IFE Italia

TRAGICO EPILOGO

di Luciana Castellina (da "IL MANIFESTO")
giovedì 24 febbraio 2011

Ha finalmente parlato, il vecchio leone libico. Ancora spavaldo, ma un’immagine tristissima, patetica, di un uomo obnubilato dalla solitudine e dal distacco dal resto dell’umanità che solo il potere dittatoriale possono produrre.

Fino a dire che le piazze gremite di libici pronti a farsi ammazzare perché il suo regime crolli, sono solo agenti stranieri. E, pronto a morire da martire, ha tragicamente incitato alla fine alla guerra civile. Eppure non è stato sempre così. Tutti gli anticolonialisti gioirono quando il giovane tenente, assieme ai suoi amici usciti dalle accademie militari britanniche ma nati e cresciuti nel deserto, presero il potere, deposero re Hidriss, marionetta dell’Impero britannico, e posero fine ad un sistema feudale. Era il 1969. Nel gennaio del ’70 Muammar Gheddafi tenne la sua prima conferenza stampa internazionale. Partecipai all’evento con un gruppo di giornalisti italiani. Io ero lì per Noi Donne e ricordo bene il viaggio perché, bloccati da una tempesta di sabbia all’areoporto di Bengasi, a sera inoltrata, l’inviato dell’Unità, Arminio Savioli, guardò l’orologio e mi disse: «A quest’ora sei già fuori dal Pci». Proprio in quelle ore, infatti, la Commissione federale di controllo di Roma aveva varato l’ultimo atto del mio processo di radiazione, causa Il Manifesto. A Tripoli l’entusiasmo popolare era incontenibile. Anche noi felici che un nuovo capitolo nella storia di un paese in cui l’Italia si è comportata nel peggiore dei modi, fosse iniziato. E infatti Gheddafi annuncia riforme profonde che cambieranno effettivamente in meglio la condizione dei libici. Pochi mesi più tardi sono al Cairo - questa volta già per Il Manifesto rivista, per cui ho seguito ad Amman il «Settembre nero» - partecipe di un evento inatteso, luttuoso e forse non naturale: la morte improvvisa del comandante Nasser. Ho lasciato i palestinesi in lacrime, qui i funerali sono giganteschi, milioni di egiziani piangono, con commozione reale, l’uomo che ha impersonato il sogno del riscatto arabo, nazionalizzato il canale di Suez, retto all’urto dell’intervento armato franco-britannico, artefice del progetto di unificazione della nazione araba. L’Algeria fu storia solo di poco precedente: per la mia generazione fu come il Vietnam per quella del ’68. Ricordo questi eventi di cui sono stata testimone perché è incredibile che oggi la sacrosanta ribellione popolare del Maghreb e del Mashrak, così come dei popoli più a sud del continente africano, sia dipinta come l’esplosione di un malcontento secolare di popoli che non hanno avuto luci e il cui passato sia stato solo fanatismo e oppressione. Non è così, negli anni ’60, anche qui c’è stata una straordinaria mobilitazione in favore di una rottura che ha imbastito una svolta sostenuta da uno straordinario consenso. Che ha introdotto riforme modernizzatrici e laiche ( fra le altre anche quella alfabetizzazione che oggi consente la rivolta). Non solo localmente: questi sono i paesi che proprio in quegli anni sono stati - raggiungendo Tito, Nehru, Ciu en lai, Sukarno nel patto di Bandung - protagonisti di quel grande fatto che fu la nascita del movimento dei non allineati. Se si vuole giudicare quanto avviene oggi occorre domandarsi perché queste che non sono state rivoluzioni in senso proprio, ma certo straordinari sommovimenti popolari, siano finiti così: con regimi dittatoriali brutali e corrotti, insidiati dal fondamentalismo, le speranze spezzate, l’unità frantumata, la solidarietà con la Palestina calpestata, la memoria della loro storia perduta, il solo miraggio la disperata traversata del Mediterraneo verso il nord ex colonialista e oggi arrogante reclutatore di schiavi. Le risposte sono complesse, ma una cosa intanto va detta: anche in questo caso riemerge con incredibile evidenza la cancellazione della storia che è stata operata in questi decenni. Riesumarla sarebbe necessario per sottolineare, non solo i limiti fatali di ogni mutamento affidato a vertici che per una fase possono anche sembrare illuminati, ma presto diventano responsabili di inauditi rovesciamenti, ma anche per capire quanto nei meccanismi che hanno portato all’imbarbarimento abbiano giocato le tremende complicità occidentali, che non hanno nemmeno esitato ad alimentare il peggior fondamentalismo islamico pur di procedere alla riconquista di territori che si erano almeno parzialmente emancipati. Per non parlare dell’uccisione del premier Mossadeq, di cui quando piangono sull’Iran non fanno nemmeno un gesto per ricordarlo. È stato detto da qualcuno che quanto accade oggi nel mondo arabo è l’equivalente dell’abbattimento del Muro, nel 1989: un’esplosione di libertà. Sì, certo, ma l’89 non è stato solo questo. Ha anche prodotto, sia all’est che al sud, l’appropriazione privata, da parte di famiglie o di élites già potenti, della ricchezza che il socialismo reale, pur con tutti i suoi gravi difetti, aveva reso patrimonio comune e che il nostro occidente si è subito premurato di dissolvere. Anche gli odierni oligarchi russi e le ricchezze dei Mubarak e Ben Ali sono frutto dell’89. Che ha riportato, sanguinosamente, l’attualità della guerra perfino nel cuore d’Europa e che ha significato il fallimento di ogni tentativo di autonomia da parte dei popoli del terzo mondo. Il loro incartarsi in difficoltà insormontabili e fatalmente nei tragici errori che queste hanno in gran parte determinato, è anche dovuto al mondo unipolare degli ultimi decenni, che non ha offerto più margini per liberarsi dal pensiero unico. Che in occidente ha una faccia democratica, altrove dittatoriale. Anche la rivoluzione sovietica non è finita gran che bene, ma, santiddio, per qualche decennio ha consentito a una parte del mondo - il terzo in particolare - di alzare la testa. Non scrivo queste cose per attenuare le responsabilità dei rais arabi, ma al contrario per evitare semplificazioni che non aiuteranno i ragazzi che stanno sacrificandosi per la democrazia dietro le barricate di Tripoli e altrove.

"Il Manifesto" 23 febbraio 2011


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