IFE Italia

Il laboratorio dell’amore

di Vittorio Zucconi
venerdì 11 luglio 2014

Washington. In un laboratorio nel lontano West degli Stati Uniti sulle sponde dell’Oceano Pacifico, costruito e truccato per sembrare un civettuolo albergo di vacanze e riposo, migliaia di cavie umane transitano da 40 anni per aiutare i ricercatori a scoprire il segreto dell’amore. Non l’amore profano, la passione, il sesso, ma quel misterioso elemento che tiene unito un matrimonio oltre le colonne d’Ercole del tempo della noia, dell’abitudine e del divorzio. I media lo hanno ribattezzato the “Love Lab”, il laboratorio dell’amore e i due psicologi che lo hanno costruito, John e Juilie Gottman, preferiscono ovviamente questa romantica definizione al teutonico, e un po’ inquietante, nome accademico ufficiale, il Gottman Institute.

Ogni 30 secondi, neppure il tempo di bollire l’acqua, una coppia negli Stati Uniti divorzia. E i Gottman, insieme con un medico generalista e uno stuolo di assistenti nel laboratorio costruito sui terreni della Washington University, ogni giorno lavorano per fermare le lancette dei naufragi coniugali che cominciano a ticchettare nel momento stesso del giuramento reciproco e porteranno quattro matrimoni su dieci all’esplosione prima di raggiungere l’ottavo anno. Nessuno di loro, naturalmente, contesta la civiltà del divorzio, né il diritto di porre fine a relazioni e vite di coppia insostenibili, ma ogni matrimonio che muore è comunque un fallimento, oltre che spesso una catastrofe economica: soltanto in parcelle di avvocati e in spese legali, i divorzi costano ai coniugi 30 miliardi di dollari all’anno, abbastanza per costruire e varare tre superportaerei nucleari.

Se gli esperimenti e le ricerche nel Laboratorio dell’Amor Coniugale riaffiorano ogni anno nel mese di giugno (come è capitato anche una settimana fa con ampie citazioni sui giornali, tanto da meritare questo approfondimento solo su di loro) è perché questo è il mese per eccellenza dei “sì” che saranno pronunciati da coppie: circa 150mila volte, dalle cattedrali di Manhattan alle cappelle al neon con i fiori di plastica e i finti Elvis di Las Vegas. Voti che sono stati scambiati, fatti salvi episodi di profonda intossicazione alcolica non infrequenti a Las Vegas, di calcoli cinici e di infatuazioni momentanee, con profonda convinzione e partecipazione dai protagonisti. Perché mai, si chiesero i Gottman quarant’anni or sono, in quegli Anni ‘70 che registrarono l’esplosione di quell’istituto matrimoniale, addirittura di quel sacramento nel caso dei riti cattolici romani, che altre generazioni avevano vissuto per amore o per forza come indissolubile, quattro su dieci di quegli sposi falliranno miseramente in pochi anni? Le statistiche e la gigantesca letteratura legale e giudiziaria hanno da tempo individuato le cinque cause principali dei naufragi, in America: nell’ordine, la mancanza di comunicazione; le finanze di famiglia; le violenze fisiche o psicologiche; la perdita di interesse nell’altro e, buon’ultima, l’infedeltà. Ma quello che il “Laboratorio” voleva scoprire era che cosa unisse, non che cosa dividesse. Dopo avere compulsato tonnellate di carte ed estrapolato numeri a chilometri (la prima scienza nella quale John Gottman si era laureato al Mit di Boston era la matematica), la moglie e lui decisero di condurre test fisiologici e psicologici sui volontari.

Centotrenta coppie di novelli sposi furono invitate per un soggiorno nel resort sul Pacifico e trattate come fossero in luna di miele. In cambio, mariti e moglie, non necessariamente giovani, ma anche maturi, si sottoponevano a qualche ora di test condotti con elettrodi, contatti, misuratori di pressione, rilevatori di sudorazione, studio della muscolatura facciale, a tutti gli esami che potessero misurare le loro reazioni di fronte al coniuge e nelle situazioni di conflitto.

La prima ed essenziale scoperta fu una profonda differenziazione fra coloro che i Gottman chiamarono i master, i padroni di sé, e i disaster, quelli probabilisticamente avviati alla catastrofe. Ciò che distingueva gli uni dagli altri era la capacità dei master appunto di padroneggiare il meccanismo fondamentale di reazione di ogni animale di fronte a una difficoltà: l’istinto di fight or flight, di battersi o fuggire. Quanto più brusca e forte era la reazione misurata dagli strumenti, tanto più probabile era che ogni pretesto, ogni discussione, ogni lite nel futuro della coppia potesse degenerare nella fuga o nella lotta. Quanto più serena e collaborativa, al contrario, era la risposta, tanto maggiore sarebbe stata la disponibilità ad affrontare insieme gli inevitabili ostacoli e le trappole della vita di ogni coppia.

Piccoli esempi di futuri comportamenti erano ricavati da episodi apparentemente irrilevanti, come il “caso del picchio”. Nei boschi attorno al Love Lab, i picchi abbondano, e inevitabilmente passeggiando uno dei due sposi ne avrebbe notato uno. «Guarda! Un picchio!». L’osservazione, notano da allora i ricercatori, ha spesso nulla a che vedere con un improvviso interesse ornitologico. Lei, o lui, vogliono semplicemente indicare un oggetto di attenzione, un fiore, un animale, una vista, che possa servire a stabilire un dialogo con l’altro, dove il picchio, o l’usignolo, o la civetta, sono soltanto il pretesto. I master sanno rispondere al richiamo e aprire una conversazione, anche se dei picchi a loro non potrebbe importare di meno. I disaster si stringono nelle spalle e restano con i propri pensieri. «Si voltano via, anziché voltarsi verso l’altro » riassume Gottman.

Alle fine dei test, delle osservazioni e degli esami, le coppie di quella prima vacanza sotto gli sguardi dei cercatori d’amore furono seguite e così tutte le altre che presero via via il loro posto. E nello spazio di decenni, le profezie distillate dagli alambicchi del laboratorio si sono rivelate esatte al 90%. Nove su dieci coppie candidate all’insuccesso divorziano entro gli 8 anni della media nazionale. E nove sulle dieci master sono arrivate oltre i 30 anni di unione. Un successo fondato su due parole di sconvolgente, quanto apparente banalità: gentilezza e generosità.

Non cortesia formale, da portiera aperta, non generosità da ninnoli e fiori (anche se contano pure quelli), ma gentilezza e generosità di spirito, nella ricerca dei pregi altri, nel riconoscimento dei sacrifici, nell’accettazione dei propri limiti. La capacità di apprezzare l’impegno, anche quando il risultato è pessimo, risolve i conflitti più banali che possono incancrenirsi fino a intossicare. Tutto, nel laboratorio dell’amore, alla fine si riassume nel dualismo fra la “passività distruttiva” e la “passività costruttiva”, nel dare, per ricevere. È sempre l’ingrediente magico di Giulietta, quando dice a Romeo: «Eppure io non desidero altro se non quello che possiedo, la mia generosità». Anche se bisogna ammettere che la loro storia non finì proprio benissimo.


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