Proverò a ragionare sulla democrazia
Intervento presentato al Convegno "Capitalismo finanziario globale e democrazia in Europa" Roma - 24,25,26 ottobre 2013
Proverò a ragionare sulla democrazia , uno dei temi di questo convegno.
Lo farò con sguardo di genere cercando di spiegare perché se si dimentica o si rimuove la categoria di genere non si può cogliere la complessità del reale.
Chiarisco che intendo per "genere" sia l’elemento costitutivo dei rapporti sociali fondato sulle differenze percepibili fra donne ed uomini sia la primordiale modalità di significare i rapporti di potere (Joan Wallach Scott, 1980) e che intendo per democrazia l’insieme dei diritti formali e sostanziali così come vengono espressi nella nostra Carta Costituzionale e così come sono culminati nella costruzione dello “stato sociale”.
Quella democrazia cioè oggi messa prepotentemente in discussione da un capitalismo finanziario molto intenzionato a farne a meno.
Se si utilizza per leggere la realtà anche la categoria di genere, la democrazia appare ancora imperfetta o, meglio, non del tutto compiuta.
La democrazia non è del tutto compiuta perchè il diritto di cittadinanza ha riguardato solo in parte le donne ( basti pensare al diritto al lavoro o a quello alla salute, in particolare riproduttiva). L’eguaglianza fra donne ed uomini, che pure nella nostra Costituzione è ampiamente e giustamente esaltata, si è codificata in norme che le hanno fatto assumere la forma pacificata delle pari opportunità. E così l’eguaglianza ha smesso di essere quel processo conflittuale che prova a sovvertire le strutture personale e collettive che generano disuguaglianza, svuotandosi di significato.
E non è del tutto compiuta anche perché la democrazia, ancora oggi, si ferma sulla porta di casa. Quante volte sentiamo ripetere che ciascuno a casa propria, in famiglia, può fare quelle che vuole? Anche se “quel che si vuole” ha spesso a che fare con la violenza, la mercificazione dei corpi o addirittura l’omicidio?
L’incompiutezza della democrazia ha però cause ancor più di fondo.
La realtá nella quale viviamo non è retta esclusivamente da un sistema di potere fondato sulla modalità di produzione ed accumulazione capitalista , ma anche da ciò che il femminismo ha chiamato patriarcato, cioè è un sistema autonomo e specifico di dominazione.
Come spiega bene Cristine Delphy , teorica del femminismo materialista ( che è quello nel quale mi riconosco di più) questo sistema di potere non si identifica nè con l’Uomo con la u maiuscolo nè con gli uomini in genere ma si sostanzia nella costruzione di una struttura sociale gerarchica ed ineguale. Detto in altre parole è la materialità delle relazioni sociali che rende conto e spiega, anche sul piano simbolico, la dominazione patriarcale. La subordinazione delle donne non va dunque considerata su un piano idealistico o su base biologica o naturalistica ma sul piano sociale.
Giovanna Vertova nel suo intervento di ieri pomeriggio ha evidenziato la struttura sessuata del lavoro produttivo. Una struttura che ancora permane tanto da rendere le lavoratrici più precarie e meno garantite.
Cosí come Ilaria Possenti nell’analizzare la flessibilità ne ha rintracciato l’archetipo nella condizione materiale delle donne abituate da sempre a dover rispondere prima di tutto alle esigenze di un altro da sé.
Del resto il processo di femminilizzazione del lavoro che ha caratterizzato la fase neoliberista e che ha visto, in ogni parte del mondo, un massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro salariato ( processo dai risvolti in sé positivi sul versante dell’autonomia economica, precondizione necessaria alla propria emancipazione) ha dimostrato ampiamente di essere stato utilizzato per generalizzare le modalità di accesso e di permanenza al lavoro storicamente prerogativa delle donne (flessibilità, precarietà, part-time,…).
Per tutto ció se non si coglie la necessità di un’analisi della società e dei rapporti sociali che sappia riconoscere la categoria del genere non si possono comprendere fino in fondo tutti i processi in atto e le loro ricadute sulle nostre vite.
Faccio un esempio per farmi capire meglio: per poter cogliere l’interdipendenza di fondo fra lavoro produttivo salariato e lavoro di riproduzione biologica/domestica/sociale svolto gratuitamente dalle donne serve avere consapevolezza dell’esistenza di un modello di produzione domestica fondato su una premessa ideologica seconda la quale le donne svolgono gratuitamente i lavori domestici ( il cibo cotto, i vestiti puliti, la casa in ordine) e di riproduzione sociale ( l’accudimento dei bambini, l’assistenza alle persone anziane) perchè sono "naturalmente" portate a farlo.
Al contrario come spiega bene la filosofa francese Nicole Edith Thevenin questa è la prima forma di alienazione sulla quale si sono poi strutturate tutte le altre. Apro una brevissima parentesi per sottolineare la potenza simbolica di questa alienazione capace di costruire un formidabile consenso anche fra le donne, come ben illustrato da Geneviève Fraisse, un’altra filosofa francese.
Paradossalmente questa (falsamente) “naturale” propensione al “servizio” le ha fatte ritenere “secondo sesso” e quindi sostanzialmente cittadine di serie B. Oltre il danno la beffa.
Per queste ragioni credo che il solo modo per difendere la democrazia dagli attacchi cui è sottoposta sia quello di estenderla.
Come?
Propongo alcune suggestioni.
Aiuterebbe la democrazia :
un processo di maggiore soggettivazione femminile (l’imprevisto della storia come ebbe a dire Carla Lonzi) reso possibile dal fatto che le donne colpite più duramente ed in modo specifico dalla crisi ma rese, al contempo, dal femminismo meno pazienti e più consapevoli sono oggi oggettivamente più adeguate al conflitto di quanto non lo fossero in altri tempi;
la riattualizzazione dei contenuti più rivoluzionari del movimento delle donne come risposta ai processi di spersonalizzazione (l’impresa che sussume il lavoro) e di privatizzazione oggi dilaganti.
Riaffermare che “io sono mia” (ed anche, se lo si volesse, che io sono mio) significa oggi non solo affermare il desiderio di riappropriarci del nostro corpo e della libertà di scelta sul nostro destino ma anche avere coscienza dell’urgenza di sottrarci ad ogni forma di subordinazione e sfruttamento per rifiutare ogni forma di mercificazione di noi stesse/i e della nostra vita.
Così come riaffermare che il personale è politico oggi avrebbe sì la finalità di ricordare che il corpo , la sessualitá, la vita non possono essere rimossi o espulsi dalla sfera pubblica (per dirla con Lea Melandri) ma anche quella di contrastare per davvero i processi di privatizzazione per riportare nel pubblico ció che è stato ricacciato nel privato;
rifiutare la contrapposizione fra ragione e sentimento per recuperare un’immagine non frammentaria né frammentata di sé, sia come singole/i che come collettivo, e per riscoprire il valore politico della solidarietà e dell’empatia (come invita a fare la filosofa statunitense Marta Nussbaum) come sentimenti necessari a sostenere azioni coerenti e capaci di rottura con il fine di costruire “un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.
Sono solo suggestioni è vero. Però hanno in sé la potenzialità di essere agite. Come a ben vedere è successo con la realizzazione la campagna di solidarietá con le donne greche per il diritto alla salute organizzata dalla lista “donne nella crisi”(www.donnenellacrisi.net) Un’azione collettiva costruita da numerosi gruppi, associazioni, collettivi di donne che, attraverso una solidarietà “politica”, vuole rimettere al centro di un’azione collettiva l’universalità del diritto alla salute e la necessità di un sistema sanitario pubblico che lo renda esigibile.
Nicoletta Pirotta (IFE Italia /FAE , www.ifeitalia.eu)
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Proverò a ragionare sulla democrazia9 aprile 2014
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