Il divino è fuori scena
Ho sentito diverse persone parlare dell’ultimo film di Nanni Moretti - e in modi davvero poco illuminanti. Il meno illuminante di tutti è stato lo stesso Moretti, tutto rattrappito nell’angolo destro del divanetto che condivideva con una generosa e debordante ospite di talk show televisivo, e più lei si sporgeva con lodi e gesti oltre la sua metà del divanetto, più afasicamente si rattrappiva lui nel suo angolo estremo, balbettando l’imbeccata offerta, a proposito di non so che senso di inferiorità o paura di quello strano papa, della sua umanità, e così via. Una psicologia da poche lire, blandi rinvii alla sua umana simpatia - che carino però quel papa, e poi si ride e si piange, che bel film.
La trasfigurazione nel banale
Dalla visione del film io ero uscita con la sensazione di una limpidezza estrema circa le sue idee e la sua resa, e con una gratitudine abbastanza profonda, per questa cosa ben significata e molto vera. Non so se riuscirò a ridirla nel mio linguaggio tanto più povero, che del resto neppure potrebbe né vorrebbe imitare quello di un critico cinematografico. Ma mi è parso di capire almeno la ragione dell’opacità dei commenti, e cominciando da questa, allora, mi avventuro a parlare della cosa stessa. A me pare che a impedire a molte persone di vedere cosa dice il film sia quello stesso velo di incoscienza che in altre circostanze mi è occorso di descrivere a lungo: una sorta di forma mentis scettica, uno scetticismo pratico che si risolve - prima di diventare vero e proprio cinismo - nell’incapacità di prendere sul serio alcunché, ma in particolare l’esperienza morale, l’esperienza del bene e del male, e più in generale l’esperienza di ogni tipo di valori e disvalori, o meglio di quella loro massiccia obiettività che ancora nel secolo scorso faceva apparire un ghiacciaio come qualcosa di maestoso o di sublime, e un gestaccio, tanto più se esibito da un uomo con qualche ruolo istituzionale, per esempio un ministro, come una gaffe atroce e imperdonabile. Ecco: questo velo di incoscienza o indifferenza che avvolge la mente e il cuore della maggior parte delle persone - forse dovremmo dire: di tutti noi? - conferisce un aspetto piuttosto banale alla maggior parte delle cose.
Un uomo limpido
Prendete ad esempio la Chiesa di Roma e il papato: ci sono quelli che si attestano su una sorta di più o meno ereditata devozione convenzionale, senza fremiti né sconcerti, placidamente ignara di dogmi e guerre teologiche, pazientemente disposta a subirsi la predica della domenica, concedendosi al più qualche dubbio superficiale e un’alzata di spalle (non ci sono i preti per pensarci, a queste cose?). E poi ci sono quelli che se la ridono: come si fa ad essere così infantili, creduloni, superstiziosi, oscurantisti? Certo, poi ci sono anche i dediti alla spiritualità che si distinguono da entrambe le categorie: ma fra quanti hanno deciso che il divino non può abitare un’istituzione e quelli che tentano di portarcelo, e di farcelo restare, anche sommati insieme fanno una piccola minoranza. E adesso, immaginate un uomo limpido. Un uomo che prende alla lettera quello che la Chiesa di Roma, con più di un miliardo di (più o meno) fedeli, pretende di essere, nel bene e nel male. Andatela a vedere in San Pietro, con quell’enorme trono vuoto e sospeso nel luogo del Supremo, o in Sant’Ignazio, con la sua bella cupola a trompe-l’oeil, che finge alla perfezione un’altezza che non c’è, e il suo trionfo dipinto sul soffitto, che spalanca sopra la chiesa il cielo di un’affollata domenica celeste, tutta santi e beati. Prendete questa incessante e interminabile sacra rappresentazione, che si ripropone come la stessa dai tempi degli Apostoli, con la sua Trinità e la Sacra Famiglia e tutti gli angeli e i santi e i padri e i dottori e i papi, che da millenni dipana un senso alle domeniche (noi semplici uditori poi non distinguiamo tanto fra Testamento Antico e Nuovo, Teologia, Magistero, Esegesi e Critica Storica) e tesse dietro il visibile un senso, non granché plausibile ma grandioso, il senso di una storia con un fine, una scena con proscenio e quinte, e le campane a Pasqua e a morto, e dietro, nascosta, una riserva di sostanza e di giustizia, casse e casse di Ruoli e Cerimonie e Forme e Norme, compresa pure una Morale con annessa Analisi di Coscienza, e i preti che un po’ la fanno e un po’ fanno giocare a pallone i ragazzi, e le suorine che sorridono fin negli ospedali.... Prendete quest’uomo limpido, non nel senso che creda lui stesso, ma nel senso che tutto quanto ho elencato prima lo prende alla lettera, come si dà. Perché è un artista, dunque un uomo dalla percezione esatta, insieme dettagliata e globale. E ora quest’uomo limpido inventa il suo personaggio. Un uomo di Chiesa: ma un uomo di Chiesa che eredita questo sguardo limpido, obiettivo come quello dei bambini e sapiente come quello degli artisti, lo sguardo degli esseri che prendono alla lettera le cose, proprio come appaiono. Ma anche un sincero uomo di Chiesa, appunto. Sarà Melville, il papa che farà «lo gran rifiuto». È curioso come non appaia mai, nei commenti delle persone che ho sentito, il ricordo del Gabbiano, il dramma di Cechov che Melville ritrova sulle labbra di un povero, pazzo attore, durante i tre giorni della sua fuga nel mondo: e che riconosce e resuscita dalla profondità della sua memoria. Se non rileggete il Gabbiano, come potrete capire un acca di questo film che ne è una sorta di geniale trasposizione? Può darsi che Melville si faccia uomo di Chiesa per disperazione, per non finire come il Sorin del Gabbiano; ma sarebbe inutile psicologia, non ne sappiamo niente. L’essenziale è che questo Melville - come Sorin - ha creduto nel gabbiano, nel goffo e tuttavia - in volo - maestoso uccello bianco. Nell’anima. In Nina, la ragazza-anima, l’anima del gabbiano. Se ne è anche innamorato. Sì, il papa di Nanni Moretti è Sorin. Chi più credente di lui, dunque. È l’uomo inutile, e insieme limpido, oggettivo. Voleva diventare attore - ma non ne aveva il talento. Sua sorella sì, la vacua ed egoista Arkàdina, lei ce lo aveva, il talento. E lui capisce. Capisce lo stesso suo tormento di uomo inutile negli altri, nei bambini, nei ragazzi... Capisce l’eterna delusione di chi crede, il vanesio egocentrismo di chi ha successo. E nel capire tutto è come Cechov: divino per obiettiva pietà, cristiano senza neppur saperlo, data questa sua tenerezza per il gabbiano ucciso in ciascuno di noi. È uomo di teatro, questo novello Sorin. E senza saperlo affatto, capisce. Capisce che questa religione enormemente sapiente e fastosa è una grande Rappresentazione, nel senso vero e divino del termine. Capisce che quando il teatro funziona, qualcosa di veramente divino accade. Capisce tutto ma non lo sa - non è un critico Melville, è un cardinale! Capisce che questa enorme Rappresentazione, se riesce, è esattamente la magìa realizzata, il riscatto di ognuno, la resurrezione del gabbiano in noi, il teatrino dell’Infanzia che si riaccende nel boschetto sul lago, le estati spensierate che tornano: e non in una lingua, in una vita, per un’infanzia sola - ma in tutte le lingue e le vite, e per tutte le infanzie. Poi, il grande momento. Lui, quello che venne il rifiutato all’Accademia drammatica, ora è l’eletto: a regista e protagonista del gran Teatro di Dio. Attenzione, questo è il punto delicato. Non c’entra qui la paura, il senso di inadeguatezza. Non c’entrano esplicitamente neppure la sapienza di Cechov e il Gabbiano: tutto questo, a frammenti, viene a galla dopo, in quei tre giorni (tre giorni! Come dal venerdì santo alla Pasqua) di discesa agli inferi. Prima Melville è un semplice cardinale, un cardinale limpido, tranquillamente cattolico (Si può esserlo? Forse sì. Purché si sia anche un po’ un principe Miskin, un Idiota). Non è affatto colpa del cardinale quello che succede. È la cosa stessa, quella che gli si rivela in quell’urlo che erompe, strozzato, dalla sua gola - con il quale rifiuta la tiara. La cosa stessa è che il divino - l’indicibile vero, l’ineffabile bene - non c’è. Non è lì. Lì non c’è niente. Ma anche questo è molto impreciso. Quello che non c’è è il talento di impersonare il regista e protagonista del Gran Teatro di Dio, quello che non c’è è lo spirito, l’ispirazione - e la forza e la speranza. È come se dio avesse chiamato ma... senza il soffio ravvivante, come se avesse chiamato sì, ma solo per svergognare ancora una volta lui nella sua pochezza di aspirante attore rifiutato dall’Accademia.
Ciò che dice la depressione
Quello che manca è proprio il divino. Come nell’incubo dell’attore che deve salire sul palcoscenico. Manca perché lo Spettacolo non decolla. E non decolla, perché in quel momento tutta la Rappresentazione millenaria si scopre vuota e vana. Vuota e vana lo è divenuta ora, per colpa sua, dell’attore mancato! C’è modo peggiore di uccidere ancora una volta il gabbiano? Di essere (chissà se Melville ha studiato Nietzsche, come ormai tutti i cardinali e i papi) di nuovo l’ultimo uomo, l’assassino di Dio? Eppure tutto questo non è ancora del tutto preciso. Perché quello che accade è insieme molto più semplice. Una depressione acuta, con attacchi di panico. Ma quella depressione dice il nulla che è insieme di Dio e mio - «mio» ovvero del protagonista. Perché solo insieme, nella Rappresentazione, avrebbero potuto vivere. E di nuovo: non è affatto una questione di «problemi con la fede» (secondo la domanda che lo psicoanalista impersonato da Moretti pone a Melville durante il consulto). No, risponde sinceramente il papa disertore: che c’entra? La fede è cosa soggettiva, abito e convinzione, non c’è niente che necessariamente debba cambiare in questo abito e nelle sue abitudini. La rivelazione dell’impossibilità, è cosa oggettiva. Può darsi che non possa enunciarsi al modo della coscienza, perché diventerebbe una rivelazione banale, una semplice e normalissima e diffusissima professione di ateismo. No, la depressione sta di fronte al nulla senza dargli parola e pensiero, e questo nulla non è del mondo ma è di sé e di Dio insieme, della persona che l’impersona.
La vita continua altrove
Eppure, questa depressione non è affatto la rivelazione di un’assenza del divino in assoluto - perché tutto il mondo cechoviano, tutta l’infinita pietas che l’avvolge e ci consola, fluisce anche nel film, per le strade del mondo, le strade di Roma, sotto gli occhi del protagonista che vi cerca scampo. Si accende negli occhi dell’improbabile psicoanalista, Margherita Buy, con la sua piccola ossessione professionale e la sua vita sgangherata. Scorre nelle schermaglie dei due bambini, fratello e sorella, in cui tutta la storia del Gabbiano annuncia che si ripeterà una volta ancora. Balza nell’umile campionato di palla a volo durante il quale i porporati, in attesa che lo Spirito riprenda in mano la regia, ritornano bambini. Ma nella Grande Rappresentazione no, il divino non vuole più tornare. Tutto alla fine sembrava ancora possibile, la piazza gremita, le bandiere festanti, la cerimonia di benedizione papale che può ancora avere luogo. E invece no. I tre giorni della discesa agli inferi hanno portato frutto. Una verità è stata raggiunta. L’uomo limpido con grande tristezza la dice. Il Teatro di Dio non può rinascere - non qui. Il divino ha scelto l’uomo limpido, l’attore rifiutato dall’Accademia, per chiudere baracca e burattini. Le bandiere festose calano, la folla si disperde. La vita continua - altrove.
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