Donne di tutto il mondo unitevi. Le nuove vite del femminismo
Benvenuti nel nuovo mondo. Delle donne. Oggi e domani quelle italiane si incontrano a Siena, ma tutti i giorni si ritrovano sul web, nelle piazze francesi o sulle riviste inglesi. The F world, dove F sta per femminismo, è il nome di un popolare sito web nato nel 2001 divenuto un saggio di successo, ed è il titolo del numero estivo che Granta, trimestrale cultural-letterario britannico tra i più influenti a livello globale, dedica a "esplorare i modi in cui, dalla Gran Bretagna al Ghana, il femminismo continua a influenzare, affrontare e complicare le cose" in un mondo inesorabilmente dominato dagli uomini.
In Francia, a quarant’anni dal Manifesto delle "salopes" (termine gergale la cui area semantica oscilla tra "puttana" e "stronza"), cioè le 343 donne, tra cui Catherine Deneuve e Simone de Beauvoir, che il 5 aprile 1971 uscirono allo scoperto dichiarando di aver abortito illegalmente, Libération ha pubblicato la versione aggiornata dalle loro "nipoti".
Negli ultimi mesi si sono viste parecchio: dalle proteste "situazioniste" con barbe finte contro il sessismo imperante alle marce in abiti succinti, ripresa delle "slut walk" (marce delle "salopes") nordamericane contro chi ancora sostiene che un abbigliamento sexy "provoca" gli stupratori. Oltremanica, "Million Women Rise" organizza affollate manifestazioni antiviolenza, mentre le italiane rispondono al rinnovarsi del richiamo talmudico "Se non ora quando".
Questo sommovimento internazionale è solo un riflesso d’indignazione al proliferare degli scandali sessuali del potere e al problema endemico e trasversale delle violenze, oppure il femminismo sta davvero tornando ad essere un attore protagonista sulla scena globale?
La mobilitazione torna a coinvolgere le giovanissime, rileva il Guardian, ma s’interroga su come verrà canalizzato politicamente questo patrimonio d’entusiasmo e rinnovata consapevolezza. Un confronto tra i due manifesti francesi mette bene in luce potenziale e criticità del nuovo femminismo. Negli anni Settanta, la battaglia per l’aborto libero e gratuito fu un collante formidabile, insieme alle lotte per la parità salariale, il divorzio, le modifiche al diritto di famiglia.
Obiettivi chiari, perseguibili con battaglie mirate e referendum. Oggi, l’agenda richiede azioni politiche, sociali, culturali complesse e mediate. Sradicare il sessismo è un compito educativo transgenerazionale. Non basta un referendum per trasformare l’immagine della donna nei media. Tutelare il lavoro impone di operare nel quadro più ampio dei provvedimenti contro la crisi. Non si tratta più solo di donne: SNOQ ha scelto uno slogan come "rimettiamo al mondo l’Italia", facendo storcere parecchi nasi femministi-ortodossi.
Sull’onda della nuova fioritura, si rinnova il dibattito su cosa il femminismo sia stato e debba essere. L’editorialista del Times Caitlin Moran in How to be a woman cestina la nozione di "sorellanza" ("quando hanno cominciato a confondere femminismo e buddismo?") e sembra tornare a The subjection of woman di John Stuart Mill (1869): il femminismo è uguaglianza tra i sessi, con buona pace del pensiero della differenza. Tante donne preferiscono parlare di "movimento delle donne ", per marcare un’autonomia ideologica rispetto al passato e scansare i sarcasmi e le vecchie fratture interne, che tendono a riproporsi. Sulla nascita di una autentica koiné (neo)femmista grava il mancato superamento di antichi dilemmi. Senza una vera "comunità epistemica" (un insieme di concetti, spiegazioni, ideali e policies condiviso) argomenta l’accademica Sylvia Walby nel saggio The future of feminism, il femminismo non riuscirà a dare la spallata fatale al paradigma patriarcale. Ed è sulla sessualità che persistono le divisioni più profonde: per questo, afferma Walby, ben poco di rilevante è stato scritto dopo il Rapporto Hite, la dirompente inchiesta sulla sessualità femminile del 1976.
Non a caso, è sul moralismo che puntano i detrattori delle proteste rosa: le donne fatalmente si dividono sull’opportunità dei riferimenti alla prostituzione, sul rischio di fossilizzarsi nella condanna delle "olgettine". Affibbiarsi l’etichetta di sluts o salopes e vestirsi come passeggiatrici è un’ironica rivendicazione di controllo del proprio corpo o l’ultima e più subdola forma di autodenigrazione? Hanno ragione le neofemministe che invocano una pornografia di donne per le donne? La Walby individua il fattore culturalmente più disgregante per il movimento nell’affermarsi di una "svolta neoliberista" anche nell’intimità. E’ davvero libera la donna che pratica sesso per ricavarne potere o vantaggi competitivi attraverso la manipolazione del piacere altrui, anziché cercando l’appagamento e l’incontro con l’Altro? La libertà sessuale non si riduce a un nuovo conformismo o, peggio, alla riedizione di una subalternità? Se lo chiedevano già le ragazze alla fine degli anni Settanta le cui voci e volti ci ha restituito Alina Marazzi nel documentario Vogliamo anche le rose: allora, se non la davi a tutti i "compagni" eri una frigida borghese. Oggi, rischi di passare per una frigida moralista, tra sguardi di sospetto e compassione.
La frammentazione nel pensiero femminista, d’altra parte, è specchio del vissuto delle donne: dunque non è un male, ma un sintomo di apertura e di vitalità. L’agenda politica è complessa come la nostra vita. Dentro e fuori, condizioni materiali e aspetti simbolici, personale e politico sono inestricabilmente mescolati. L’ordine simbolico si evolve con lentezza, oggi si incrociano aspettative sociali appartenenti a "ere geologiche" diverse. Le donne devono essere troppe cose insieme e Caitlin Moran legge nell’epidemia di nuovi disturbi alimentari come la "sindrome da abbuffata" un tragico compromesso: le donne sfogano fragilità e frustrazioni in una dipendenza che, diversamente da alcol e droghe, non compromette l’efficienza. Un’inchiesta britannica ha rivelato come l’insicurezza femminile sia parte del soffitto di cristallo che tiene le donne lontane dal top management. Jennifer Egan, vincitrice del Pulitzer 2011, ammette il surplus d’insicurezza che accompagna ogni scrittrice che sperimenti strade nuove.
L’archetipo materno della cura e del dono di sé e bisogni atavici di sicurezza e protezione mantengono profonde risonanze interiori nell’animo delle donne che hanno conquistato quella "stanza tutta per sé" vagheggiata da Virginia Woolf nel 1928. Spesso, abitarla significa ancora rinunciare a una nursery profondamente desiderata, o trovarsi in una camera matrimoniale vuota, e i tagli al welfare innescano ed esacerbano questi dilemmi interiori. Il nuovo femminismo conosce la fatica di muoversi tra le molte stanze, vuote o assediate, abbandonate o sovraffollate, attraverso cui ogni donna cerca di costruire il senso di sé e trovare il suo posto nel mondo, i rischi e il prezzo dell’agognata libertà. E cerca gli strumenti per attenuarli.
La riscoperta della sorellanza del "noi", con buona pace di Moran, è il primo passo. Non è ancora emerso un canone di testi per la battaglia delle donne del XXI secolo. Interrogandosi su quale sia la nuova bibbia femminista Granta suggella questa situazione sospesa, confusa ma feconda, chiedendo a tre scrittrici di parlare dei libri che hanno condizionato il loro personale romanzo di formazione. Farà sempre bene leggere classici come Memorie di una ragazza per bene, La mistica della femminilità o Tre ghinee. Ma la nuova bibbia dobbiamo scrivercela da noi.
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