v. le recenti dichiarazioni di Blair)
Ci pacifica la promulgazione di leggi che limitano l’espressione religiosa? (vedi il divieto francese dell’hijab nei luoghi pubblici e la proposta di legge italiana di vietare il nikab). Una donna italiana convertita all’Islàm dice: La legge francese è offensiva per noi: le bambine si devono togliere il velo prima di entrare a scuola o all’università (molte rinunciano agli studi), diventa discriminante (anche qui in Italia una mia conoscente non la fanno entrare all’asilo del figlio perchè ha il nikab, e ancora: Stiamo organizzando un comitato per la difesa dell’abbigliamento islamico (hanno scritto una lettera a Ciampi);…abbiamo pensato di scendere in piazza per raccogliere firme, ma poi abbiamo rinunciato sia perché è un argomento delicato, sia perché avevamo timori di aggressioni e strumentalizzazioni e poi perché per noi è difficile, per la nostra religione, scendere in piazza e fare battaglie (per la promiscuità, la musica che di solito c’è nelle manifestazioni…..) E infine, riconosce che non riusciamo a segnare il nostro territorio e anche per questo viviamo immerse in pregiudizi.
È possibile passare da un modello di famiglia patriarcale a uno egualitario attraverso l’Islàm e quindi decostruire l’immaginario negativo che abbiamo della religione islamica rispetto al ruolo della donna??
E’ pensabile che la donna musulmana affermi la propria individualità e la propria libertà scelta, come prevedono i principi della laicità, senza doversi pronunciare sul piano metafisico?in quali forme?
Dobbiamo anche noi affermare che la famiglia si sostiene sulla complementarietà delle differenze di genere e dei ruoli (concetto caro all’ordine naturale e ai precetti che può determinare violenza contro le donne, omofobia e transfobia) o si può lottare insieme per ottenere l’uguaglianza dei diritti in famiglia e nella società?
E’ possibile un discorso femminista fortemente radicato nella religione?
E’ possibile una lettura in un’ottica di genere del Corano?
Per riformare la famiglia e le leggi che la regolano è lecito usare solo argomenti di matrice islamica o si possono usare argomenti che riguardano la democrazia e i diritti umani? (questa è un provocazione, lo so)
Dopo questi incontri mi è parso più chiaro che anche noi portiamo comunque le nostre contraddizioni e che probabilmente, o almeno così voglio credere, il conflitto non si gioca tra donne, ma tra modelli culturali diversi:cioè, la rottura non è verso tua madre, non è un conflitto tra donne, ma con una madre-simulacro origine della nostra debolezza, figura di tramite della cultura maschile.
Il conflitto, per noi, è tra i simulacri del femminile: madre, sorella, moglie, figlia (che sono le quattro condizioni della donna che il Corano tratta: la figura della donna in famiglia è infatti sempre declinata in relazione al maschio o alla sua parentela) non sono affatto valori femminili, ma ruoli interpretati in una cultura che non è femminile, ma che veicola valori prettamente maschili. Questo è forse il punto di contatto con le donne musulmane.
Il multiculturalismo è un fenomeno che può rappresentare una grande opportunità, ma anche un grande rischio per la laicità: un ‘opportunità per la laicità che può far risaltare il suo volto accogliente e il suo carattere universale di fronte a codici culturali differenti, ma anche un rischio se con il multiculturalismo si radicalizzano gruppi o confessioni (sostenendoli per proteggerli dalla competizione culturale) e si vogliono introdurre costumi e tradizioni che evocano per noi un passato di oppressioni e ingiustizie. Il multiculturalismo può essere allora rischioso per l’autonomia e lo spirito critico del singolo perché tende a premiare il conformismo e l’appartenenza al gruppo.
Credo di poter affermare che come IFE abbiamo messo le basi per un dialogo tra donne che potrà incoraggiare e sostenere ulteriori spazi di partecipazione perché, come dice Rifkin sulla Terza Rivoluzione, nel futuro saranno vincenti l’interesse collaborativo, la connettività e l’interdipendenza e la vera libertà non starà nell’essere slegato dagli altri, ma in profonda partecipazione con essi.
Silvia Dradi-IFE- Università Bicocca 17 nov 2011
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